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Giovanni Papini: l’anima più lacerata del cattolicesimo italiano del Novecento

di Fabrizio Legger - 25/11/2009

                                    
Giovanni Papini nacque a Firenze nel 1881, da una famiglia di modeste condizioni, e morì, sempre nel capoluogo toscano, nel 1956.
Sin da bambino mostrò un carattere scontroso, solitario, introverso. Il padre, ateo, massone, repubblicano, manteneva la famiglia con i proventi di una bottega da falegname. La madre, cattolica, fece battezzare il figlio segretamente, per non urtarsi con il marito, ma Papini, sin dalla giovinezza, mostrò uno spiccato interesse per le scienze e le filosofie religiose.
Lettore precocissimo, lesse uno dopo l’altro tutti i libri del padre, e questa sua passione smodata per la lettura continuò inesausta anche durante gli anni delle elementari e delle superiori.
Papini era un lettore onnivoro: letteratura, filosofia, religione, storia, poesia, estetica, tutto veniva letto e memorizzato dalla sua mente prodigiosa. Egli voleva leggere tutto, sapere tutto, conoscere tutto: la lettura era per lui una sorta di “alimento fisico”, che non conosceva requie. Divorava i libri come fossero noccioline, leggendoli uno dopo l’altro, anche se si trattava di tomi consistenti di 700 od  800 pagine l’uno. La sua passione smodata per la lettura era una specie di frenesia, la quale, ben presto, trovò una compagna altrettanto smodata in un’altra grande e travolgente passione: quella per la scrittura. 
Nel 1895, scrisse il suo primo racconto, intitolato: Il leone e il bimbo. Tra il 1896 e il 1897, insieme al compagno di scuola, Ettore Allodoli, realizzò e scrisse due rivistine: “La Rivista” e “Sapientia”.
Nel 1898 strinse amicizia con lo scrittore Giuseppe Prezzolini e con il drammaturgo Ercole Luigi Morselli: con il primo restò amico per tutta la vita, condividendo con lui avventure letterarie e imprese culturali, fondando riviste e operando attivamente per lo svecchiamento della cultura italiana.
Intanto, tra il 1900 e il 1902, insegnò dapprima italiano all’Istituto Inglese di Firenze, poi fu assunto come bibliotecario al Museo di Antropologia.
Anche negli anni della maturità, Papini mantenne il suo carattere scontroso e polemico, burbero, incline alla diatriba e alla tenzone verbale, diventando una sorta di “guerrigliero intellettuale” e di vero e proprio “corsaro della penna”.
Era indubbiamente una persona difficile da frequentare, piuttosto polemica, permalosa, litigiosa, avida di diatribe, a tratti assai sfottente, decisamente molto superba e caratterizzata da un orgoglio smisurato e da una intelligenza davvero sorprendente.
Forse, fu anche a causa di questi aspetti del suo carattere se ebbe poche schiette amicizie e se visse, più che altro, da solitario, sdegnoso nei confronti del mondo così meschino e dell’umanità sorda ed ottusa che sembrava non capire e non accettare la titanica grandezza della sua anima assetata di assoluto, di verità supreme e di giustizia universale.
Nel 1903 uscì il primo numero de “Il Leonardo”, una delle riviste più interessanti tra quelle ideate e redatte da Papini insieme all’amico Prezzolini, che continuò ad essere edita sino al 1907. Nel 1906 pubblicò il suo primo libro, intitolato: Il crepuscolo dei filosofi, e, nello stesso anno, un altro volume, dal titolo: Il tragico quotidiano. Sempre nel 1906 soggiornò a Parigi per due mesi, dove ebbe modo di frequentare artisti e scrittori come Gide, Picasso, Sorel.
Nel 1907 sposò una ragazza di Bulciano, paese della campagna toscana confinante con l’Umbria, Giacinta Giovagnoli, dalla quale ebbe due figlie, e nello stesso anno pubblicò il libro di racconti Il pilota cieco.
Nel 1909 Papini conobbe il padre del Futurismo italiano, Filippo Tommaso Marinetti, e per qualche anno aderì allo spirito letterario dei Futuristi, partecipando anche alle turbolente serate che queste simpatiche teste calde organizzarono a Firenze così come in tante altre città italiane.
Nel 1911, però, la sua irrequietezza spirituale lo portò a fondare una nuova rivista: “L’anima”, in collaborazione con Giovanni Amendola. La rivista, dai forti contenuti spirituali, venne edita, purtroppo, soltanto per un anno, a causa degli elevati costi di stampa.
Intanto, Papini si era ritirato con la famiglia a Bulciano, in un piccolo podere di proprietà della famiglia della moglie.
Ivi, nella serena quiete della campagna toscana, si dedicò ad una febbrile attività letteraria: curò una collana di classici della mistica per l’editore Carabba, scrisse opere come L’altra metà e La vita di Nessuno, e anche uno dei suoi capolavori, vale a dire quella sorta di diario spirituale e letterario intitolato Un uomo finito, che venne pubblicato nel 1912.
Questo libro, sostanzialmente una sorta di biografia intellettuale e spirituale, è certo una tra le opere migliori dello scrittore fiorentino: in essa, Papini tesse un vero e proprio elogio della continuità trasformistica e del radicalismo polemico che caratterizzavano la sua attività letteraria.
Anticipando Pier Paolo Pasolini di oltre mezzo secolo, Papini si rivelò scrittore corsaro e scrittore eretico, una sorta di guerrigliero intellettuale armato di un eloquio impareggiabile e di una vis polemica dotata di un sarcasmo invincibile.
Un uomo finito è sì la storia del suo spirito lacerato e irrequieto, di un intellettuale mai pago e mai soddisfatto, sempre in perpetua lotta con il suo tumultuante mondo interiore e con il mondo esterno che lo circonda, ma è anche la vicenda di un uomo di intelletto acuto e di forte sentire che passando di certezza in certezza, di disfatta in disfatta, di crisi in crisi, di battaglia in battaglia, di polemica in polemica e di entusiasmo in entusiasmo, prende coscienza, al tempo stesso, della sua grandezza e della sua miseria, dei suoi meriti e dei suoi difetti, delle sue aspirazioni e della sua realtà, offrendoci alla fine del libro un ritratto davvero completo, impietoso, lucido e ironico di sé, del suo mondo interiore e della sua insopprimibile brama di essere e di affermarsi nell’arduo agone della provinciale cultura italiana.
Dopo aver pubblicato Un uomo finito, nel 1913, insieme al suo fraterno amico Prezzolini, fondò una rivista prestigiosa, “Lacerba”, alla quale collaborarono i maggiori scrittori italiani dell’epoca, tra cui Serra, Slataper, Croce, Soffici, che venne edita sino al 1915, anno in cui l’Italia partecipò alla Prima Guerra Mondiale.
Frattanto, Papini aveva scritto e pubblicato un libro intitolato Gesù Peccatore, nel quale si potevano già notare le anticipazioni della crisi spirituale e della conseguente conversione religiosa che, nel 1919, lo portò ad aderire totalmente al cattolicesimo.
Durante i terribili anni della Grande Guerra, al contrario di quanto fecero Marinetti, D’Annunzio, Ungaretti, Slataper e Serra, Papini non andò in trincea, non potendo partecipare agli eventi bellici a causa della forte miopia che lo tormentava.
Ma dal 1915 al 1918 scrisse molte opere: saggi, poesie, racconti, tra cui i volumi Pragmatismo, Buffonate, Cento pagine di poesia, Opera prima, Stroncature, Polemiche religiose, L’uomo Carducci, mostrando una creatività e una prolificità davvero prodigiose ed eccezionali.
Nel 1918, anche in seguito agli orrori della guerra, la sua crisi religiosa si fece più acuta. Nel 1919 aprì il suo cuore a Cristo e si convertì al cattolicesimo. Il 19 agosto dello stesso anno iniziò a scrivere una delle sue opere più famose: Storia di Cristo, che fu pubblicata in volume nel 1921 e che ottenne un grande successo, vendendo, in un anno, la cifra strepitosa per quei tempi di settantamila copie.
Con tale opera, Papini irruppe come un uragano sulla scena della letteratura mondiale, nella sua nuova veste di scrittore cattolico intransigente, polemico come un Sant’Agostino, sentenzioso come un Dante, riconvertito come un Manzoni… E fu un’irruzione che fece scalpore, perché la Storia di Cristo fu uno dei libri italiani del primo Novecento che ebbe il maggior successo di pubblico, tanto in Italia che all’estero, con decine e decine di traduzioni.
Infatti, a partire dal 1922, il libro fu tradotto in francese, spagnolo, polacco e portoghese, e Papini diventò celebre, a livello europeo, come grande scrittore cattolico.
Nell’ambito della carriera letteraria papiniana, questo libro segnò una tappa fondamentale del suo inquieto e burrascoso girovagare tra letteratura, filosofia, storia e teologia, dando una svolta decisiva sia alla sua evoluzione interiore, sia al suo ruolo di intellettuale e polemista particolarmente attento e sensibile alla problematiche e alle contraddizioni della sua epoca.
Nonostante il successo del libro, aspre furono le critiche che gli giunsero da alcuni ambienti clericali, risentiti per certi aspetti della figura di Cristo delineata da Papini e per certi strali polemici lanciati contro un clero inteso come “potere forte”, in grado di esercitare un influsso e un controllo capillare sulla società.
Il dantesco Papini, però, non si curò troppo di queste critiche e proseguì dritto per la sua strada di scrittore critico e di intellettuale polemico, convinto com’era che all’alienante ed edonistica società del XX secolo abbisognasse più che mai una riapparizione dell’Uomo-Dio, tanto da indurlo a scrivere, a pagina 623 della Storia di Cristo, pensieri severi ed inflessibili come questi:
“In nessuna età come in questa abbiamo sentito la sete struggente d’una salvazione soprannaturale. In nessun tempo, di quanti ne ricordiamo, l’abiettezza è stata così abietta e l’arsura così ardente. La Terra è un inferno illuminato dalla condiscendenza del sole. Ma gli uomini sono attuffati in una pegola di sterco stemperato nel pianto, dalla quale si levano, talvolta, frenetici e sfigurati, per buttarsi nel bollor vermiglio del sangue, con la speranza di lavarsi”.
Ma il 1922 fu un anno di grandi cambiamenti non solo per Papini, ma anche per l’intera Italia.
Infatti, in quello stesso anno, dopo la trionfale Marcia su Roma, Mussolini formò il suo primo governo fascista.
Papini guardò con interesse al fenomeno fascista, un interesse che diventerà simpatia aperta soprattutto a partire dal 1929, quando, con la firma dei Patti Lateranensi, il fascismo divenne il principale interlocutore politico della Chiesa cattolica.
Intanto, continuava a scrivere e pubblicare altre opere: Pane e vino, Gli operai della vigna, Sant’Agostino, I nipoti d’Iddio, Eresie letterarie, proseguendo nel contempo attente letture delle opere dei Padri della Chiesa e di quelle dei filosofi della Scolastica.
Nel 1933, lo scrittore fiorentino vinse il prestigioso Premio Firenze con il volume di saggi danteschi intitolato: Dante vivo, ottenendo anche l’ammirazione di Mussolini, che gli riconobbe le sue grandi qualità letterarie. Nel 1935 venne nominato professore di Letteratura italiana all’Università di Bologna, ottenendo la stessa cattedra che era stata del Carducci, ma si vide costretto a rifiutare a causa dei gravi problemi di vista causatigli dalla forte miopia.
Pubblicò, intanto, Ritratti stranieri, Il sacco dell’Orco, Poesie in prosa, Poesie in versi, La pietra infernale, spaziando dalla narrativa alla lirica, dalla saggistica alla critica letteraria, dalla narrativa alle prose polemiche.
Tra gli scritti di questi anni, caratterizzati da una piena collaborazione intellettuale con il regime fascista, assai interessanti sono un paio di volumetti intitolati Chiose alla Russia rossa e Politica e Civiltà, pubblicati, rispettivamente, nel 1936 e nel 1937, in cui Papini prende posizione contro l’Urss di Stalin e il regime staliniano.
Una posizione dura, ferrea, intransigente, resa tale anche dalle notizie giungenti dalla Russia delle atroci persecuzioni a cui era sottoposta la Chiesa ortodossa moscovita, persecuzioni caratterizzate da distruzioni di edifici sacri, chiusura di conventi, distruzioni di immagini sacre, invio di monaci e monache negli infernali gulag siberiani, torture e uccisioni di pope che manifestavano il loro dissenso contro la spietata dittatura di Stalin.
Scevra da remore di sorta, la penna di Papini bolla intransigentemente il regime bolscevico-stalinista per ciò che realmente fu, tanto da scrivere:
“Prima del 1918 i lavori forzati erano di regola soltanto in alcune province della Siberia; oggi la Siberia ha invaso tutte le Russie, e l’Unione Sovietica altro non è che una immensa casa di pena, dove carcerieri e prigionieri sono egualmente puniti da un mutuo terrore. Il governo di Mosca è una autocrazia feroce e bigotta, dove lo czar è un antico svaligiatore di banche” (alludendo, con il termine czar, al sanguinario Stalin, il quale, in effetti, si comportava da autocrate, più simile ad uno zar moscovita che non ad un vero rivoluzionario bolscevico).
Nel 1938, Papini iniziò a collaborare alle pagine culturali de “Il Corriere della Sera”, mentre tra il 1939 e il 1940, reso angosciato e inquieto dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, incominciò a scrivere opere imponenti, di carattere profetico ed epico-apocalittico, come le Lettere agli uomini e il Giudizio Universale.
Nel 1942 si recò nella Germania nazista (nonostante la scarsa simpatia che provava per il regime hitleriano e il Fuhrer tedesco), a Weimar, per partecipare al Convegno della Unione Europea degli Scrittori, e il suo intervento, definito “italianissimo”, gli suscitò il plauso e l’approvazione di Mussolini.
L’anno seguente, con la caduta del regime fascista, la firma dell’Armistizio e l’inizio della sanguinosa guerra partigiana, per Papini ebbe inizio un periodo assai brutto.
A causa delle sue simpatie fasciste era sempre più isolato, mentre il suo tacito appoggio alla Repubblica Sociale Italiana lo rese detestato dalle bande partigiane operanti in Toscana.
Dopo il barbaro e brutale assassinio di Giovanni Gentile, ad opera dei partigiani comunisti, Papini sentì che il clima, nel Paese, diventava sempre più cupo e più ostile. Inquieto, molto timoroso per sé e per la sua famiglia, rifiutò la Presidenza dell’Accademia d’Italia offertagli dal governo della RSI e si rifugiò nel podere di Bulciano.
Ma attorno a Bulciano ferveva la lotta tra le bande partigiane e le milizie fasciste e tedesche: allora Papini cercò protezione nel Convento della Verna, e nel luglio del 1944 divenne terziario francescano con il nome di Fra’ Bonaventura.
Sempre nello stesso anno si rifugiò ad Arezzo, nel palazzo del vescovado, per sfuggire alle persecuzioni delle fanatiche bande partigiane comuniste (che gli avevano fatto esplodere con la dinamite il podere di Bulciano e gli avevano saccheggiato e devastato l’appartamento a Firenze, per un chiaro atto di ignobile vendetta contro le sue idee filofasciste e cattoliche), e intanto seguitava a scrivere: proseguì il Giudizio Universale, ma compose e fece pubblicare anche opere come Racconti di gioventù, Cielo e Terra, L’imitazione del Padre.
Nel 1945, con la fine della Guerra, terminò le dure ed amarissime Lettere agli uomini, che furono pubblicate l’anno successivo. Sempre nel 1946, fondò la rivista intitolata (quasi significativamente) “L’Ultima”.
Sconvolto dalle violenze immani della Guerra, dall’orrore della bomba atomica, dalle atrocità del comunismo stalinista e dalla distruzione abbattutasi sull’Italia, Papini si chiuse sempre più in se stesso, cercando conforto nella preghiera e nella vita monastica. Anche le sue condizioni di salute si aggravarono sempre più, e gli anni dal 1945 al 1956 furono per lui di sofferenza e di grandi amarezze.
A partire dal 1952 divenne quasi cieco. Faceva fatica a parlare, non riusciva più a scrivere e si trovò a dettare le proprie opere, ma continuò a produrre libri.
Nel dicembre del 1953 vide la luce il saggio intitolato Il Diavolo (criticato anche dalla Chiesa cattolica),  nel 1954 Il concerto fantastico, nel 1955 Strane storie e La loggia dei busti.
Il Diavolo venne fustigato aspramente da L’Osservatore Romano, che lo dichiarò “un libro colmo di errori, anzi scapigliati e clamorosi”, tanto che venne ritirato da molte librerie cattoliche di varie città italiane (si racconta che un libraio romano, cattolicissimo e bigotto, dopo avere letto la stroncatura apparsa su L’Osservatore Romano, prese le trenta copie del libro che aveva nella sua libreria e, colto da un empito di stizza irrefrenabile, andò a gettarle nelle acque lutulente del Tevere).
Il motivo di questa condanna? Sembra che negli ultimi anni Papini si fosse avvicinato alle posizioni di quel grande dotto e scrittore cristiano dell’epoca antica del Cristianesimo, che fu, appunto, Origene di Alessandria (185-254 dopo Cristo) il quale aveva affermato che, alla Fine dei Tempi, anche il Diavolo sarà perdonato dalla infinita Misericordia d’Iddio.
Papini, sebbene con sfumature diverse, fece suo questo concetto, e, apriti cielo, incappò così nella più rigorosa condanna ecclesiastica, dimostrandosi in questo, ancora una volta, un vero e proprio scrittore cristiano ma, a suo modo, eretico, tanto da scrivere, a pagina 106 dell’opera:
“Il Diavolo, dunque, è un agente di Dio, riconosciuto da Dio: qualcosa di simile ad un investigatore e a un pubblico accusatore. Si direbbe, quasi, un procuratore del Re del Cielo”. Ce n’era, ovviamente, quanto bastava per una drastica lavata di capo da parte del severo quotidiano vaticano.
Eppure, nonostante questi rimproveri che gli giungevano dalle alte gerarchie cattoliche, in quegli anni difficili e tormentati, da buon cattolico qual era, Papini si schierò, ideologicamente, a fianco della Chiesa ogni volta che si trattava di difendere l’istituzione delegata a conservare l’eredità di Cristo.
Non dimentichiamo che quelli erano anni in cui i comunisti attaccavano ferocemente la Chiesa e la lotta politica si svolgeva in un clima battagliero alla Peppone e Don Camillo, come magistralmente descritto nei romanzi del grande Giovannino Guareschi.
Per tali motivi, sebbene non vi aderì mai, Papini guardò con qualche simpatia alla neonata Democrazia Cristiana, sempre più convinto che la lotta contro la barbarie ideologica del marxismo-leninismo, del bolscevismo e dello stalinismo, dovesse essere condotta, oltre che con la politica, anche con un nuovo rinnovamento culturale, una sorta di nuova palingenesi che avrebbe dovuto rafforzare e rendere più estese e più salde le radici cristiane e cattoliche della nostra gloriosa cultura.
Nonostante i gravissimi problemi alla vista, continuò a collaborare con “Il Corriere della Sera”, dettando articoli molto lucidi, pungenti, mordaci, soprattutto contro il dilagare dell’ideologia comunista nel nostro Paese, non smettendo di inviare articoli a giornali e riviste (anche se ormai cieco e semiparalizzato, e perciò costretto a dettare ad altri i suoi pensieri che venivano trasformati in scritti) sino, in pratica, al giorno della sua morte, avvenuta, come ho scritto più sopra, l’8 luglio 1956.
Nel 1957 venne pubblicato postumo il Giudizio Universale, nel 1958 La seconda nascita. Altri inediti continuarono ad essere pubblicati sino al 1966, anno in cui furono editi anche i due volumi di Scritti Postumi.
Il Giudizio Universale fu, sostanzialmente, l’opera dell’intera vita di Giovanni Papini. Per ben milletrecento fitte pagine, Papini elabora e rielabora le accuse e i rimproveri mossi da Dio ai grandi uomini che, nel bene e nel male, hanno fatto la Storia, ma si tratta di un’opera che, tra abbandoni e riprese, Papini non giunse mai a terminare e che vide la stampa solo dopo la morte del suo autore.
Sostanzialmente è una sorta di “testamento spirituale” al quale lo scrittore fiorentino affida tutte le speranze, tutti i suoi sogni, tutte le sue invettive più spietate, tutte le sue elucubrazioni più complesse…
Fu l’opera con la quale l’uomo-Papini e lo scrittore-Papini si fecero giudici e interpreti dell’universo, dell’Uomo e della sua Storia, rivelandosi al tempo stesso vate e profeta, accusatore e giudice, capace di creare pagine di drammaticità apocalittica, profondamente pervase di titanismo post-romantico.
Un’opera imponente, colossale, sovrumana, nella quale c’è, veramente, tutto Papini, con la sua virulenta vis polemica, il suo sarcasmo, il suo piglio dantesco, la sua capacità prodigiosa di realizzare con poche frasi ritratti eccellenti di personaggi dello storia, del mito, della politica, dell’arte, della religione e della letteratura che, nel vortice travolgente delle debolezze e delle meschinità umane, seppero essere “grandi”, a modo loro, anche nel male, nella sopraffazione e nella ribellione.
Purtroppo, oggi, solo un ristretto numero delle sue moltissime opere è stato ripubblicato in moderne edizioni. Il nome di Papini è pressoché sconosciuto al lettore medio e gli insegnanti di letteratura raramente lo fanno studiare ai loro allievi. Davvero un grande smacco alla memoria di uno tra i più geniali e mordaci intellettuali italiani del Novecento!