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Il mercato non è più Dio

di Marco D’Eramo - 10/11/2009

  
 
Prem Shankar Jha: «L'ideologia economica neoliberista spazzata via dalla crisi» L'avidità della finanza, il declino dello stato-nazione, il ruolo delle potenze «emergenti» nell'era globale. Per l'economista indiano Shankar Jha solo una transizione tecnologica potrà rilanciare l'economia. E se non abbandona i combustibili fossili, il capitalismo sarà stato l'inizio della fine del genere umano

È rarissimo essere lodati insieme da uno storico antisistema come Eric Hobsbawm e da un economista dell'establishment come Mario Deaglio. Succede a Prem Shankar Jha, il cui Il caos prossimo venturo (2007, Neri Pozza) è preceduto da un'entusiastica presentazione del primo e ha ottenuto un'altrettanto encomiastica recensione del secondo. Già funzionario dell'Onu, consigliere economico del governo indiano, corrispondente dell'Economist, e poi direttore di uno dei più importanti quotidiani indiani, Jha ci offre una visione inabituale dell'economia: il mondo della globalizzazione come lo vede un tecnocrate non occidentale che lo guarda da una prospettiva diversa, quella delle nuove potenze asiatiche.

La settimana scorsa Jha si trovava a Roma invitato da Asiatica Film Mediale (rassegna del film asiatico alla sua decima edizione), per tenere un dibattito con Massimo D'Alema. Questa conversazione è avvenuta allora in un albergo di fronte a Montecitorio.

Pensa che siamo davvero fuori dalla recessione, come molti dicono?

Fuori non dalla recessione, ma dalla sua fase peggiore. Mi preoccupa che la ripresa sarà molto lenta, perché la crisi ha colpito l'Occidente alla fine di un rallentamento, in particolare per le economie industriali: le cui industrie negli ultimi trent'anni si sono via via trasferite in Asia, Europa orientale, America latina. La crisi agisce su una tendenza soggiacente di economie che perdono forza: così oggi senza un potente incentivo a investire - per esempio una transizione tecnologica - non è pensabile una ripresa veloce.

Molti vedono questa crisi come l'inizio della fine per lo strapotere americano. Dopo il crollo di Lehman Brothers, si è detto che «il mondo non sarà più lo stesso». Ma del declino americano ho sentito parlare fin da quando ero bambino...

Sarà, ma di tutte le economie industrializzate, quella che ha la massima capacità di recupero è proprio l'economia americana. Se c'è un'economia che riuscirà a risalire in fretta, è quella Usa. Per Bear Stern, Lehman Brothers e Aig il crollo è arrivato alla fine di un lungo periodo di associazione troppo stretta tra stato americano e capitale finanziario. Ora quell'associazione si è incrinata. E poiché il capitale finanziario non è mai del tutto separato dal capitale reale, ora è cambiato l'atteggiamento del governo americano verso General Motors, Chrysler, i pilastri dell'industria del passato: questi si sentono dire "Vi salviamo, ma prendiamo il controllo". Gli Stati Uniti sono l'economia più capace di ripresa proprio perché sono capaci di forgiare nuove relazioni, adattarsi alla nuova situazione. In una frase, direi che l'esito più importante di questa crisi è stato distruggere l'ideologia economica neoliberista. È stata spazzata via l'idea che "il mercato è dio".

Pensa davvero che l'ideologia neoliberista sia finita? Molti continuano a pensare che è stato un incubo, ma la notte è trascorsa e tutto riprenderà come prima.

Una nuova regulation del mercato richiede tempo, esige un'interazione tra opinioni pubbliche e governi eletti. Ma anche in questo gli Stati Uniti sono molto più avanti dell'Europa, con l'eccezione forse della Gran Bretagna. Sì, perché Gordon Brown è un ottimo economista, tra i leader mondiali è quello che capisce più di economia, anche più di Obama, direi. Si è messo all'avanguardia, ad esempio, quando ha detto che non è il momento di preoccuparsi del deficit. E poi con il G20, quando ha detto che non sono possibili soluzioni nazionali: ci saranno solo soluzioni globali. Brown ha avuto un ruolo determinante nel creare il contingency fund del Fondo monetario internazionale, finanziato con 750 miliardi di dollari. E' stato un passo importante, in primo luogo per i paesi in via di sviluppo, e anche per le economie di India e Cina, cui non basta finanziare la domanda interna: devono far ripartire le esportazioni; ma esportare a chi se i paesi in via di sviluppo non hanno soldi per comprare? Quindi devono potersi rivolgere al Fmi, ed è qui che interviene il contingency fund.

Quanto "emergenti" sono davvero le economie cosiddette emergenti? Nei primi anni '90 Giovanni Arrighi prediceva che il Giappone avrebbe presto preso il posto degli Stati uniti come superpotenza economica. Subito dopo, il Giappone fu colpito dalla crisi asiatica. Ora la Cina ha lo stesso ruolo: allora il Giappone era la fabbrica d'America, con un gigantesco surplus commerciale e la Banca centrale nipponica deteneva montagne di dollari e Federal bonds, proprio come la Bank of China oggi. Non sarà che le potenze emergenti non finiscono mai di emergere, e restano sempre sotto il controllo degli Stati uniti?

Bisogna sapere cosa intendiamo per "emergente". L'idea di "potenza emergente" è legata all'idea di stato-nazione, che però è durata appena 200 anni. E forse è stata un'anomalia nel corso storico, con le sue culture omogenee, con le persone costrette a uniformarsi alle richieste dello stato, che poi sono le richieste del capitalismo embedded nello stato: tutto ciò è stato vero solo negli ultimi 200 anni. Giovanni Arrighi è un guru per me; quel che ha visto bene è il contributo unico dato dal Giappone alla crescita del capitalismo, cioè un modo del tutto nuovo di organizzare la produzione, nel rapporto tra produzione e marketing, tra upstream e downstream, legando il tutto allo stato: il potere dello stato nella sfera economica nella sua forma più sofisticata ed efficace. Questo ha permesso una formidabile crescita della produttività, di cui il Giappone ha saputo approfittare Ciò che Arrighi non ha visto è che lo stato-nazione è stato superato dalla globalizzazione e che il Giappone era totalmente integrato e dipendente dal mercato americano, mentre la deindustrializzazione stava togliendo forza agli Stati uniti. Così quando negli anni '90 l'hedge fund Long Term Capital Management crollò, scatenando la crisi, il Giappone non si è più risollevato. La Cina oggi è un caso diverso. Nulla a che vedere con il Giappone; la Cina si limita ad assemblare. Il valore aggiunto cinese sul mercato dell'export conta per appena il 5% del Pil perché importa un'enorme quantità di semilavorati che si limita ad assemblare, per cui ha un enorme deficit con Giappone, Corea del sud, Taiwan e altri paesi dell'Asean, e un grande surplus commerciale con l'Occidente. In altre parole, è un'economia dipendente dal lato dell'input e dal lato dello sbocco. Perciò non ha la libertà d'azione che avevano le "potenze emergenti" del XIX secolo: non potrebbe mai minacciare una guerra. Il vero pericolo, con la Cina, è che ci sono ampie zone del mondo che non sono integrate a quel sistema estremamente interdipendente che è il sistema di produzione globale. E nei confronti di queste zone del mondo, può far valere la sua potenza.

Crede che egemonia americana e globalizzazione siano inseparabili? La fine della soperpotenza americana significa fine della globalizzazione - o vedremo una nuova globalizzazione con una nuova geografia del potere?

Nella fase dello stato nazione, a egemonia prima britannica, poi statunitense, potere economico e politico coincidevano. Ma ora nell'era globale non è più così. Il grado d'interdipendenza economica è tale ormai che il potere politico, nel mondo, dovrà essere esercitato in modo da conformarsi alla distribuzione del potere economico. Proprio per questo, il tentativo degli Stati uniti di sviluppare un'egemonia unipolare nel mondo è stato un'aberrazione che ne ha accelerato il declino. Gli Usa sono un paese spossato. E i suoi nemici, ad esempio in termini di terrorismo, sono cento volte più forti oggi di dieci anni fa.

Si sottovaluta la dimensione militare del potere. Il vero Fort Knox degli Usa è il loro arsenale atomico.

Non credo che l'atomica sia una riserva di valuta. E' un'arma che non si può usare. Non c'è un caso in cui abbia funzionato - neppure con l'Unione sovietica. L'Urss non è crollata per la superiorità militare americana, ma perché la sua economia pianificata non era efficiente, non produceva nulla che fosse vendibile sul mercato globale. Fino all'ultimo, l'Urss piazzava sul mercato globale solo le sue materie prime: legname, alluminio, gas e petrolio. L'aumento dei prezzi del petrolio dal 1973 le dette una boccata d'ossigeno artificiale, ma quando il prezzo del petrolio crollò nel 1986, per l'Urss fu la fine.

Torniamo alla crisi. La deregulation finanziaria globale ha permesso la grande crescita di Cina e India. Ora, dopo il crash, molti chiedono più regulation. Ma questo non colpirà per esempio la crescita indiana?

Un momento. Regolamentazione non significa protezionismo - e deregulation non significa libero mercato. E poi non è la deregulation che ha permesso la rapida crescita di Cina e India, o del sud-est asiatico. Sono stati tre fattori: 1) la rivoluzione dei trasporti, che ha abbassato i costi al punto che il trasporto di un prodotto dal Vietnam negli Usa costa meno della differenza dei salari tra i due paesi; 2) la rivoluzione delle tecnologie dell'informazione, per cui dalla casa madre è possibile controllare minuto per minuto la produzione di una fabbrica a miglia di km di distanza. 3) la crescente differenza dei salari creata dagli stati nazione, cioè da una regulation interna che si scontra con la deregulation esterna. Il gap salariale è cresciuto perché rispetto al XIX secolo l'immigrazione è stata contingentata. Per cui la globalizzazione si è prodotta proprio perché non c'è stato un libero mercato del lavoro. Non bisogna confondere libero mercato con deregulation. Lo diceva già Karl Polanyi ne La Grande Trasformazione.

Quest'anno per la prima volta da mezzo secolo, le emissioni di CO2 sono scese, ma a causa della recessione: una pessima notizia economica è un'ottima notizia ambientale. I leader mondiali, a cominciare da Barack Obama, si dicono allarmati dal cambiamento del clima ma non fanno altro che stimolare una ripresa fondata sulla solita logica inquinante...

Non è Obama: è la logica del capitalismo, in cui la stabilità politica può essere comprata solo dalla costante crescita economica. E questa è la ricetta per la distruzione della razza umana. Chissà, forse in un'era futura, su qualche stella lontana, gli studiosi concluderanno che la nascita del capitalismo è stata l'inizio dell'estinzione del genere umano. Intanto però è assolutamente necessario uscire dall'era dei combustibili fossili. E per soddisfare il massiccio bisogno di energia del pianeta senza combustibili fossili c'è una sola alternativa, il sole. La sfida tecnologica oggi è come catturare l'energia del sole in modo altrettanto concentrato, versatile e accessibile di quella del petrolio e del carbone. Le tecnologie per farlo ci sono; se non si usano è perché ledono forti interessi costituiti.

Ma questo non risolve il problema della crescita e della stabilità.

Se abbandoniamo i combustibili fossili, sarà possibile continuare a crescere, e così la stabilità non sarà messa in pericolo. Poi, in teoria, quando il mondo avrà raggiunto un livello di benessere per cui nessuno avrà desiderio di consumare di più... In fondo è quel che è avvenuto nelle società industriali prima della recessione, avevano raggiunto un livello di consumi tale da poter essere ambientaliste... Ma certo resta una lunga strada prima che l'Africa raggiunga questo livello. No, nessuno vuole rinunciare alla crescita: posso garantire che Cina e India non rinunceranno, e da sole possono avvelenare l'intero pianeta. Così non c'è alternativa: bisogna abbandonare i combustibili fossili. E' necessario trovare le risposte tecnologiche ed economiche, e ci sono, emergeranno nei prossimi anni anche grazie alla pressione della crisi. E quando saremo usciti dai combustibili fossili, il conflitto tra crescita e avvelenamento dell'atmosfera verrà meno. Con la crescita avrà luogo una convergenza. Già ora una larga parte del mondo in via di sviluppo si sta avvicinando ai paesi ricchi, ma almeno un quarto della popolazione mondiale, un miliardo e mezzo di persone, resta fuori. Va portato dentro, incluso nella redistribuzione mondiale. Si parla di sistemi di crediti, esenzioni, sovvenzioni per i paesi meno sviluppati. Vanno estesi e inclusi in una ristrutturazione della governance globale. Anche la ristrutturazione del sistema di prezzi e sovvenzioni sull'energia va fatta su scala globale. Sono certo che si può fare, magari in una quarantina d'anni. Non lo vedremo? No, ma lo vedranno i nostri nipoti.