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Obama un Messia fallibile

di Guido Ceronetti - 24/11/2009

  
 
Siamo più soli quando al vertice di un grande potere - oggi in un mondo mondializzato - si sente mancare la personalità adeguatamente carismatica, il magnetismo che, invece di perdere, salva. Non si può restare sempre chiusi nella meschinità cronica dei fatti propri, quando si è attaccati al pensiero; perciò si guarda a quel che accade fuori della finestra, si soffre, si spera, si sogna. Obama è parso, via via che lo depuravano e lo manifestavano le primarie, l’uomo che doveva venire. Obama era l’uomo da eleggere: l’America era pronta a seguirlo. Obama è stato portato là dov’è ora da un’ondata messianica... Il messianismo è un vizio, se non si crede nell’impossibile si è morti.

Il viaggio in Asia lo ha mostrato, è crudele dirlo, Messia fallibile, fallituro, addirittura Messia that failed, che ha fallito. La sua immagine (lui solo, sullo stretto valico, nell’impassibilità beffarda della Grande Muraglia) non è quella di un vincitore. E’ andato, ha giocato, ha perso. Presunzione o ingenuità punite. Grandi muraglie dappertutto, nessun varco. Gli Stati Uniti non possono perdere, neppure quando il loro ambasciatore abbandona Saigon con la bandiera arrotolata sotto il braccio (una delle immagini del tragico del secolo); possono però non vincere, né aiutare a vincere le buone cause, che è la loro missione predestinata.

Possono tuttavia perdere le vivendi causas, i motivi etici che giustificano e illuminano il nostro, altrimenti, vivere da bruti. La creatività obamiana, divine surprise, ha srotolato la bandiera americana, chiamando a raccolta figli dei fiori e credenti dell’Età dell’Acquario, agricoltori biologici, medici olistici, terrofili oscurati, nonviolenti, batesoniani sfiduciati, eretici cristiani, musulmani nauseati dalle stragi, frequentatori in crescita di pensiero assassinato, riproponendola al mondo lavata in qualche niagara non inquinato, con impressa la leggenda stupefacente di giusto mezzo secolo fa: L’IMMAGINAZIONE AL POTERE.

Pochi passi di questo neopotere conferito addirittura all’Immaginazione (come ne sarebbe stato rallegrato nel suo pessimismo rilucente Cornelius Castoriadis!) ed ecco, dopo cento e più giorni, la testa mozza dell’Immaginazione spenzolante dalla Grande Muraglia, surrogata sollecitamente da quella della politica realistica, del soccorso agli affamati di libertà illusorio, della resa completa decorata di fiorellini di plastica da tumulo davanti alla grata conventuale spietata, implacabile, sprezzante, dei geronti totalitari cinesi.

Ahimè, Robespierre non sbagliava: «La Virtù, senza il Terrore, è impotente» (una spada a due tagli, stiamo attenti con quel che è troppo geometrico). Sempre verde anche la massima di La Fontaine: «Bisogna fare ai malvagi guerra continua». La forza non diventerà mai diritto, ammoniva Manzoni, però un diritto sventolato senza, a sostenerlo, la forza (fosse pure una dirompente forza spirituale sfondatutto, dinamite nicciana orientata bene) finisce sotto i piedi di chi i diritti ignobilmente li schiaccia.

La grande America non è uscita alla pari dal Vertice di Pechino: ci abbiamo visto specchiata, attraverso la nuvolaglia di smog perpetuo, un’America senza immaginazione, trafitta dalle sue stesse banche, tenagliata dal debito con l’impero cinese - ci abbiamo letto lo smarrimento di un Messia that failed, che si piega ai compromessi, che non è libero neppure di abbracciare l’intrepido messaggero del Tibet in sempiterno vagabondaggio d’esilio, e abbiamo ascoltato ancora una volta la forbita oratoria di un distinto signore seduto su un impressionante arsenale nucleare, che col diploma incongruo di Premio Nobel per la Pace appeso al chiodo non sa fare né la pace né la guerra, si rimette in fretta a scuola di realismo pratico, rinuncia a combattere la urgentissima crociata ambientalista, concede che il Dollaro venga sodomizzato senza fine dall’Euro (che per parte sua è in fatto di potere d’acquisto sempre più povero), non sa neppure chiudere quella galera cubana che non riusciamo più a digerire. Da due mesi esita a prendere una decisione strategica sulla guerra afghana. Se John Kennedy avesse esitato così nella tremenda crisi cubana del 1962, l’Urss avrebbe fatto dell’isola una murata Città d’Acciaio alla Jules Verne, segnale di morte per le tre Americhe.

Caro Barack, perché tanta fretta di togliere dal tuo arredo la vernice messianica, e scoprire la calce nuda della inevitabile Fregatura? Non potevi lasciarci ancora una fessura aperta sul sogno? Viene in mente un famoso titolo di romanzo del Trenta, lo scrittore era Hans Fallada: E adesso, pover’uomo ?