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Islanda: il gelo in banca

di Mario Braconi - 12/01/2010

Gli Islandesi, che per secoli hanno vissuto di pesca, qualche anno fa si sono resi conto che la finanza allegra può essere più sexy dell’attività ittica. Grazie alla bacchetta magica della leva finanziaria, l’isola nordica ha conosciuto un periodo di crescita economica inimmaginabile. Ma un sistema che arriva a contrarre debiti fino ad un importo pari dieci volte il suo prodotto interno lordo, non poteva che finire in cenere. Oggi, infatti, la sopravvivenza degli abitanti di quest’isola dipende dal buon senso e dalla generosità dei governi inglese ed olandese.

La parola chiave è Icesave, il braccio internet di Landsbanki, una delle tre banche islandesi, fallita e nazionalizzata l’8 ottobre 2008. Offrendo tassi d’interesse molto aggressivi, Icesave aveva raccolto diversi miliardi di Sterline ed Euro, rispettivamente da clienti inglesi ed olandesi. Quando la stretta creditizia l’ha messa in ginocchio, Icesave, impossibilitata a far fronte alle richieste di smobilizzo della clientela, ha congelando i fondi dei suoi clienti inglesi. Una situazione incresciosa, aggravata dal fatto che Icesave aveva dichiarato ufficialmente di volersi occupare dei soli clienti islandesi, mandando a bagno tutti gli altri.

Di fronte all’incredibile risposta di Icesave, il Governo britannico, ricorrendo in modo improprio ad una legge anti-terrorismo, ha ricambiato la cortesia, surgelando le attività di Icesave in Gran Bretagna ed impegnandosi, nel contempo, a rimborsare ai clienti britannici della decotta banca islandese l’intero ammontare dei loro saldi attivi, anche in caso di incapienza del fondo islandese di protezione depositi.

Il governo inglese, dopo aver rimborsato in pieno i suoi concittadini clienti Icesave, si è rivolto al governo islandese per farsi ripagare quanto anticipato. In linea di principio, Reykjavik si è detta d’accordo a far fronte alle richieste britanniche; anzi, a giugno 2009, Gran Bretagna e Islanda hanno firmato un accordo secondo cui il fondo garanzia depositi islandese avrebbe ripagato le somme anticipate dal governo britannico. Le condizioni erano (e rimangono) estremamente vantaggiose per il governo islandese: tasso di interesse del 5,55%, periodo di rimborso di 15 anni, più un periodo di grazia di 7 anni, in cui non maturano interessi.

Quando però, ad agosto del 2009, il Parlamento islandese ha emanato una legge per determinare le modalità di rimborso, i membri della Althingi hanno introdotto una serie di limiti, tra cui un tetto ai pagamenti annui, funzione del prodotto interno lordo ed una scadenza perentoria per le garanzie statali indipendente dall’effettivo pieno rimborso del debito. L’indisponibilità dei creditori ad accettare in particolare quest’ultima condizione, ha prodotto una nuova tornata di negoziazioni tra Islanda e Paesi creditori, conclusasi ad ottobre.

Anche se la legge è stata approvata dal Parlamento il 30 dicembre con una maggioranza molto risicata (33 voti favorevoli contro 30 contrari), il 5 gennaio il Presidente islandese, Olafur Grimsson, incalzato da una petizione a firma di 62.000 islandesi (il 25% della popolazione con diritto di voto), si è rifiutato di firmare il provvedimento, sostenendo di non poter ignorare la diffusa insofferenza del suo popolo per le condizioni del rimborso, e indicendo un referendum popolare in materia, da tenersi il prossimo febbraio.

E’ discutibile la scelta di Grimsson, che rischia di essere devastante per il futuro del suo Paese, già provato da una crisi sistemica che ha condotto ad una contrazione del PIL del 7,2% del 2009. Prima di tutto, al presidente islandese è conferita un’autorità di tipo prettamente morale: ostacolare un provvedimento di legge che non mette a rischio la Costituzione, dopo che esso è stato già approvato dal Parlamento, non rientra tra le sue prerogative. In effetti, Grimsson non è nuovo a simili exploit: nel 2004 si comportò in modo identico quando l’Althingi (Parlamento) approvò una legge sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa.

Inoltre, l’autorevolezza di Grimsson è pari a zero: fa un certo effetto rileggere oggi il discorso vagamente arrogante che tenne nel 2004 ad un pubblico di operatori della City di Londra, nel quale lodava “i giovani vichinghi intraprendenti, sbarcati a Londra per prendersi il mondo”  e lodanva la più importante delle tredici virtù cardinali del suo popolo: la propensione al rischio, che “consente di vincere dove altri hanno fallito oppure non hanno osato avventurarsi”. Parole che, aldilà della loro sciocca tracotanza, hanno un devastante peso politico, essendo un chiaro indicatore dell’atteggiamento spregiudicato degli imprenditori e dei finanzieri islandesi che, con la benedizione delle loro istituzioni (Presidente compreso) hanno spacciato il loro Paese.

Infine, secondo quanto il governo islandese ha fatto trapelare sul quotidiano britannico Guardian, attraverso un portavoce del premier Jóhanna Sigurdardóttir, parrebbe che gli asset di Landsbanki, la banca nazionalizzata che controlla Icesave, siano ancora prezzati al 90% del valore nominale. Il che vorrebbe dire che oltre il 70% dell’esposizione islandese verso i correntisti britannici di Icesave potrebbe essere coperta dalla vendita delle attività della banca controllante. Se questo dato fosse confermato - c’è da dubitare della sua veridicità - il caso Icesave verrebbe fortemente ridimensionato, dato che comporterebbe per il popolo islandese un sacrificio di molto inferiore a quanto si va dicendo in questi giorni.

Del resto, la Sigurdardóttir siede su una poltrona bollente: traghettare l’Islanda oltre il guado della crisi in cui si è cacciata è sfida difficile, almeno quanto operarsi con successo al cervello da soli. In poche ore, l’exploit di Grimsson ha già prodotto alcune cose abbastanza preoccupanti: il downgrade del debito sovrano islandese (che, secondo l’agenzia di rating Fitch, passa in territorio “junk”, ovvero “spazzatura”); l’aumento del CDS (misura del rischio di credito di un prenditore sui mercati finanziari) dell’Islanda di 15 centesimi di punto (a 4,9%); la minaccia sospendere il sostegno finanziario da parte di Polonia, Paesi Scandinavi e Fondo Monetario Internazionale ed il blocco dell’adesione dell’Islanda all’Unione Europea.

Anche se è difficile provare simpatia per le torsioni logiche di un politicante come Grimsson, così com’è impossibile non lodare la coerenza e la forza della Sigurdardóttir, l’atteggiamento aggressivo di Gran Bretagna e Paesi Bassi è irragionevole, controproducente ed iniquo. In fin dei conti, è stata una decisione del governo inglese quella di rimborsare per intero i cittadini britannici correntisti di una banca islandese, regolata dalla legge islandese e il cui schema di protezione dei depositi (islandese) è fallito: in fondo, se i clienti inglesi di Icesave ricevevano un tasso particolarmente interessante, una ragione ci sarà pure stata e non è un mistero per nessuno la relazione diretta tra rischio e rendimento.

Eppure Gordon Brown, forse pensando al gettito prodotto dalle imposte sugli interessi di Icesave, è sceso in campo. Dunque, in questo caso, il governo inglese si è comportato in modo esemplare verso i suoi concittadini. Come osserva persino il Financial Times, però, non è chiara la ragione per cui si voglia fare dell’Islanda un esempio per il resto del mondo. La somma in gioco, ragguardevole in senso assoluto, si tradurrebbe in un costo di circa 40 euro per ogni cittadino britannico - mentre significherebbe un aggravio di 14.000 Euro per ogni abitante islandese, dal neonato al più decrepito dei nonni.

E’ bene inoltre ricordare che la Gran Bretagna (come l’Europa in generale) è tutto fuorché una vittima innocente: la regolamentazione e la sorveglianza locale ed europea sulle banche islandesi sono state inesistenti, e certamente qualcosa non deve aver funzionato come doveva se ad agosto 2007 un report a firma del professor Richard Portes, blasonato accademico e ai tempi capo della "Royal Economic Society of Britain", decantava le virtù della banche islandesi: “robuste e di successo, estremamente professionali e non gravate da rischi insostenibili. Questo anche grazie ai buoni livelli di supervisione e regolamentazione, permessi dalla normative europee.” Senza contare che, se il referendum si concluderà con la maggioranza dei No, la questione Icesave potrebbe arenarsi definitivamente, costringendo Gran Bretagna e Paesi Bassi ad una riflessione sui limiti di un atteggiamento muscolare nei confronti di un piccolo paese sull’orlo del baratro.