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L'avanguardia che "inventò" il Sessantotto

di Diego Gabutti - 07/12/2009

Fonte: secoloditalia

  
 
L'Internazionale situazionista di Guy Debord torna al centro del dibattito politico e sociale



Quando l'Internazionale Situazionista, nella primavera del 1968, uscì dalle catacombe di un'avanguardia minoritaria che, fino a quel momento, andava creduta sulla sola parola per salire sulle barricate del movimento delle occupazioni, le sue "tesi" circolavano già da un pezzo. Soltanto due anni prima, a Strasburgo, c'era stato lo "scandalo" degli organismi universitari, quando a prenderne il controllo furono alcuni studenti d'idee situazioniste. Fu a Strasburgo, mentre i situazionisti trasformavano gli organismi studenteschi in una centrale di rivoluzione culturale, che Mustapha Kayati, un situazionista algerino, scrisse uno dei più fortunati pamphlet dell'epoca: Della miseria nell'ambiente studentesco col sottotitolo: "Considerato nei suoi aspetti economico, sessuale e in particolare intellettuale, nonché d'alcuni mezzi per combatterla", che cominciava con queste parole: «Si può affermare senza paura di sbagliare che in Francia lo studente è, dopo i poliziotti e i preti, l'essere più universalmente disprezzato». Pur assegnando agli studenti un ruolo subalterno nelle rivoluzioni a venire, anche il pamphlet situazionista, insieme a Eros e rivoluzione di Marcuse, contribuì a fare dei giovani (gli studenti, ma anche i blouson noir, i neri dei ghetti americani in rivolta, i provos olandesi, gli angry young men inglesi) i protagonisti della nuova era rivoluzionaria. Da quel giorno il futuro Sessantotto ebbe il suo soggetto rivoluzionario, il giovane declassato e alienato della fiaba situazionista, come l'epoca delle rivoluzioni socialiste, negli anni venti del secolo, aveva avuto il suo: il proletariato della favola marxista.

Ma l'Internazionale situazionista, nel 1966, aveva già una lunga storia dietro le spalle. Fin dai primi anni Cinquanta, quando il giovanissimo Guy Debord, più tardi scrittore di genio, nonché regista di film d'avanguardia oggi riscoperti dai festival internazionali del cinema, ciondolava nelle taverne parigine in compagnia dei suoi amici dell'Internazionale lettrista, non epigoni ma "superatori" (come si sarebbe poi detto nel gergo marxhegeliano dei situazionisti) del dadaismo e del surrealismo. Costoro non si limitavano a tracannare alcolici, soprattutto vino, nei bistrot malfamati del Quartiere latino, e nemmeno s'accontentavano di ciondolare nella terra desolata delle avanguardie artistiche ormai stremate o d'avventurarsi in interminabili "derive" psicogeografiche attraverso la città (avevano chiamato psicogeografia «lo studio degli effetti precisi dell'ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui»). Debord e i suoi amici avevano un programma per la rivoluzione: cambiare la vita, secondo la promessa di Rimbaud. Così come il giovane Marx, nelle Tesi su Feuerbach, aveva proclamato che la filosofia, dopo avere spiegato il mondo, doveva adesso cambiarlo, i situazionisti proclamarono che non si dovevano più scrivere poesie ma si dovevano mettere in pratica. Raoul Vaneigem, olandese, il teorico più brillante del gruppo, autore del classico Trattato di saper vivere a uso delle giovani generazioni, s'unì ai situazionisti all'inizio degli anni Sessanta, quando l'Internazionale cominciava a estendere la sua rete di relazioni e a diffondere i suoi primi "detournement" (oggetti e pratiche d'uso quotidiano, per esempio i fumetti, o i muri dei caseggiati, usati per diffondere slogan e avvisi politici sitazionisti). Messa in pratica, la "poesia moderna" cominciò a riempire di slogan e graffiti trompe l'oeil le strade di Parigi, graffiti e slogan che presto dilagarono in tutta l'Europa col movimento delle occupazioni.

Eric Ambler, nel 1978, pubblicò uno dei suoi ultimi romanzi, Non più rose, una spy story che oggi trovate in edizione Adelphi (la mia copia, con un'orecchia a pagina 34, è una vecchia edizione Mondadori). In Non più rose c'è un riferimento a «quegli sventurati filosofi sociali, Raoul Vaneigem e Guy Debord». Questo è forse uno dei primi riconoscimenti che siano stati pubblicamente tributati ai situazionisti in un contesto degno di loro: un'avventura romanzesca, una spy story classica. Dopo di allora si è parlato molto dei situazionisti, in certi periodi anche troppo. Adesso, trascorsi quasi quarant'anni dallo scioglimento dell'Internazionale situazionista e quasi vent'anni dalla morte di Debord, non se ne parla praticamente più. Anche se, proprio in questi giorni, lo Stato francese, rappresentato nella circostanza da una delle sue più autorevoli istituzioni, la Bnf, Bibliothèque Nationale de France, è impegnato in una corsa contro il tempo per evitare che i manoscritti e i documenti di Debord prendano la strada per Yale, Connecticut, sede di una delle più importanti università americane, che per quell'archivio ha offerto una somma tra i due e i tre milioni di euro.

In Italia, invece, le "tesi" dei situazionisti, cinquant'anni dopo la fondazione del movimento ad Alba, sono state davvero accolte e condivise da tutti, in particolare da coloro, i filosofi e i manager della società dello spettacolo, contro i quali i situazionisti erano scesi in campo, prima individuandoli quando ancora nessuno ne sospettava l'esistenza, e poi cercando di manovrare il movimento sociale a loro danno. "Società dello spettacolo", una categoria passata e tornata di moda già infinite volte da quando venne formulata negli anni Sessanta sulle pagine d'International situationniste, la magnifica rivista che Debord pubblicava a Parigi, non è una felice invenzione dei capibastone dei palinsesti giornalistici e televisivi (vale a dire la peggiore genia del nostro tempo e forse d'ogni tempo) ma il contributo che Debord e i suoi amici hanno dato alla loro epoca, aggiornando un marxismo invecchiato male, anzi malissimo, all'età della menzogna e della rappresentazione (cioè l'epoca in cui la fiction e la propaganda, dall'Enciclopedia sovietica sino agli editoriali del Giornale e alle inchieste di Repubblica, è gabellata per cronaca e storia). Non si trattava più, per loro, di cambiare semplicemente il mondo invocando eguaglianza e giustizia sociale, come avevano fatto le generazioni precedenti, i socialisti prima e i comunisti poi. Essi sostennero che la stessa vita quotidiana sarebbe stata d'ora in poi oggetto di rivendicazione. Venne il Sessantotto, infatti, e somigliò fin nei più minuti dettagli alle loro profezie sociologiche, happy end consiliare a parte. A dispetto delle loro previsioni, il movimento delle occupazioni e dell'autogestione svaporò e anche le loro teorie, in gergo situazionista, furono "recuperate" e "banalizzate". Così non aveva torto Eric Ambler, dopotutto: la loro fu davvero una filosofia sventurata (ma non più sventurata del marxismo, che fece senz'altro una fine anche peggiore quando diventò, da teoria critica della società, l'ideologia ufficiale del potere sovietico). Ma intanto la parola era stata pronunciata. Non furono mai molti i situazionisti, appena una manciata negli anni Cinquanta e non più d'una dozzina, si dice, all'epoca del Maggio parigino (il momento del loro massimo fulgore pubblico, un'epopea raccontata da Renè Vienet in un altro classico "pamphlet" situazionista: Arrabbiati e situazionisti nel movimento delle occupazioni, che trovate in edizione Nautilus). Erano pochi, e quei pochi ammazzavano la noia e il tempo morto litigando ed espellendosi tra loro, ma la loro influenza sull'epoca in cui si trovarono a vivere, e più in generale sulla cultura che ne seguì, fu e rimane enorme (come a Debord, imbrodandosi magari un po', piaceva scrivere e pensare). Forse non furono i primi, ci provarono prima di loro gli esistenzialisti e quanti tentarono, da Wilhelm Reich in poi, di coniugare Freud con Marx, ma soltanto il situazionismo riuscì a far coincidere la rivolta sociale con la rivoluzione della vita quotidiana, le storie personali con la storia universale. Giovanissimo, Guy Debord aveva esordito come scrittore con un graffito apparso su un muro di rue de Seine, a Parigi, nel lontano 1953. Diceva: «Ne travaillez jamais». 

Quella stessa scritta, «non lavorate mai», dilagò successivamente, nel Sessantotto, sui muri dell'intero Occidente, dove ci fu anche chi pensò bene di "riprendersi la vita", colonizzata dai potenti impresari dello spettacolo del mondo. Sono diventate indigeribili le insipide pappe ultrasinistre di cui, in mancanza di meglio, ci si nutriva in gioventù. Ma le opere dei situazionisti, anche dopo tanto tempo, rimangono dei classici. Oltre che brillanti, sono scritte in lingua sobria, la lingua dei pamphlet secenteschi e di quelli illuministi. Non hanno niente a che fare con la langue de bois dei testi marxleninisti nè (tanto meno) con l'attuale neolingua politicamente corretta che impera in tivù e sui giornali, a ulteriore dimostrazione degli orrori di cui è capace la società spettacolare.

Scuola di filosofi e non gruppuscolo, l'Internazionale situazionista rimase vittima del proprio successo: le sue "tesi" sfondarono, furono accettate ovunque, però irriconoscibili, come i desideri esauditi dalle fate delle favole, che con una mano danno, con l'altra prendono. Raoul Vaneigem, il cui Trattato di saper vivere a uso delle giovani generazioni fu uno dei libri più venduti a Maggio, lasciò l'Internazionale situazionista, espulso da Debord, e negli ultimi trent'anni non ha fatto che scrivere saggi sui movimenti eretici (variando ogni tanto il menù con qualche pamphlet politico, tutti meno memorabili, ahinoi, di Banalità di base e del Trattato, i capolavori della sua giovinezza). Debord, la cui Società dello spettacolo è il libro segreto degl'intellettuali che non pagano mai le royalties a nessuno, diventò il direttore editoriale ombra delle edizioni Champ Libre, finanziate dal produttore cinematografico Gérard Lebovici, misteriosamente assassinato a revolverate nel 1984. Debord girò un bellissimo film sull'Atlantide perduta della sua giovinezza, In girum imus nocte et consumimur igni, che intitolò come un famoso palindromo (è altrettanto bella la sceneggiatura, apparsa anni fa negli Oscar Mondadori). Trovate la sua autobiografia, Panegirico Tomo Primo e Tomo Secondo, in edizione Castelvecchi: «Era la poesia moderna, da cent'anni, che ci aveva condotti lì. Eravamo alcuni a pensare che bisognava attuarne il programma nella realtà; e in ogni caso non fare nient'altro». Poi anche Debord morì, suicida, nel 1992, dopo aver speso la sua vita proclamando la radicalità dell'evidenza: già «dire che due più due fa quattro è un atto rivoluzionario».