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Crimini atroci possono avvenire anche sotto il naso dell’opinione pubblica democratica

di Francesco Lamendola - 24/02/2010

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Esiste un pregiudizio radicato, nell’ambiente degli storici di formazione accademica e anche presso l’opinione pubblica delle società democratiche: che solo all’interno di un sistema politico dittatoriale possano essere perpetrati crimini contro l’umanità da parte delle autorità statali, senza che la popolazione, pur essendone a conoscenza, vi si ribelli.

Il riferimento d’obbligo, naturalmente, è ai crimini commessi nel Terzo Reich contro gli oppositori politici, contro i malati di mente e i portatori di handicap, nonché contro Zingari ed Ebrei; e la morale, implicita o esplicita, che gli esponenti della cultura democratica ne ricavano, è che mai e poi mai cose del genere avrebbero potuto accadere o, meno ancora, potrebbero oggi accadere, all’interno delle società liberaldemocratiche.

Un tipico esempio di questo pregiudizio è offerto dalla ricerca condotta da Johnson (già autore de «Il terrore nazista» e Reuband, ed enfaticamente intitolata, nella traduzione italiana, «La Germania sapeva», recentemente pubblicata da Mondadori.

A conclusione della loro indagine su un cospicuo campione di testimoni tedeschi ed ebrei, lo storico americano Eric A. Johnson, docente alla Central Michigan University, e il sociologo tedesco Karl-Heinz Reuband, docente all’Università di Düsseldorf («La Germania sapeva. Terrore, genocidio, vita quotidiana» (titolo originale: «What We Knew», 2008; traduzione di Daniela Aragno, Milano, Mondadori, 2008, 2009, pp.415-416), così, infatti, scrivono:


«Dalla nostra indagine si ricava, dunque, che le persone che tenevano gli occhi e le orecchie [sic] bene aperti in genere non ebbero grandi difficoltà ad accorgersi dei crimini contro l’umanità perpetrati dai nazisti. Un numero elevato sia di ebrei sia di non ebrei sapeva dell’Olocausto, così come sapeva dell’eliminazione dei malati di mente e degli handicappati e delle torture praticate dalla Gestapo. Ebrei e non ebrei, inoltre, erano per lo più consapevoli dei rischi (particolarmente gravi soprattutto per gli ebrei) a cui si andava incontro nel divulgare informazioni su questo argomento e nel commettere illeciti di altro tipo ( -per esempio, ascoltare trasmissioni radiofoniche vietate, criticare i dirigenti nazisti, offrire aiuto e protezione a potenziali vittime del regime ed entrare nelle organizzazioni di resistenza - ma non si asteneva dal commettere tali reati.

Durante il Terzo Reich, la maggior parte degli ebrei visse nella paura costante, o quasi costante, di essere arrestata. Color che sono sopravvissuti devono la vita perlopiù al fatto di essere emigrati all’estero ben prima che lo sterminio cominciasse. Quasi tutti gli ebrei che rimasero in Germania dopo l’inizio della guerra, infatti, finirono per essere eliminati.

La maggior parte dei non ebrei ebbe una percezione del Terzo Reich completamente diversa,. Pochi ebbero paura di essere arrestati, pur infrangendo spesso le leggi con tutta una serie di reati minori. I più avvertirono istintivamente che l’apparato del terrore non aveva alcun interesse a perseguirli, almeno finché avessero accettato e condiviso le basi del nazionalsocialismo, cosa che del resto in genere fecero. Anche se la cosa è difficile da capire, data l’opinione comunemente diffusa sui regimi dittatoriali, moltissimi tedeschi, a quanto pare, condussero una vita felice, produttiva e perfino normale durante il Terzo Reich. Ciò significa che una dittatura può godere di un’ampia popolarità tra la maggioranza della gente, pur commettendo crimini indicibili nei confronti delle minoranze.»

Il sottinteso di questa conclusione (terribilmente povera e semplicistica, al termine di una indagine di 400 pagine), assai compiaciuto, è che quelle cose non sarebbero mai potute accadere in Paesi democratici, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna; il che è, manifestamente, una sciocchezza e una menzogna.

Gli Stati Uniti, nati in seguito ad una rivoluzione democratica, portano nei propri cromosomi il retaggio di un doppio crimine contro l’umanità: la schiavitù dei neri, praticata su larghissima scala fino al 1863, e lo sterminio deliberato, sistematico, degli Indiani, preceduto da quello, altrettanto sistematico e deliberato, del bisonte, loro principale fonte di sopravvivenza e base materiale della loro ricca e spirituale cultura.

Il genocidio degli Indiani delle Pianure, in particolare, venne perseguito con veri e propri metodi di guerra batteriologica, ad esempio consegnando loro coperte per l’inverno, da parte delle agenzie governative a ciò preposte, infettate con il vaiolo. Inoltre, episodi come l’assassinio di Sitting Bull o come il massacro del fiume Washita e, più tardi, di Wounded Knee (che i libri di storia americani continuano a definire “battaglia”, mentre le uniche vittime statunitensi furono quelle provocate dal fuoco amico), perpetrati in flagrante violazione di qualsiasi norma del diritto e di qualsiasi senso di umanità, erano perfettamente note all’opinione pubblica delle grandi città dell’Est, agli uomini politici, agli scrittori, ai giornalisti. E tuttavia, il criminale può diventare poco meno che un eroe nazionale: tale il caso del colonnello Custer.

Ma non occorre andare così indietro nel tempo per mostrare che una società democratica può benissimo convivere felice, immersa nel più spensierato consumismo, pur nella piena consapevolezza dei crimini commessi dal proprio governo. Forse che, mentre i bombardieri statunitensi colpivano deliberatamente gli argini dei fiumi vietnamiti per allagare le campagne e distruggere i raccolti, l’opinione pubblica americana non aveva modo di essere informata di tale crimine, come e meglio di quella tedesca durante il Terzo Reich?

Si potrebbe obiettare che la distruzione degli argini non aveva lo scopo di provocare la morte per fame di migliaia di persone, ma quello di indebolire la guerriglia vietcong; lo riconosciamo: ma quello che avvenne in realtà, e la cosa era assolutamente certa fin dall’inizio, fu che la popolazione civile venne condannata alla fame. Quando si sa quale sarà l’esito di una certa operazione, e tuttavia la si intraprende in piena libertà di scelta, non si ha poi il diritto di farsi scudo del fatto che l’obiettivo era un altro. Altrimenti, anche i criminali nazisti avrebbero potuto giustificarsi dicendo che la morte dei detenuti di Auschwitz, Treblinka e Maidanek non era il loro obiettivo, bensì quello di rendere inoffensiva la “quinta colonna giudaica” in Europa, nella situazione di emergenza provocata dalla guerra.

Del resto, lo storico dell’antichità sa bene che democrazia e imperialismo, democrazia e crimini contro l’umanità, non sono per niente concetti antitetici: basta leggere Tucidide. Il regime democratico di Atene, guidato da Pericle, si fece forse scrupolo di ordinare che gli abitanti dell’isola di Melo, rei di non aver voluto aderire alla Lega delio-attica, venissero passati tutti a fil di spada, senza risparmiarne alcuno? Tutto questo avveniva nel 416 a. C., al tempo della guerra del Peloponneso; ma l’unica cosa che è cambiata, da allora, nei regimi democratici, è la capacità di assuefare l’opinione pubblica a coesistere con la consapevolezza di tali atrocità.

La tecnica è sempre la stessa: presentare gli aspetti più orribili di tali crimini come semplici effetti collaterali di una determinata strategia militare, oppure come un male necessario, ovvero come il male minore, in vista dei valori superiori della pace, della giustizia, della libertà. I cittadini inglesi, nel 1945, sapevano che Dresda era stata rasa al suolo senza alcuna utilità militare e che decine di migliaia di inermi cittadini erano periti nel suo immenso rogo, ma non protestarono. Né protestarono gli Americani quando giunsero i primi rapporti dal Giappone, relativi agli spaventosi effetti delle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.

Si può convivere con la consapevolezza dell’orrore, se questo è stato presentato come un ragionevole prezzo da pagare in vista di un bene superiore, in particolare della pace. In nome della pace e del suo logico corollario, la sicurezza, sono state lanciate le campagne contro l’Afghanistan del 2001 e contro l’Iraq del 2003; dopo di che, pochissimi si sono chiesti, in Occidente, se le centinaia di migliaia di morti che tali operazioni hanno provocato, e continuano a provocare, siano davvero giustificate dai risultati ottenuti.

Oppure che dire dei primi campi di concentramento della storia moderna, quelli allestiti dall’esercito imperiale di Sua Maestà britannica durante la guerra del Sudafrica, nel 1899-1902, nei quali vennero rinchiusi migliaia e migliaia di civili boeri, molti dei quali vi trovarono la morte per le epidemie di tifo e per gli stenti? Eppure il bravo borghese di Londra o di Birmingham, che acquistava ogni mattina la sua copia del «Times», sapeva quello che stava accadendo nelle retrovie del teatro di operazioni; o, per dire meglio, sarebbe stato in grado di saperlo, se davvero lo avesse voluto.

Ed eccoci arrivati al punto.

L’accusa di Johnson e Reuband può essere perfettamente rovesciata, non per assolvere i regimi dittatoriali, ma per accomunare nella critica quelli democratici: nelle condizioni proprie della società moderna, nessun crimine di vaste proporzioni può essere interamente occultato all’opinione pubblica.

I regimi dittatoriali si sforzano di censurarlo; quelli democratici, invece, usano un’altra e ben più sofisticata tecnica: essi praticano la disinformazione sistematica, consistente nel mescolare abilmente verità e menzogna, fino a lasciare l’opinione pubblica in uno stato di confusione totale, o meglio, fino a scoraggiare in essa la ricerca della verità, assecondando la sua naturale pigrizia e il suo abituale conformismo.

È relativamente facile, per il cittadino, oltrepassare le barriere della censura, allorché sia in atto un crimine contro l’umanità di vaste proporzioni: nessuna censura al mondo può impedire a milioni di persone di vedere e di sapere, in tali situazioni, che è in corso qualche cosa di terribile. Peraltro, bisogna precisare che questo “qualche cosa” rimane piuttosto vago e indefinito, sino a quando quel regime dittatoriale conserva tutto il proprio potere di controllare le informazioni e di intimidire gli eventuali dissenzienti.

Se, poi, i gruppi che sono vittime dei crimini governativi appartengono a delle minoranze malviste - a torto o a ragione - dalla popolazione, si può comprendere (non giustificare, che è altra cosa) come quest’ultima preferisca voltare la testa dall’altra parte, allorché le dovessero giungere notizie, per giunta incomplete e confuse, di quanto stia avvenendo ai danni di tali soggetti. Come spiegare, altrimenti, il fatto che circa due milioni di Armeni vennero sterminati in pochi mesi, fra il 1915 e il 1916, dal governo dei Giovani Turchi, senza che dalla popolazione turca si levassero voci di protesta di alcun tipo?

Ci stiamo, così, avvicinando al cuore del problema.

Il problema non è che «La Germania sapeva»; il problema è che i membri di qualunque società, sia essa dittatoriale o democratica, sono in grado di sapere, se realmente lo vogliono, di quali crimini si stia macchiando il proprio governo, senza tuttavia reagire. Ma, in una società democratica, ciò può avvenire persino più facilmente che in una dittatoriale: perché i suoi membri si vedono garantita per legge la libertà di pensiero, di parola e di associazione e, quindi sanno di essere loro ad aver scelto il governo in carica; sanno che quei crimini, se accadono, sono commessi in loro nome e per loro conto. Il che è difficile da accettare: meglio fare finta di nulla, per tacitare la propria coscienza.

In una società dittatoriale, i cittadini i quali riescano a conoscere, o almeno ad intuire, i crimini commessi dal proprio governo, non si sentono personalmente responsabili di essi, perché, appunto, non si tratta di un governo soggetto al controllo popolare; ma in una società democratica, i cittadini che facessero una simile scoperta, non potrebbero non provare angoscia e senso di colpa, per essersi liberamente dati un governo capace di simili cose.

La conclusione - solo apparentemente paradossale - è che la democrazia può essere più totalitaria della più brutale delle dittature e, pertanto, che non è assiomatico, come invece affermava Churchill, che essa corrisponda per forza di cose al meno peggiore dei sistemi politici possibili. Vi possono essere democrazie capaci di macchiarsi di crimini atroci, e dittature relativamente blande, le quali ricorrono raramente al crimine politico.

Non stiamo facendo l’elogio delle dittature; stiamo denunciando l’ipocrisia delle democrazie.