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No alle direttive capestro dell'Unione Europea. L'acqua un bene di tutti da non privatizzare

di Giovanni Paletta - 26/11/2009

Fonte: claudiomoffa

1) Acqua, fra diritto e mercato. Modelli di democrazia e privatizzazioni
Il Senato ha approvato, il 4 novembre u.s, il DL 135/091, in cui, dopo aver rilevato che i servizi
pubblici locali, tra cui l’acqua, sono di “rilevanza economica” vieta ai Comuni di detenere quote di
maggioranza nella gestione del servizio.
La Camera ha approvato questa norma su
cui ieri 18 novembre il Governo aveva posto la fiducia inserita
nel Decreto Legge salvainfrazioni
comunitarie. Comunque è bene sottolineare che in
questo tipo di liberalizzazioni, volute dal governo berlusconi, è ingannevole invocare i diritti
comunitari poiché l’Europa, senza dire nulla sulle aziende pubbliche, afferma solo che i gestori
vanno scelti con procedure, senza distinzione fra pubblico e privato.
Per il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, quello votato alla Camera "è un buon
provvedimento perchè dà luogo a una liberalizzazione da tempo auspicata. L'acqua rimane un
bene pubblico ma il servizio viene liberalizzato e questo non significa necessariamente
privatizzato".
Insomma il Presidente dell’Antitrust sostiene il sofisma che vengono privatizzati gli acquedotti, ma
non l’acqua, senza entrare – come suo compito istituzionale nel
merito del regime di monopolio
privato che, in considerazione della realtà degli attuali operatori del settore, è facile supporre che si
realizzi e quindi della determinazione dei prezzi in assenza di concorrenza. Intanto, sull'onda del
decreto, a Piazza Affari, Acque Potabili e Mediterranea Acque hanno registrato un vero e proprio
boom, con un rialzo del 21,19% e del 14,22%. Le altre utility, ognuna alle prese con problemi
interni, hanno registrato progressi più contenuti: Acea (+0,39%), A2A (+0,77%), Enia (+0,39%).
Iride ha ceduto lo 0,30%.
Eppure, in Europa, nessun altro paese ha vietato ai propri Enti Pubblici locali di possedere la
maggioranza azionaria delle società che devono erogare servizi pubblici e questo decreto
testimonia la volontà politica di accelerare le privatizzazioni, senza alcun confronto di merito con i
titolari dei servizi e, soprattutto, senza neanche provare a correggere gli errori del passato, in cui le
privatizzazioni e le liberalizzazioni in altri settori strategici si sono tradotte in tariffe più alte,
peggioramento delle infrastrutture, perdita dei livelli occupazionali e meno sicurezza per i
cittadini.
1 L'art. 15 della nuova normativa, che modifica l'art. 23Bis della legge 133/2008, appare tassativo. Gli affidamenti diretti alle società a totale capitale pubblico (in
house) potranno realizzarsi soltanto in via eccezionale e dietro parere preventivo dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Di contro, il metodo ordinario di conferimento dei servizi pubblici locali è la gara e la società mista. In quest'ultimo caso, comunque, il partner privato, individuato
mediante procedura ad evidenza pubblica, dovrà essere socio operativo con una quota di partecipazione non inferiore al 40%.
Secondo il governo il testo in discussione in parlamento rappresenta un mero adeguamento della legge italiana alla disciplina comunitaria. Ma questa
interpretazione è tutta da provare.
In dati statistici tra il 2002 e il 2008 le tariffe dell’acqua sono aumentate del 30% e il
peggioramento dei servizi (nel decennio 19902000)
ha registrato un calo degli investimenti del
70%. A seguito delle nuove privatizzazioni si prevede un ulteriore aumento del 30% delle tariffe.
Altri Paesi, all’interno dell’OCSE, traendo insegnamento dalle esperienze fatte, hanno bloccato,
rinviato o interrotto la politica di privatizzazioni, oppure l’hanno attuata con operazioni sporadiche
e di portata ridotta.
Alesina e Drazen2, pur riconoscendo che gli effetti redistributivi delle privatizzazioni spesso
comportano un trasferimento di ricchezza dagli insider, ovvero i dipendenti delle imprese
pubbliche (colpiti da profonde ristrutturazioni industriali e taglio di esuberi) agli outsider, gli
azionisti (a cui vanno i conseguenti guadagni di efficienza) tuttavia, rilevano che altri paesi hanno
attuato privatizzazioni compiute, redditizie e vantaggiose all’interno di più vaste riforme
strutturali. Di conseguenza ritengono che la diversità negli esiti della politica di liberalizzazione
vada ricercata nelle diversità dei modelli di democrazia, anche se generalmente gli amministratori
pubblici, di destra e di sinistra, sono favorevoli alle privatizzazioni per le ricadute positive sulle
finanze pubbliche. Tuttavia le privatizzazioni – notano Alesina e Drazen riescono
meglio dove le
istituzioni politiche si conformano al modello maggioritario e quindi attribuiscono minor potere
alle minoranze. In questo contesto la frequenza delle privatizzazioni è più alta e più alti sono i
proventi realizzati. Ciò significa che un sistema maggioritario asseconda l’azione di governo
escludendo ampie minoranze dal processo decisionale; al contrario, un sistema consensuale
favorisce la partecipazione e il pluralismo riducendo le tensioni politiche e sociali ma tende a
produrre un’impasse decisionale.
Ma al di la dei processi decisionali, quella delle forniture idriche, a livello macroeconomico,
si
inserisce in un più ampio processo globale di trasformazione neoliberista che vede gli Stati ridurre
la loro azione e non solo nella gestione dei servizi.
Uno studio condotto da Icij (International Consortium of Investigative Journalists) sostiene che,
nei prossimi quindici anni, in Europa e Nord America il 6575%
degli acquedotti pubblici sarà
controllato dalle Tre sorelle dell’acqua. Tra queste, le prime per dimensione e capitalizzazione,
sono le francesi Veolia (gruppo Vivendi) e Suez, cresciute a dismisura in parallelo all’affermarsi
delle teorie neoliberiste della scuola di Chicago, abbracciate da WTO e Banca Mondiale, che – per
quanto in loro potere – hanno spinto gli stati ad abbandonare la gestione dei pubblici servizi, senza
alcun dibattito politico.
SuezOndeo
(ex Lyonnaise Des Eaux) ha un fatturato netto di 2.1 miliardi di dollari ed è presente
in 130 paesi (USA, Europa, Asia e America Latina) con 120 milioni di clienti, di cui 70 milioni nel
settore acqua; Veolia, nata nel 2003 da Vivendi (ex General Des Eaux) ha 110 milioni di clienti e,
con un fatturato di oltre 2,5 miliardi di dollari, si attesta quale prima compagnia del settore acqua.
Questi due colossi gestiscono oltre il 40% del mercato mondiale. Tuttavia la constatazione che, a
livello globale, gran parte dei servizi di distribuzione e depurazione dell’acqua sono gestiti ancora
da poteri pubblici, alimenta le loro prospettive di acquisizione di ulteriori e più ampie quote di
mercato.
Negli ultimi quindici anni i due giganti francesi e le loro molteplici filiali sono riusciti a penetrare
in molti paesi dell’America Latina, il cui forte indebitamento li ha costretti a chiedere sovvenzioni
al Fondo Monetario Internazionale il quale subordina i prestiti alla privatizzazione dei servizi
collettivi. In tal modo le multinazionali3 hanno avuto accesso a questi mercati in una posizione di
sostanziale monopolio, il cui effetto è stato un aumento generalizzato delle tariffe, senza il
promesso miglioramento del servizio per cui, in alcuni casi, il malcontento vivissimo della
popolazione ha costretto i due colossi ad annullare gli accordi e a ritirarsi, per poi chiedere
indennizzi alle istituzioni internazionali. E’ il caso di Tucuman, in Argentina e di La Paz e di El Alto
in Bolivia, per arrivare, più di recente, anche in Italia con l’affare Acqua Latina.
Le liberalizzazioniprivatizzazioni
in Italia vengono attuate secondo un preciso progetto, che
possiamo chiamare “Operazione Britannia”4, la cui prima fase si occupò della svendita5 dell'Iri, di
2 Alesina, A. and A. Drazen (1991). Why are stabilizations delayed?, American Economic Review, 81,
3 la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il World Water Council (espressione politica del vertici finanziari dei grandi gruppi
industriali
4 Da Socialisti. Net
1993, l'anno dei Boiardi & dei Complotti sul "Britannia"
Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, l’industria siderurgica ed
alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della
previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi),
a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni
di rilievo pubblico.
Ecco perchè in Italia oggi, nonostante le ultradecennali esperienze negative di privatizzazione, si
predispone il meccanismo che consegna un bene pubblico ai profitti dei privati con la scusa che gli
enti pubblici non hanno risorse per rimodernare gli acquedotti.
E questa sarebbe una ragione valida da opporre agli elettori?
Certamente! Soprattutto perché si nasconde alla loro memoria che le società municipalizzate, con
la complicità degli amministratori comunali, hanno lasciato marcire i sistemi di distribuzione
senza manutenzione e innovazione con notevoli disservizi, per cui oltre il 50% dell’acqua va
attualmente perduta per dispersione della rete; che hanno permesso alla mafia, in zone dove è
proprietaria di pozzi privati, di sabotare e deviare il flusso dell’acqua pubblica per costringere la
gente a rifornirsi a pagamento dalle cisterne private dei mafiosi; che hanno attuato una politica di
abbandono del Sud senza aver fatto niente per modificare quelle realtà dove l’acqua arriva un
giorno a settimana, da anni.
Questo complesso di colpe viene messo a profitto dagli attuali governanti per convincere i cittadini
del fatto che il ricorso all’efficienza dei privati è indispensabile, nascondendo oltre alle inefficienze
degli amministratori pubblici anche il fatto che saranno sempre loro a pagare, in questo caso con
aumenti altissimi delle bollette.
E l’affare non è da poco.
Una manna – dice La Stampa del 16 novembre per
le lobby dell’oro blu che contano nelle loro
fila ex municipalizzate come l’utility romana Acea, la ligurepiemontese
Iride e l’emiliana Hera
fino a multinazionali come Veolia e Suez. Un mondo che solo in Italia conta 252 imprese idriche
per un fatturato totale che supera i 2,5 miliardi di euro. Inoltre l’Italia è prima in Europa per
di Mauro Bottarelli
Dieci anni fa Prodi & C. cominciarono la svendita. Passarono in mani straniere: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini
Perufine, Mira Lanza e molte altre aziende Ii 7 gennaio 2003 non era un giorno normale, ricorreva l'anniversario di quello che in molti - ma non moltissimi, in
fondo l'Italia è fatta così - ricorderanno come l'anno dei complotti, ovvero il 1993. Già, esattamente 10 anni fa si diede il via alla svendita delle grandi aziende
pubbliche ai gruppi stranieri, si tennero incontri tra i "Boiardi" di Stato e i magnati dell'alta finanza a bordo di un panfilo di Sua Maestà Britannica. Riguardo
quell'annus horribilis della sovranità nazionale ed economica italiana, i giornalisti Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono hanno scritto un libro, "L'anno dei
complotti" pubblicato da Baldini & Castoldi. Accaddero tante cose, in quei 365 giorni in fondo così anonimi, e paradossalmente la riunione sul Britannia
rappresentò nulla più che una ciliegina sulla torta…. Nel 1992 accaddero alcuni fatti: la crisi della Prima Repubblica e il successivo ciclone Tangentopoli (Kohl lo
pagò in ritardo, esattamente dopo il niet all'operazione in Kosovo nel 1999), le privatizzazioni, l'attacco alla lira da parte del pescecane dell'alta finanza - ora
riciclatosi come icona no-global - George Soros. Nel settembre '92, soprattutto, l'agenzia di rating Moody's, si accanì particolarmente contro l'Italia: un suo
declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme.
Ecco cosa disse l'allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: "Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse". Parlò di "quantità di capitali
speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici", di "potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello
Sme", di "avversari dell'Unione Europea". Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c'è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e
che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C'è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno
diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà
Bartholomew: "Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di
rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri". Et voilà, il caso Italia è chiuso.
Bartholomew era amico di Leoluca Orlando, sindaco di Palermo: quest'ultimo si recò spesso negli Usa in nome della lotta alla mafia. Strano caso, come tutto è
strano ciò che nacque e accadde nel 1993, cinque anni dopo Bartholmew diventerà presidente di Merryl Linch Italia. Il quadro è completo, nitido, cristallino.
Successe di tutto in quell'anno, capace di trasformare in maniera indolore (fu un tracollo, un disastro senza precedenti ma non si videro carrarmati nelle strade né
deportazioni) l'Italia in una sorta di repubblica centrafricana. Punta di diamante dell'intera operazione di svendita fu, quindi, il caso Britannia, riunione che si
mostrò perfettamente congruente a quello che accade prima e dopo. Guarda caso, a differenza di Craxi, importanti protagonisti di quella operazione sono ancora in
auge al giorno d'oggi. L'allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, per esempio. L'allora ministro del Tesoro, già governatore di Bankitalia e futuro
presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Il presidente dell'Iri, futuro presidente del Consiglio e presidente della commissione
Ue, Romano Prodi. …..L’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi …. Guarda caso dopo la merenda sul Britannia le privatizzazioni vennero effettuate a
ritmi serratissimi.
Parlando solo del settore agroalimentare, ad esempio, un settore tradizionalmente importante per la nostra economia, furono numerose le ditte che vennero
acquistate dagli stranieri: Locatelli, Invernizzi, Buitoni, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini, Perugina, Mira Lanza e tante altre. Il meeting venne
organizzato da un ben preciso gruppo di potere londinesi: sul Britannia si trasferì infatti in quell'occasione un pezzo della City di Londra. Nulla di strano né di
pittoresco, quindi: tanto più che storicamente la Gran Bretagna ha sempre cercato di ostacolare il rafforzamento di qualsiasi Paese europeo. All'epoca i governanti
italiani, specie quelli di sinistra, hanno cercato di accreditarsi nel mondo che conta recandosi in pellegrinaggio alla City di Londra come a Wall Street. Assicurando
ovviamente la loro disponibilità per non disturbare troppo il manovratore. Il terminale dei politici italiani che dovevano garantirsi sul fronte internazionale è stato,
fino a pochissimo tempo fa, proprio la City di Londra: D'Alema docet, Rutelli pure. In effetti, i britannici d'Oltremanica e quelli svezzati d'Oltreoceano non
potevano che essere soddisfatti del comportamento tenuto dai loro amici italiani: l'operazione Britannia, infatti, garantì ai soli anglo-americani di accaparrarsi quasi
il 50% (precisamente il 48%: 34 agli americani e 14 ai britannici) delle aziende italiane finite in mano straniera.
Questo è stato il 1993, anno in cui l'Italia e la sua classe politica persero l'ultimo brandello di dignità.
5Si deve parlare di svendita perché la vendita dell’industria nazionale avvenne dopo l’attacco speculativo alla lira italiana del settembre ’92 e che portò la moneta
italiana a svalutarsi di circa il 30%. Quelle aziende furono dunque acquistate ad un valore inferiore di almeno il 30%. Questo evento, non deve essere considerato
accidentale ma come rientrante in una strategia coordinata condotta dal banchiere Soros.
consumo d’acqua, e terza nel mondo6, con 1.200 metri cubi di consumo annuo pro capite. Forse
questa è la ragione dell’accelerazione imposta dal Governo Berlusconi, che già nella legge
finanziaria del 2002 (D.L. 28 dicembre 2001 n. 448) aveva disposto che l’erogazione del servizi
(art. 35) dovesse avvenire in regime di concorrenza, conferendo la titolarità del servizio a società di
capitale. In tal modo7 cioè
indicando solamente le società di capitali escludeva
tutte le aziende
pubbliche o comunque le società derivanti dalla trasformazione delle exmunicipalizzate.
Eppure,
in Italia le grandi aziende nate dalla privatizzazione del sistema pubblico sono, in buona parte,
società a partecipazione pubblica. Le più grandi, Acea e Iride, sono quotate sulla borsa di Milano
nel settore blue chip, che comprende i titoli a più alta capitalizzazione, e controllano per mezzo di
pacchetti azionari una miriade di aziende più piccole8. E’ evidente che il nostro sistema pubblico è
stato trasformato in un sistema misto nel quale la componente finanziaria è molto accentuata. Ne è
derivato che l’Ambito Territoriale Ottimale (ATO) pensato
dalla Legge Galli per razionalizzare
l’erogazione dei servizi idrici nel
momento in cui l’acqua diventa un bene oggetto delle dinamiche
finanziarie, si
è trasformato in una nicchia impenetrabile alla concorrenza. Infatti le aziende, per
ritagliarsi una fetta di mercato, si sono accorpate con lo scopo di ottenere il controllo di più ATO
possibili, all’interno dei quali operare in regime di sostanziale monopolio9.
Ebbene, se è utopia credere che le aziende, soprattutto quelle quotate in borsa, prima di aumentare
i profitti riducano le tariffe, è addirittura insensato credere che ciò possa avvenire senza una reale
concorrenza.
Realisticamente, il passaggio da pubblico a privato implica che l’erogazione del servizio è
subordinata alla condizione di soddisfare i requisiti richiesti dal mercato, almeno in modo da
creare capitali da reinvestire sotto forma di miglioramento strutturale. Se in un regime
pubblicistico, per sua definizione senza scopo di lucro, il costo di un bene rappresenta il costo
sostenuto per la sua produzione, in un regime privatistico esso necessariamente incorpora la
nuova variabile del profitto.
Questa è una delle ragioni per cui la riduzione delle tariffe è rimasta e rimane la grande chimera
della privatizzazione.
L’acqua, in un regime oligopolistico di mercato, diviene di fatto un bene sensibile a forme di
speculazione e, poiché è un bene vitale, pone una più vasta questione etica: entro quale limite è
possibile subordinare la distribuzione dell’acqua e, più in generale, i servizi di quello che era
considerato una volta lo Stato sociale, alle dinamiche finanziarie? E quanto è lecito lucrare dalla
fornitura di beni indispensabili?
Siccome la questione etica scuote, ogni tanto, anche la politica, o meglio quei politici più sensibili,
fu l’approvato un emendamento che prevedeva lo stop a nuovi affidamenti di gestione della rete
idrica e disponeva la titolarità delle concessioni di derivazione delle acque pubbliche ad enti
pubblici. Perciò sarebbe dovuto rimanere tutto fermo fino alla nuova legge quadro, invece il
Parlamento ha deciso che, a partire dal 2011, per il bene comune fosse appropriato consegnare
l’acqua agli interessi delle grandi multinazionali e farne un nuovo business per i privati e per le
Banche.
La questione etica per i nostri liberisti rimane quindi una questione di dettaglio, comunque
subalterna al profitto.
Giovanni Paletta
6 Più di noi solo Stati Uniti e Canada
7 L’art. 35, poi modificato dall’art. 14 D.L. 30 settembre 2003 n. 269
8 Non abbiamo in questo momento dati sul personale impiegato, ma dall’analisi delle relazioni economiche di alcune società du gestione delle acque potabili si
evidenzia una generalizzata riduzione del personale.
9 L’osservatorio prezzi e tariffe, nella relazione sul servizio idrico integrato del dicembre 2006 afferma che “la dinamica delle tariffe si colloca nell’ultimo biennio
sensibilmente al di sopra dell’inflazione media e nell’ultimo anno le variazioni sui dodici mesi precedenti oscillano tra il 4 e il 5% (l’indice medio generale, nello
stesso biennio, si è assestato intorno al 2%, n.d.r.). La dinamica, nello stesso periodo, del prezzo al consumo dell’acqua è più accentuata in Italia rispetto ai paesi
dell’area dell’euro e dell’Europa a quindici”. Inoltre “dai dati emerge la forte differenziazione tra le diverse città. Tra Firenze, città capoluogo di regione in cui
l’acqua è più cara (300 euro), e Milano, il divario di spesa annua ammonta nel 2006 a 189 euro. Forti differenze si rilevano anche tra province della stessa
regione”.