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Il lavoro stabile e il dogma dell’onnipotenza del mercato

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 13/01/2010

     

Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi


1. La crisi finanziaria del 2008, a causa delle sue ricadute sociali, determinerà, quali che possano essere le sue soluzioni e medio e lungo termine, profondi mutamenti negli equilibri sociali preesistenti. Data l’incertezza accentuata della attuale situazione e, soprattutto, data la nebulosità degli sviluppi di una ripresa per ora limitata ai soli mercati finanziari, le certezza dogmatiche dell’economia liberista globalizzata, cominciano a vacillare. Trattasi di voci isolate, quali quella del Ministro Tremonti, che ipotizza un ritorno alla stabilità del posto fisso, a fronte degli squilibri generati dalla precarietà del lavoro ormai dominante. Tali affermazioni, del tutto estemporanee e subito contestate dal Gotha degli economisti liberali, dalla grande impresa e dal sistema bancario, debbono tuttavia essere interpretate come un tentativo di rapportarsi a opinioni e sentimenti diffusi in un corpo sociale dilaniato dalle ricorrenti crisi cui è esposta l’economia di mercato, le cui conseguenze gravano, in termini di disoccupazione sulla generalità dei lavoratori. La precarietà del lavoro è coerente con un modello liberista dell’economia strutturato sul libero mercato del lavoro e del capitale al fine di realizzare le migliori condizioni di impiego delle risorse per la massimizzazione del profitto. Ipotizzare un ritorno al posto fisso e quindi a quindi a normative  del lavoro che possano garantire, oltre alla stabilità del lavoro, previdenza ed assistenza, significa in realtà auspicare un ritorno della politica, con la sua funzione equilibratrice, nel governo dell’economia. Infatti l’economia liberista globalizzata, massimizzando il profitto, non è in grado di determinare redistribuzione del reddito ed equilibri sociali stabili. La stabilità del lavoro presuppone un ruolo preminente della politica (e quindi dello Stato), che persegua i propri programmi determinando le condizioni di sviluppo dell’economia, negando quindi a quest’ultima quel ruolo autocratico e dominante che oggi riveste nel mondo globalizzato. La politica dunque, dovrebbe prendere le mosse dalle problematiche sociali e dai fenomeni culturali presenti nella società, allo scopo di costruire un determinato modello sociale rappresentativo della comunità dei cittadini. E’ questa la finalità ultima e la ragion d’essere della politica stessa. Concepire la politica come argine o come strumento di compromesso dell’attuale economicismo totalizzante è vano e velleitario.

Esiste oggi un orgasmo mediatico che effettivamente assomiglia molto al noto orgasmo fisico. È intenso, soddisfacente, ma dura poco e si dimentica fino alla prossima volta. Nello stesso modo l’orgasmo mediatico solleva problemi importantissimi ed epocali, ma resta inteso che tutto questo deve durare soltanto pochi giorni, e poi si passa al prossimo scandalo, se possibile farcito di ghiotti particolari boccacceschi.
Questo è regolarmente avvenuto per la nota sortita di Giulio Tremonti sul fatto che il Posto Fisso, per un lavoratore salariato (non importa se operaio, impiegato o tecnico), è da considerarsi molto migliore, e quindi socialmente e moralmente auspicabile, rispetto al posto temporaneo, incerto, flessibile e precario. Al punto in cui siamo arrivati, persino una ovvietà come questa (del tipo: è meglio essere sani che essere malati, eccetera) diventa ragione di dibattito serioso e di siparietti televisivi. E questo non è certo un caso. La nuova religione idolatrica del capitalismo liberale si basa infatti su due dogmi sottratti alla discussione. In primo luogo, non avrai Altro Impero che quello USA, nelle due varianti complementari del migliore dei mondi possibili e/o del meno peggiore dei mondi possibili. In secondo luogo, il lavoro flessibile e precario è insieme economicamente inevitabile e psicologicamente una risorsa per una vita “spericolata” (come diceva una nota canzone). Tutto l’asfissiante circo mediatico-universitario deve quindi presentare i sostenitori del ritorno al Posto Fisso come dei metafisici attardati, dei nostalgici del terribile novecento secolo delle ideologie assassine, degli astronomi geocentrici nel tempo di Copernico e Galileo, eccetera. Solo chi ha mantenuto la mente chiara e pulita capisce oggi fino in fondo che si tratta di una manipolazione vergognosa.
Ma c’è di più. Un tempo un’elementare etica della comunicazione imponeva che quando si fissava un valore etico e politico socialmente positivo e maggioritariamente approvato si cercasse contestualmente di prefigurare le modalità possibili per il suo perseguimento e la sua applicazione. Tutto questo è finito circa un trentennio fa, e sembra che nessuno se ne sia ancora accorto, come i protagonisti di una novella del danese Andersen in cui solo un innocente bambino si arrischiò a dire che il re era nudo. E allora Tremonti afferma che il Posto Fisso è un valore, e subito dopo non dice una sola parola sul come, dove e quando si possa cominciare a realizzare questo valore politico-sociale. Siccome non siamo estremisti, non chiediamo che la cosa venga risolta in pochi mesi. Ci accontenteremo di alcune linee-guida, di una prospettiva, di un’impostazione. Nulla, non viene nulla. Naturalmente, sappiamo bene perché non viene nulla. Oggi i politici sono semplici fantocci intercambiabili al servizio della riproduzione fatale, anonima ed impersonale della globalizzazione neoliberale, che Dio la maledica. Non essendo sovrani né nella politica estera né in quella monetaria (a causa del fortissimo indebolimento della sovranità dello stato nazionale) la loro sovranità sul quadrante dell’orologio è ridotta allo spazio fra meno cinque e più cinque. Gli altri cinquanta minuti sono soggetti alla sovranità esclusiva dell’Imperatore Negro Buono (accompagnato dalla sua signora, dalle sue due bambine e dal cagnolino) e dei grandi centri finanziari in concorrenza reciproca. Tremonti sembra grande sullo schermo televisivo, ma nella realtà è un nanetto che non arriva neppure all’inguine dei banchieri speculatori e dei generali USA.
L’evocazione di Tremonti al Posto Fisso è un’invocazione religiosa, che segue il messaggio oracolare (e cialtrone) dell’ultimo Heiddeger, per cui (cito testualmente) “solo un Dio può ancora salvarci”. Ed infatti, se insieme con l’affermazione vuota della positività sociale e morale del Posto Fisso non riesco ad aggiungere altre indicazioni pratiche di massima, si ha la tragicomica conseguenza della predicazione di un cuoco ad un gruppo di affamati sulla positività della carne ai funghi. Il livello di tutto questo non ha a che fare con Marx, Weber, Tocqueville, eccetera, ma con il noto film “Totò e Peppino divisi a Berlino”.
L’invocazione di Tremonti al Posto Fisso è quindi omogenea e speculare all’invocazione di Ratzinger sull’Amore Universale. Ogni domenica il pastore bavarese con un leggero accento tedesco ci incita all’amore fraterno, alla pace universale, alla lotta contro il relativismo ed il nichilismo, e non c’è mai una sola indicazione pratica sul come avvicinarsi a questi legittimi obiettivi e su come resistere ad un mondo ormai privo di qualsiasi valore umano e sociale e pertanto “relativo” alla quantità di denaro di cui ognuno può disporre (è infatti questa la base materiale del relativismo, e tutto il resto, dalla droga al laicismo al transessuale, viene solo in conseguenza).
Bisogna quindi passare dal livello dell’Invocazione Impotente (Tremonti in economia e Ratzinger in etica) al principio dell’Analisi Responsabile. Il principio dell’analisi responsabile, usato da tutti i medici che prima fanno la diagnosi e la prognosi, e poi scelgono (ove possibile) la terapia, ci dice che alla base di tutto c’è la cosiddetta globalizzazione neoliberale, basata sul principio del libero commercio (e del libero uso della forza-lavoro migrante come arma di pressione presso l’esercito industriale di riserva “nazionale”) e della cosiddetta delocalizzazione dove il costo del lavoro diretto e soprattutto indiretto è minore. Questa globalizzazione neoliberale è oggi a mio avviso l’equivalente della teoria delle razze inferiori e pericolose di mezzo secolo fa, ed il fatto che questa mia pacata e meditata affermazione venga subito percepita come un assurdo paradosso estremistico costituisce più del cinquanta per cento del problema culturale del mondo contemporaneo. Oggi nessuno discuterebbe seriamente dei lati buoni e dei lati cattivi della teoria della razza. La legittimità stessa del problema verrebbe respinta in blocco. Ed invece della globalizzazione neoliberale, considerata inevitabile e fatale come i terremoti, si discute dottamente in termini di vantaggi e svantaggi. Ora, è certo noto che il libero commercio internazionale presenta vantaggi e svantaggi, e di questo si discuteva già nel Settecento (fisiocratici, Smith, Ricardo, eccetera). Ma il libero commercio ed i costi di produzione non sono un sacro principio religioso monoteistico. Lo sono soltanto per quella superstizione idolatrica chiamata economia politica inglese, che è solo una ripresa in forma moderna di ciò che Aristotele aveva battezzato crematistica, cui aveva contrapposto un concetto di economia in cui stava al centro la riproduzione umana complessiva e comunitaria per una buona vita (eu zen).
Tutte le casalinghe sanno che la padella bollente non può essere presa direttamente con le dita, ma deve essere presa per il  manico, salvo scottarsi e saltare gridando per la cucina. Ora, la padella bollente è l’economia internazionale, ed il problema sta allora nel decidere insieme quale sia il manico migliore. Oggi invece c’è chi paga le spese della padella bollente scottandosi le mani (lavoratori temporanei, flessibili e precari e migranti poveri e ricattati) mentre invece siedono tranquilli a tavola aspettandosi di essere serviti i parassiti di questa società (politici, giornalisti, professori universitari, attori, cantanti, conduttori televisivi ed altra consimile feccia). Qualche pedante dirà che le cose sono molto più “complesse”. Eh no, signor pedante! Le cose saranno certamente più complesse, ma il loro fondamento è semplice, e sta qui.
Di fronte a questa situazione, io vedo tre soluzioni possibili, che mi permetto qui di segnalare brevemente.
In primo luogo, si può continuare a sostenere la globalizzazione neoliberale, affermando che essa non è stata ancora radicalizzata abbastanza. È la tesi ad esempio di Niall Ferguson (cfr. “La Stampa”, 30-11-09). Secondo Ferguson (cito) “ci vorrebbe un approccio ancora più radicale rispetto agli anni della signora Thatcher e di Reagan”. Questo approccio deve portare (e Ferguson lo dice apertamente) alla integrale fine del Welfare State. Questo programma, che lascia alla sua destra solo Attila e Gengis Khan (scherzo, perché questi due signori erano a mio avviso complessivamente migliori di tutti i Ferguson del mondo), viene giustificato con la constatazione degli altissimi ritmi cinesi di sviluppo. In poche parole: o torniamo al capitalismo selvaggio totale, o la concorrenza asiatica ci distruggerà. Ed il paradosso sta nel fatto che il cannibale Ferguson ha perfettamente ragione, ma ce l’ha solo dando per scontato che la globalizzazione neoliberale sia una divinità da non mettere in discussione, l’unità di Dio e del Diavolo, di Prometeo e di Lucifero.
In secondo luogo, si può continuare a belare contro la globalizzazione evitando di proposito il diabolico richiamo al protezionismo (non importa se forte o leggero, eccetera). Si tratta del ridicolo ed impotente Movimento detto No Global (in acronimo MNG), che personalmente proporrei seriamente di ribattezzare Presa in Giro Planetaria (in acronimo PGP). Questi buffoni, vera e propria pittoresca opposizione mediatica di Sua Maestà (sua maestà è ovviamente la globalizzazione neoliberale), si mobilitano ogniqualvolta i Potenti si incontrano per mettere in scena una commedia dell’arte post-moderna (cassonetti rovesciati, vetrine infrante, pagliacci in trampoli, mangiatori di fuoco, prefiche belanti, eccetera). Qui l’etica e l’estetica di infima qualità si incontrano. L’estetica del cattivo gusto kitsch si unisce trionfalmente con l’etica della ostensione lamentosa ed impotente. Si avanzano con petizioni, e ricevono idranti. I nostri lontani discendenti li ricorderanno così. La sola cosa che questi giullari non chiedono mai è il solo rimedio contro la globalizzazione neoliberale, e cioè il sacrosanto protezionismo. Ci vedono in esso con la saggia proposta di Fichte e poi di List dello stato commerciale chiuso, ma tutti i fantasmi di “destra” che li assillano: lo stato nazionale, il bottegaio leghista, l’intervento comunitario nazionale sulla sovranità assoluta dell’individuo, eccetera. È la rivolta dell’individuo sovrano (senza denaro) contro il suo gemello individuo sovrano (con denaro). Su questo avrei voluto fare lunghe considerazioni filosofiche, ma per ora le risparmio al lettore, perché ho pietà di lui.
In terzo luogo, finalmente, c’è chi ha avuto finalmente il coraggio di prendere il toro per le corna e la padella per il manico, affermando la legittimità del protezionismo, almeno per aree geografiche (un “piccolo protezionismo” a livello di singolo stato nazionale è infatti del tutto impraticabile, anche ove fosse astrattamente auspicabile). La sola risposta alla globalizzazione neoliberale è infatti geopolitica (parola del tutto ignota alla PGP, presa in giro planetaria), e non può che comportare la formazione nel mondo di alcune grandi aree protezionistiche (con quali modalità concrete non tocca a me giudicare, in quanto non economista), in cui il libero commercio (che resta un valore, ma un valore secondario) è subordinato alla sovranità comunitaria nazionale e locale, al ripristino il più possibile del Posto Fisso, al mantenimento ed anzi all’allargamento del Welfare, all’indipendenza dall’Impero USA neoliberale, eccetera. Noto con piacere e soddisfazione che questa è anche l’esplicita proposta di Alain de Benoist e dei suoi collaboratori (cfr. la rivista in lingua francese Elements, numero 133, ottobre-dicembre 2009). Qui per la prima volta si suggerisce un’ipotesi a prima vista incredibile e paradossale (non però per me, che ho sempre saputo che la dialettica si basa sulla unità degli opposti e sulla loro dinamica di trasformazione reciproca), per cui pur di potersi perpetuare il capitalismo potrebbe anche reinventarsi il comunismo. A chi rimanesse a bocca aperta di fronte a questa (apparente) assurdità consiglio di riflettere sul successo universitario mondiale della trilogia di Tony Negri e di Michael Hardt, in cui si lega l’ipotesi comunista con la globalizzazione incontrollata, il libero scambio, la fine dello stato nazionale e l’esaurimento infinito dei desideri dell’individuo sovrano.
Come diceva un tempo il comico pugliese Arbore: meditate, gente, meditate!

2. Dinanzi a questa crisi mondiale sistemica, né gli organismi economici internazionali né gli stati, sono stati in grado di emanare normative idonee a disciplinare la finanza globale. In realtà non si è voluto mettere in discussione un sistema economico globale che ha dimostrato le proprie carenze e soprattutto l’incapacità di risolvere le crisi da esso stesso provocate. Secondo il dogma liberista, poiché l’economia è libera, essa dovrebbe autonomamente rigenerarsi , creando spontaneamente nuovi equilibri di mercato. Si pretenderebbe quindi, che da quegli stessi  fattori degenerativi (sistema bancario, finanza virtuale, delocalizzazione produttiva), del sistema economico attuale, scaturiscano le soluzioni alla crisi presente. Ma le crisi strutturali esigono soluzioni, a loro volta, strutturali. La precarietà può generare solo ulteriore instabilità, l’economia del debito solo ulteriore indebitamento. La stabilità, al contrario, produce risultati  a medio e lungo temine, la programmazione obiettivi concreti e limitati, ma consolidati nel tempo. La precarietà è l’eterno presente, soggetto a mutamenti continui senza soluzione di continuità, la stabilità, invece, determina progressività nello sviluppo. Il binomio impresa- stabilità è assai più omogeneo e coerente rispetto al suo omologo impresa-precarietà , che invece presuppone perenni trasformazioni e ristrutturazioni, con conseguente rapida e continua obsolescenza delle strutture produttive. L’impresa concepita quale entità stabile deve quindi essere strutturata in una dimensione comunitaria. Nella diversificazione delle funzioni, le varie componenti produttive sono organicamente preordinate ad una finalità comunitaria, che trascende l’egoismo mercatista, che concepisce la forza lavoro unicamente come  fattore della produzione. Nell’impresa stabile, si realizza la condivisione di rapporti umani improntati alla solidarietà comunitaria, che può costituire un valido fattore di resistenza alle crisi. Nel lavoro stabile possono realizzarsi progetti di vita impensabili nella condizione della precarietà. L’impresa stabile può essere fonte di selezione e formazione delle categorie produttive cui sono delegate le funzioni tecniche e dirigenziali. L’impresa stabile può creare quel capitale umano , la cui formazione specifica, nelle rispettive competenze, è il risultato di investimenti protratti nel tempo e frutto di programmazioni che prevedano evoluzione e ricambio delle classi dirigenti. L’investimento nel capitale umano, oltre a produrre sviluppo e risorse sempre rinnovate nel tempo, rende l’impresa autosufficiente, svincolate cioè, dalle lobbies del management, che, quali elementi estranei all’impresa, perseguono finalità legate al profitto a breve termine, a danno dello sviluppo e dell’occupazione: i danni del parassitismo manageriale sono noti a tutti. Tuttavia, l’impresa stabile deve essere concepita in un contesto sociale in cui essa, congiuntamente ad altre imprese del proprio e di altri settori produttivi, svolga una sociale indispensabile alla vita della comunità statuale. Pertanto occorre considerare la funzione sociale svolta dall’impresa, in termini di produzione, sviluppo, ricerca, occupazione, evoluzione della personalità umana, finalità predominanti rispetto alla produzione del profitto: il ruolo svolto dall’impresa nella società deve essere eminentemente politico, altrimenti l’impresa produttiva è destinata ad essere fagocitata dalla speculazione finanziaria dominante.

Caro Tedeschi, io condivido pienamente il tuo pacato elogio della stabilità, categoria filosofica oggi vituperata perché vista oggi come sinonimo di immobilità, stagnazione, conservazione, noia, eccetera. Bisogna capire bene chi sono i lestofanti che fanno l’elogio della vita spericolata, e che non la propongono certamente per sé, ma esclusivamente per i loro servi, giullari e schiavi. Mi permetto quindi in questa risposta di approfondire due questioni filosofiche di fondo, che stanno “a monte” delle attuali apologie della precarietà della vita e della flessibilità del lavoro. Se si potesse “votare” su queste due caratteristiche generalizzate, il risultato del referendum sarebbe il 90% per il posto fisso e la sovranità politica della comunità nazionale, e solo il 10% contro (stragrande maggioranza dei finanzieri, professori universitari, intellettuali multiculturali, artisti, eccetera). Ma, appunto, questa è la sola cosa su cui non si può votare, ed è per questo che si tengono in piedi i due scenari della simulazione Destra contro Sinistra e dell’Antifascismo in assenza completa ed integrale di Fascismo. Su due cose non si vota. Non si vota sul Posto Fisso e sulla generalizzazione dell’incertezza del lavoro flessibile e precario. Non si vota infine sull’invio del mercenariato militare italiano per la guerra geopolitica USA in Afghanistan (le cui ragioni interamente di potenza sono ben spiegate dalla giornalista dalemiana Lucia Annunziata, che conobbi mentre si agitava nella redazione della rivista di estrema sinistra “Ombre Rosse”, vedi “La Stampa”, 3-12-09). Torniamo però ai nostri due problemi. In primo luogo, il dogma liberista per cui l’economia libera è in grado di rigenerarsi automaticamente da sola creando spontaneamente nuovi equilibri di mercato è un dogma religioso, e non religioso solo in parte, ma integralmente e totalmente religioso, religioso al 100%. La capacità integrale di autorigenerazione integrale senza alcun intervento esterno è infatti semplicemente una integrale secolarizzazione della capacità assoluta di rigenerazione integrale di Dio, l’unica entità onnipotente dell’universo ad essere titolare di questa sovrumana capacità. Scendendo nei particolari, si tratta di quella particolare eresia colta del protestantesimo individualistico che è il cosiddetto “deismo”, coltivato da Loke insieme con la sacralità della proprietà privata e con l’azionariato in una compagnia per il commercio degli schiavi negri. Ed è per questo che sono del tutto fuori strada coloro che credono di liberarsi della religione santificando Darwin (santo subito! santo subito!), ridicoleggiando il creazionismo, e sostituendo l’astrofisica e la teoria dell’evoluzione ai miti biblici. Di tutti i confusionari costoro sono i più confusionari di tutti. Oggi la superstizione religiosa non sta in Lourdes o in Padre Pio, ma sta esclusivamente nella santificazione della magica capacità autorigenerativa del modello della globalizzazione neoliberale. I treni dei malati a Lourdes non fanno male a nessuno, ma sono anzi un lodevole momento per la socializzazione comunitaria. Sono invece gli idolatri cannibali della magica capacità autorigenerativa del modello neoliberale che mettono in pericolo la vita umana. Ma mentre scrivo questo, so perfettamente che siamo lontanissimi dai presupposti minimi per la formazione di una coscienza culturale diffusa che possa rendersi conto di tutto questo. Questa idolatria neoliberale della capacità divina onnipotente di autorigenerazione, che so bene essere soltanto una pestifera secolarizzazione della capacità del corpo di Cristo di rigenerarsi da solo dopo la morte, è oggi la principale religione dell’Occidente, l’unica diffusasi anche in Russia, India e Cina. Ma prima o poi cadrà, e sarà l’umanità stessa a farla cadere.
Vi è però un secondo punto che è molto più importante del primo.
A causa della pittoresca ignoranza economica dei filosofi e della correlata ignoranza filosofica degli economisti e dei sociologi resta oscuro alla maggioranza degli osservatori il rapporto organico fra il lavoro flessibile e precario, da un lato, e la distruzione dell’etica borghese precedente, soprattutto nei tre campi della famiglia, dei rapporti fra le generazioni e della scuola. Eppure, o si capisce questo elementare ABC, o tanto varrebbe occuparsi soltanto di Del Piero, Balotelli e del Grande Fratello.
Le proposte di periodizzazione storica del capitalismo sono state molto numerose, come un tempo erano numerosi i topi nelle stive delle navi. Per farla breve, ho a lungo ritenuto la più attendibile quella esposta da Marx nel cosiddetto Capitolo VI inedito del Capitale, per cui il capitalismo sarebbe stato caratterizzato da due fasi successive, quella della sottomissione formale e quella della sottomissione reale del lavoro al capitale. Non si tratta di una cattiva periodizzazione, ma nello stesso tempo essa è insopportabilmente industrialistica-economicistica-riduzionistica, e finisce con il dare un’eccessiva importanza al solito lavoro di fabbrica. Ma qui Marx paga il suo prezzo alla religione capitalistica prima individuata in Locke ed in Smith. Per costoro il capitalismo è un’entità magica capace di autorigenerazione illimitata, ed è quindi l’unica entità divina esistente nell’universo (e possiamo cosi capire la ragione ultima dell’insistenza di laici, positivisti ed empiristi nella delegittimazione della religione), per Marx la produzione capitalistica resta un’entità magica immanente dotata della capacità di rovesciarsi dialetticamente in comunismo. Bisogna quindi cercare di produrre una periodizzazione diversa per individuare le svolte reali nella storia del capitalismo.
A mio avviso (mi scuso di questo prevismo elementare in pillole) le fasi principali della storia del capitalismo inteso come totalità sono due. In un primo momento il capitalismo sottomette alla sua riproduzione solo una parte della vita umana, sia pure una parte importantissima (e cioè il lavoro e le sue forme di erogazione). Deve quindi sottomettere a sé non solo il lavoro salariato, ma anche il lavoro artigiano e contadino, e cioè quello dei piccoli produttori indipendenti (a suo tempo base sociale sia della filosofia che dell’arte greca). È normale che in questa prima fase gli si contrapponga l’organizzazione politica del lavoro salariato, prima socialista e poi comunista (nelle sue innumerevoli e contrastanti versioni ideologiche). Ed è normale che restino ancora in piedi in questa prima fase sia la tradizionale mentalità di sottomissione delle grandi masse plebee che millecinquecento anni di feudalesimo avevano abituato all’obbedienza ai potenti (prima i proprietari terrieri e poi gli industriali ed i banchieri), sia i costumi borghesi, in primo luogo il patriarcalismo familiare e la serietà selettiva degli studi. In questa fase, insisto e persisto, i dominanti sottomettono soltanto l’erogazione lavorativa salariata distruggendone le autonome forme precedenti, ma lasciano in piedi sia le culture popolari sia l’etica borghese (famiglia, scuola, consuetudini religiose, eccetera). In questo modo, però, soltanto una parte dell’unità psichica umana è realmente incorporata nella produzione capitalistica, mentre resta un’altra parte che non lo è, ma che “scorre” non assimilata a fianco della riproduzione capitalistica stessa. In termini di storia della religione, diremo che la nuova religione capitalistica non si è ancora imposta interamente, ma restano zone “pagane” non ancora convertite (l’autonomia della famiglia, il tradizionalismo, la religione, l’indipendenza educativa della scuola, eccetera).
Ed è appunto in questo spazio di indipendenza potenziale che ricresce continuamente la pianta della contestazione al capitalismo, non importa se di “destra” (Ezra Pound) o di “sinistra” (Antonio Gramsci). Per la costituzione del capitalismo assoluto, il fatto che i seguaci identitari e settari di Pound e di Gramsci si ammazzino gli uni con gli altri è una risorsa inestimabile, perché non c’è nulla di meglio di un continuo scontro fra bastonatori (tipo Centro Sociale contro Casa Pound) per nascondere la segretezza dei giganteschi movimenti di capitali. Questo da luogo inoltre ad interminabili “dibbattiti” (con due bi, alla romanesca) sull’attualità dell’antifascismo, eccetera.
Ma non sta qui ovviamente il punto principale. Quella che Bauman chiama società “liquida” è soltanto la società dello scorrimento liquido dei capitali finanziari. Ora, lo scorrimento liquido dei capitali finanziari che si muovono nello spazio liscio della globalizzazione neoliberale richiede lo scioglimento preventivo degli elementi solidi delle due strutture precedenti, le comunità popolari e l’etica borghese. Da un lato, il lavoro diventa flessibile e precario, ed ogni tentativo di contestare il dominio assoluto dell’economia viene demonizzato come “totalitarismo” (di qui la connotazione dell’intero novecento, come secolo delle ideologie assassine). Dall’altro, lo scioglimento del vecchio mondo che si oppone ancora alla divinizzazione integrale dell’economia viene perseguito con metodi differenziati, che in mancanza di una seria teoria generale possono essere solo qui disordinatamente enumerati: distruzione del superio paterno sostituito dal dominio dell’Es del desiderio del consumo; femminilizzazione dell’etica sociale, anticamera del ripiegamento nel privato; esaltazione di gay e trans come alternativa virtuosa alla vecchia e noiosa forma di dimorfismo sessuale maschio-femmina; distruzione della scuola meritocratica sostituita da agenzie di socializzazione al servizio del semplice mercato del lavoro; dominio della simulazione televisiva parallela al mondo reale (non c’è più Tex Willer, ma solo Dylan Dog, non più eroi, ma solo incubi e fantasmi); non ci sono più professori, ma solo prof.
E potrei continuare, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E quindi “allegria!”, come diceva Mike Bongiorno.

3. La tematica della stabilità del lavoro evoca necessariamente quella relativa allo stato sociale, oggi giudicato incompatibile con il modello economico liberista che invece presuppone la non ingerenza dello stato nell’economia. Il posto fisso infatti comporta una serie di normative di protezione sociale di carattere previdenziale e assistenziale, oltre alla tutela sindacale. Il lavoratore stabile rappresenta un modello sociale di carattere eminentemente politico: la stabilità è infatti intesa come una forma di tutela atta a consentire il libero esercizio dei diritti politici garantiti dalle costituzioni democratiche. Infatti solo l’uomo liberato dai bisogni primari (prima casa, lavoro stabile, contratto collettivo di lavoro, sanità, previdenza), può essere in grado di godere della necessaria autonomia atta a garantirgli la libera partecipazione politica. Nella condizione della precarietà, tali restano sostanzialmente preclusi: se nulla il lavoratore può decidere circa la sua sfera individuale e familiare (regolate dall’andamento dei mercati), tanto meno egli potrà esercitare le proprie libertà in campo politico. Lo stato sociale inoltre, è di impossibile realizzazione in una economia basata sulla precarietà del lavoro. Infatti lo stato sociale può sussistere, in quanto alimentato da un surplus di reddito prodotto e devoluto allo stato perchè questo possa adempiere alle sue funzioni di tutela sociale. Il lavoro precario, invece, proprio perché instabile, non consente l’accumulo di risorse  necessarie per il finanziamento dello stato sociale. Lo stato sociale delinea dunque un modello statuale basato sul primato dei diritti sociali rispetto a quelli individuali, creato e sviluppatosi originariamente in Europa e più volte riprodotto in altre parti del mondo: Sudamerica, mondo arabo, Canada ecc. L’Europa, dopo la fine dell’URSS, pur essendo stata soggetta al processo espansivo della globalizzazione economica, ha conservato alcune strutture proprie dello stato sociale, che hanno consentito ad alcuni stati (vedi l’Italia), di contenere gli effetti devastanti della crisi del 2008. Nel mondo globalizzato, la crisi ha ridimensionato notevolmente il ruolo dominante degli USA nel mondo: Cina, India, Sudamerica si sono notevolmente affrancate dal predominio economico e politico statunitense, solo l’Europa ne rimane consapevolmente soggetta. Ma è proprio e solo l’Europa ad avere creato ad avere creato vari modelli economico-sociali alternativi a quello liberista anglosassone. Solo l’Europa può proporre modelli statuali portatori di equilibri sociali esportabili universalmente che consentono mutamenti strutturali che possano offrire soluzioni ad una crisi dinanzi alla quale le teorie liberali manifestano tutta la loro impotenza. La decadenza europea è dovuta alla sua subalternità agli USA, ma solo il Vecchio Continente è portatore di modelli sociali “rivoluzionari”. Le potenze emergenti, pur svincolandosi dalla supremazia americana, ne hanno importato il modello economico, ed è prevedibile nel tempo, l’esplodere di enormi conflitti sociali, che possono essere prevenuti e/o risolti solo attraverso riforme istituzionali che consentano la partecipazione politica ed equilibri stabili tra le classi sociali.

In molte vostre conversazioni precedenti ci siamo già ripetutamente soffermati sull’Europa e sul suo destino. Rileggendole per poter rispondere meglio a questa tua terza domanda, mi sono accorto che siamo quasi sempre rimasti al di sotto della gravità del pericolo mortale sull’Europa che noi conosciamo. Dal 1945 al 1991 essa non era sovrana, perché era militarmente occupata da due superpotenze ideologiche, per cui i poveri europei, privi della benché minima sovranità (e la sovranità geopolitica e militare è la base indispensabile di tutte, ma proprio tutte, le altre sovranità). Ma dal 1991 l’Europa, che avrebbe potuto approfittare dell’occasione della caduta di una superpotenza per poter educatamente liberarsi anche dell’altra, non solo non lo ha fatto, ma ha incredibilmente rafforzato i legami materiali e spirituali con l’altra rimasta (gli USA, ovviamente). Ora, gli USA sono una potenza culturale estranea all’Europa (tralascio qui di citare una immensa bibliografia che lo dimostra analiticamente), sorta fuori e contro l’Europa stessa, sulla base del diritto comune anglosassone e non del diritto romano, e sulla base del messianesimo veterotestamentario e non della solidarietà neotestamentaria. Ora, il diritto romano è bensì stato concepito sulla base della tutela della proprietà privata (il noto ius utendi et abutendi, ove in questo abutendi ci sta il nocciolo della sua radicale insufficienza per garantire una comunità umana), ma esso almeno stabilisce i termini della dicotomia Pubblico/Privato, che resta l’imprescindibile base filosofica per sviluppare la dicotomia fra proprietà individuale e disponibilità pubblica di beni comunitari indisponibili (ad esempio la salute, e poi la casa e l’istruzione). Negli USA tutto questo è letteralmente impensabile e indicibile, ed infatti lo stesso Obama non osa neppure lontanamente giungere ad un sistema sanitario pubblico generalizzato di tipo francese o italiano (pur con tutti i suoi noti difetti), ma deve semplicemente limitarsi ad aumentare la copertura assicurativa privata, e già questo timido passo insufficiente è accusato di “socialismo” (ricordo l’affermazione di una star hollywoodiana di cui ora non ricordo il nome).
Se l’Europa comincia a mollare sulla distinzione fra beni comuni che devono essere disponibili in via di principio per tutti (nell’ordine: sanità, abitazione, scuola) e beni individuali allora essa è morta. In questo modo non avrebbe solo perso il corpo (almeno dal 1945 l’ha perso, e nessuno sa quando potrà recuperarlo), ma anche l’anima (psychè). E l’Europa senza anima è solo un’espressione geografica, per dirla con Metternich, una appendice peninsulare del grande continente asiatico, cui una potenza straniera ed estranea cerca di rubare quanto resta della sua anima.
E dal momento che repetita juvant, ripetiamo quale ritengo che sia la sua anima in pericolo. In estrema sintesi, l’Europa è stata costituita culturalmente da tre elementi: la filosofia greca, il diritto romano e la religione cristiana. La filosofia greca si basa sul principio delfico, pitagorico ed infine socratico del “conosci te stesso” (gnothi s’eautòn), e quindi sulla conoscenza della natura umana complessiva dell’individuo. Ma questa natura umana complessiva dell’individuo dotato di anima non ha nulla a che fare con quella sua oscena e ridicola caricatura che è l’homo oeconomicus, che è quella piccola porzione di individualità che si occupa dell’arricchimento privato (l’aristotelica crematistica), e che fa diventare una parte il tutto. Anzi, la stessa filosofia greca nasce proprio contro l’autonomizzazione dell’arricchimento illimitato (aperion) e della schiavitù per debiti. In Grecia non esisteva un vero e proprio diritto greco, in quanto esistevano leggi comunitarie (nomoi), il cui scopo era la regolazione della corretta divisione (nemein) sia del denaro che del potere. Non esisteva quindi un illimitato ius utendi et abutendi dell’individuo, formalizzato in diritto universale ed astratto. Questo nasce soltanto a Roma, e prima non c’era, e nasce solo sulla base della generalizzazione universale della proprietà privata. Questa proprietà privata era “privata” perché i suoi titolari originari storici (i plebei romani) erano esattamente coloro che erano “privati” del godimento dei beni comuni (ager publicus). Alla crudeltà astratto-formale di questo diritto assoluto di proprietà si oppose il cristianesimo neotestamentario (le scritture ebraiche, scorrettamente battezzate “antico testamento”, sono soltanto una mitologia romanzata di fondazione della sola nazione ebraica, e sono altrettanto poco universalistiche della religione sciamanica siberiana), basato sulla carità e sulla solidarietà comunitaria. Nella sua pittoresca incapacità totale di mutare la struttura sociale (prima schiavistica, poi feudale, ed oggi capitalistico-globalizzata) il cristianesimo fu costretto a dismettere i panni del primitivo suo messianismo escatologico ed apocalittico, ed a rivestire i più tranquillizzanti panni della beneficenza fatta da un benefattore (il greco everghetes). Si tratta della dialettica europea che ormai conosciamo bene: conosci te stesso (elemento filosofico greco), proprietà privata (elemento giuridico romano), ed infine pratica della carità sulla base della verità religiosa (elemento religioso cristiano). Insisto sul fatto che questa dialettica trinitaria (e pertanto dialettica) è del tutto indipendente dal fatto contingente per cui il singolo individuo europeo creda in Dio oppure no, si dichiara di destra oppure di sinistra, eccetera. Questa è solo l’accidentalità, che Hegel a suo tempo affermò non essere razionalmente deducibile, perché casuale ed aleatoria. Questa è semplicemente l’anima dell’Europa, da cui deriva anche lo stato del benessere e la copertura scolastica e sanitaria generalizzata ed erga omnes.
Tutto questo è oggi messo in pericolo dalla mancanza di un freno (il greco katechon). Non entro qui nel merito sulla natura di questo katechon, che può essere l’equilibrio fra superpotenze (a mio avviso, un buon katechon), l’utopia egualitaria (anche se egualitario-dispotica) del comunismo storico novecentesco, la carità solidale cristiana, eccetera. Quello che conta è che ci sia un katechon purchessia, per ora.
Il dispotismo dell’unico impero messianico USA (del tutto indipendente dalla direzione contingente dal Bianco Cattivo Bush e/o del Negro Buono Obama) e la generalizzazione della globalizzazione neoliberale rappresentano la morte dell’Europa, o se si vuole il suo suicidio. E tuttavia, essere uccisi o suicidarsi è certo diverso, ma il risultato alla fine è lo stesso. Con il modello del messianesimo crematistico anglosassone (psicologia invece di filosofia, diritto comune invece di diritto romano, economia politica invece di religione) l’Europa è semplicemente morta. Le sue attuali oligarchie (politici sottomessi, circo mediatico di saturazione, clero intellettuale di universitari pomposi, attori, pagliacci, transessuali e sessantottini corrotti) preparano la morte dell’Europa. Non del tutto a caso il gran parlare (sia pure più che legittimo) di eutanasia volontaria non è altro che il riflesso duplicato di una ben più grande eutanasia volontaria, quella di un intero continente. Il pensiero europeo oggi è una grande tanatologia, in un clima sbracato e sbrodolato di cerebrolesi alla guida del furgone.
Aspettiamo i barbari, per dirla con Kavafis. Ma non verranno mai. Per ora, limitiamoci a sperare che i talebani caccino le truppe imperiali dall’Asia Centrale. Di più per ora è difficile sperare.

4. Il ritorno della stabilità occupazionale, non rappresenterebbe di per sé un’alternativa alle impostazioni liberiste in campo economico. Sia il posto fisso che la precarietà  sono fenomeni legati alla storia e alla dialettica sociale interna al capitalismo.  Entrambe sono forme di occupazione riconducibili alla categoria del lavoro dipendente.  Quest’ultimo, oggi prevalente, ha avuto la sua espansione in conseguenza della rivoluzione industriale, che sradicò le popolazioni dall’agricoltura e dall’artigianato, per impiegarle nell’industria nascente. Nelle fasi di crescita e di stabilizzazione, nell’economia capitalista ha prevalso il posto fisso, le tutele sociali, con i conseguenti meccanismi di redistribuzione del reddito. Invece, nelle fasi di trasformazione e/o di crisi prevale la precarietà del lavoro. Non a caso l’avvento della globalizzazione fu annunciato dallo slogan, poi divenuto dogma “scordatevi il posto fisso”. Infatti, nella storia del capitalismo è sempre il lavoro dipendente ad essere oggetto di sperimentazione nelle trasformazioni economiche. Il posto fisso non salvaguarda certo il lavoratore dalla disoccupazione nelle ricorrenti crisi occupazionali insite nel succedersi dei cicli dell’economia. Il posto fisso è, al pari della precarietà, soggetto alla logica del mercato del lavoro, poichè entrambi, sono forme diverse del fenomeno lavoro-merce, proprio dell’economia liberale. Anche il lavoratore stabile delega la propria vita lavorativa all’impresa che acquista le su prestazioni in cambio della sopravvivenza, per essere poi espulso dal processo produttivo per obsolescenza o non compatibilità con le politiche aziendali. Il lavoro stabile ha avuto la sua massima espansione nel “trentennio virtuoso” teorizzato da Hobsbawm (1945-1975), nelle fasi di sviluppo dell’economia mista, del keynesismo, della socialdemocrazia in campo politico. Ma oggi, queste forme di “capitalismo illuminato” sono improponibili. La perdita di sovranità degli stati nell’economia globalizzata rende le istituzioni politiche impotenti a fronteggiare le crisi e dare direttive in campo economico. La stessa socialdemocrazia p un fenomeno novecentesco ormai consegnato alla storia. I partiti di sinistra l’hanno abbandonata,  in virtù di una ideologia liberal rivelatasi perdente. Infatti la socialdemocrazia occidentale della seconda metà del ‘900 era una ideologia ormai destrutturata. Essa era un’ideologia marxista il cui fine era l’avvento del comunismo: solo che, a differenza del leninismo, perseguiva i propri obiettivi per via democratica. Essa fu sempre sconfitta, Lenin  e la rivoluzione russa ne decretarono il fallimento. Nel dopoguerra, in occidente essa ripudiò il marxismo per  assumere un ruolo riformista in seno alla società capitalista. Importanti riforme sociali si devono al socialismo riformista, al laburismo, ma oggi il capitalismo globale non necessita più di mediazioni politiche, né di equilibri sociali stabili. Dinanzi a questa crisi sistemica del capitalismo, occorre elaborare nuove soluzioni che determinino nuovi equilibri sociali. Occorre pertanto far riferimento a modelli che eliminino la dialettica della contrapposizione tra capitale e lavoro e quindi, il fenomeno del lavoro-merce di scambio.  Pertanto, ritengo che  le uniche dottrine sociali alternative all’economicismo liberale siano quelle che propongano la partecipazione , unicamente alla cogestione dell’impresa: tali dottrine socio-economiche hanno  avuto limitata applicazione nel capitalismo renano, nella socialdemocrazia scandinava, nella cogestione iugoslava. Ma in occidente si è sempre impedito che tali riforme economiche avessero riscontro nella rappresentanza politica. Occorre dunque ispirarsi alla estensione della responsabilizzazione del lavoratore all’interno dell’impresa, onde favorire la sua partecipazione ai processi decisionali. Forme di cooperazione, cogestione, partecipazione, oltre che nell’economia, vanno anche estese agli ambiti professionali, culturali,  dell’associazionismo  no-profit, a tutte le componenti cioè del tessuto sociale. Tuttavia, a mio parere (ma tale argomento necessita di approfondimento in altra sede), tali trasformazioni debbono necessariamente essere promosse, gestite, attuate dallo stato, perchè si impedisca che si generino nuove forme di capitalismo sotto mentite spoglie e si vanifichi l’auspicabile e necessario processo di liberazione del lavoro dalla sua soggezione al capitale: non vorrei quindi, che all’egoismo  individuale e/o oligarchico, si sostituisse l’egoismo dei molti e/o dei tutti.

Siamo partiti dal Posto Fisso, e si è aperta una “catena dei perché” (l’espressione, impagabile, è di Franco Fortini) che ci ha portato alla globalizzazione neoliberale, all’impero messianico USA, alla piena legittimità di un regolato ritorno al protezionismo di “area geopolitica”, al suicidio dell’Europa, alla secolarizzazione economica della religione, alla necessità di flessibilizzare e di rendere precaria l’intera natura umana, eccetera. Del resto, se si tira il filo giusto, si snoda a poco a poco l’intero gomitolo. E la scomparsa del Posto Fisso, unito con l’asfissiante ideologia postmoderna della fine delle grandi narrazioni (l’altra faccia filosofica della fine economica del posto fisso), è proprio il capo del filo che sgomitola a poco a poco l’intero gomitolo.
Tuttavia, hai perfettamente ragione a rilevare che non possiamo avere una posizione fissista e geocentrica sul Posto Fisso, come se da esso si potesse dedurre l’intera logica della riproduzione capitalistica. La riproduzione capitalistica, infatti, segue un andamento ciclico, e non certo un andamento lineare e progressivo (questo è il codice illusorio del punto di vista progressistico dell’illuminismo iperborghese, in cui sono caduti come pesci i cosiddetti “marxisti”, puri e semplici positivisti poveri e subalterni). Il solo andamento non ciclico, forse, è quella incorporazione di tutta la vita umana nella sottomissione capitalistica di cui ho parlato nelle mie risposte precedenti. Il resto, tutto il resto, ma proprio tutto il resto, è ciclico e non lineare progressivo. In quanto alla teoria marxista dell’inevitabile necessità del rovesciamento del capitalismo in un comunismo senza famiglia e senza stato, essa è certamente più attendibile della teoria piatta, ma non di molto e non è comunque epistemologicamente superiore alla teoria del disegno intelligente della creazione, che le è però superiore dal punto di vista estetico, etico ed artistico.
Hai dunque ragione, lo ripeto, a rilevare che la (relativa) permanenza del posto fisso non è un dato tolemaico, ma contraddistingue soltanto certi momenti di storia del capitalismo, come i famosi “trenta anni gloriosi” del fordismo-keynesismo di Hobsbawm. Non sono personalmente un ammiratore di Hobsbawm, anche se scrive bene ed è divertente leggerlo. Non sono un suo ammiratore perché Hobsbawm è un propagatore della stupida concezione per cui le nazioni sono semplici “comunità immaginarie” inventate da letterati e lessicografi al servizio di politici protezionisti. Si tratta di una teoria che, oltre ad essere attualmente falsa, è stata entusiasticamente adottata da tutti gli apologeti della globalizzazione e della fine degli stati nazionali, il cui destino è quello di essere “frullati” in un unico impero cosmopolitico e multiculturale a dominio USA. Il massimo degli orrori. E tuttavia, resta il fatto che il Posto Fisso è un buon punto per iniziare a sgomitolare la “catena dei perché”, ma non è il centro metafisico e tolemaico del mondo.
Come tu affermi, in buona compagnia con Giorgio Gaber, la libertà è la partecipazione. Dal momento che sono pienamente d’accordo, non aggiungerò argomenti supplementari. Anche per me la libertà è partecipazione. La semplice partecipazione però è insufficiente se insieme ad essa non matura un punto di vista filosofico veritativo sul mondo. Gli ateniesi partecipavano moltissimo alla gestione della loro polis, ed erano quasi cinquecento quando la loro partecipazione portò alla ingiusta condanna a morte di Socrate. Insieme alla partecipazione, infatti, ci vuole un corretto punto di vista filosofico veritativo sulla giusta riproduzione complessiva della specie umana sulla terra.
E tuttavia, non voglio essere troppo sofisticato. Una cosa per volta. Se infatti ci fosse già oggi una partecipazione adeguata alle scelte economiche di impresa, tutte le stupidaggini sulla globalizzazione neoliberale sfumerebbero in qualche mese come neve al sole, ed i soli indici sociali realmente importanti sarebbero quelli sull’occupazione, laddove oggi i cosiddetti indici di “uscita dalla crisi” sono quelli dei banchieri e degli speculatori che ricominciano a guadagnare (ma hanno mai cessato di farlo? Ecco una domanda che porrei ad un amico economista, se ne avessi uno). Ma oggi sembra che la partecipazione della cosiddetta “società civile” (non a caso, sono i lavoratori ad essere pericolosi, la società civile è più innocua di un gattino) si limiti ai raduni dello scamiciato dialettofono molisano Di Pietro e dei cortei viola di anti-berluscones.
In questo modo non possiamo tirarcene fuori. Se avessi precise ricette per tirarcene fuori, le comunicherei immediatamente a te ed ai nostri (pochi) lettori. Ma siccome non le ho, il comune senso del pudore mi invita a tacere ed a chiudere qui. Iddio ci protegga!