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L'ultima dai film: la famiglia è cambiata

di Giuliano Compagno - 28/01/2010


 
Se la premessa è che cinque indizi facciano una prova, il fatto che altrettanti registi italiani abbiano diretto quasi in perfetta sincronia opere riguardanti la famiglia e la sua trasformazione in atto ci fa pensare che questo argomento sia di straordinaria attualità. In Io, loro e Lara Carlo Verdone racconta di un missionario in crisi che ritorna all'ovile e viene travolto dalle nevrosi di un nucleo disastrato; in Baciami ancora Gabriele Muccino dipinge i nostri quarantenni con relative compagne a formar coppie sempre più problematiche; in La prima cosa bella Paolo Virzì descrive la figura di una madre abbandonata che a sua volta non rinuncia al suo ruolo; in Genitori e figli Giovanni Veronesi narra di una relazione infinita e mai risolta; in Le mine vaganti Ferzan Ozpetek ritrae le contraddizioni di un clan meridionale dinanzi al tempo che muta.
Proprio il regista turco, in una recente intervista, ha acutamente sottolineato che, in realtà, è stata la nozione di "cambiamento" a stimolarlo. Non già la famiglia intesa come il moloch di tutte le allegorie ma come il luogo di un permanente trasformarsi della rappresentazione culturale e affettiva di una società moderna. Seguiamo convintamente questa sua idea e con ciò trascuriamo ogni abusata retorica tesa a omologare un fenomeno tanto complesso all'interno di un rifugio valoriale accogliente e risolutivo per tutti gli individui. Tali e tante sono state le variazioni sul tema, che vale la pena evocarne qualcuna, giacché il rischio opposto sarebbe di ricadere nel famoso riflusso, sintomo di quegli anni Ottanta che Stefano Di Michele seppe spiegare in un suo ironico saggio del 2003. Non è questo il caso. Non di un riparo dove altre generazioni andrebbero di nuovo a svernare in attesa di altre stagioni eroiche e nemmeno della presa d'atto di una compiuta disintegrazione, da cui rimarrebbero soltanto macerie da spazzar via. Semmai la cosiddetta famiglia "allargata" si è andata imponendo come soluzione alternativa allo smantellamento del nucleo. Le figure dei padri e delle madri bis sono ormai costitutive dell'organizzazione e ignoriamo se i figli ne siano vittime o piuttosto carnefici. Di fatto costoro appaiono sufficientemente strutturati da riuscire a difendersene benissimo, praticando quegli stessi meccanismi di difesa che Anna Freud descrisse mirabilmente in un suo celebre libro, con ciò affinando la loro naturale attitudine a «identificarsi con l'aggressore» attraverso una strategia di progressiva affezione nei confronti dello sconosciuto "invasore". All'origine dell'inevitabile caos sta la crescente crisi della coppia, su cui - oltre a consultare le inquietanti statistiche (circa centomila separazioni l'anno) - varrebbe la pena riflettere. Spesso si rimanda a una generica fragilità della parte maschile. Tanto per cercare di individuarne le ragioni, potremmo riferirci a quel processo autoidentitario attraverso il quale le donne hanno acquisito coscienza della loro ricchezza. Non si tratta soltanto di conquiste sociali, bensì di una progressiva capacità di uniformare mente e corpo sino alla consapevolezza delle proprie risorse sessuali e sensibili. A fronte di questa accelerazione l'uomo è rimasto al palo, distanza che ormai si nota sin dall'età dell'adolescenza (le relazioni tra teen-agers non sono più dialettiche ma funzionali). Chi soffia sulla brace di un malinteso post-maschilismo non percepisce lo smarrimento reale del'uomo, passato da un regime di fallocrazia a un fallofobico governo di sè. In questo quadro le figure genitoriali finiscono per mescolarsi confusamente. Anche su questo piano si tende a imbrogliare le acque. Il problema non è quello della figura paterna che, fellona, viene a mancare ma dello svanire del suo ruolo stesso. Secondo la condivisibile opinione di Claudio Risé, l'attuale scomparsa del padre rimanderebbe a una palese omologazione delle funzioni, conseguenza della di lui rinuncia a trasmettere al figlio le ferite del mondo e del comune appiattirsi su un tipo di educazione basata principalmente sulla conciliazione e sull'armonia femminili. Va da sé che ai bimbi sia negata l'originaria opportunità di discernere tra le due figure di riferimento. Del pari omogeneo è il reciproco riconoscersi tra le generazioni. Tutto nasce da un utile fraintendimento che sfocia in luogo comune: «Non si può essere amici dei propri figli, bisogna anzitutto essere genitori». È una sciocchezza che sottovaluta una tematica assai più cogente, quella della comunicazione. Il grande cambiamento infatti appare epocale allorché si consideri che oggi tre generazioni successive (dai 10 ai 60 anni) stanno usufruendo degli stessi media e dei medesimi linguaggi. Tale coincidenza ha annullato ogni differenza espressiva: che nonno e nipote coabitino un social network è assai più impressionante della circostanza che essi condividino un cognome! Nel formarsi di questa concreta indifferenza rispetto allo scarto della memoria e dell'esperienza umana sta tutta la complessità di un'istituzione - come la famiglia contemporanea - che appare in perenne movimento, senza un'eredità e un patrimonio certi, privata di quel retaggio e di quell'insegnamento che si trasmettevano come un rito, eppure viva, a tratti felicemente disordinata, l'esatto contrario di quel sacro calderone di valori che la cultura del piagnisteo ancor oggi tenta di trasmetterci.