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Wto, Washington decreta la fine del Doha Round?

di Sabina Morandi - 21/04/2006

 
Con la rimozione di Rob Portman come rappresentante americano all’Organizzazione mondiale del commercio
gli Usa di fatto suggellano la crisi delle politiche di liberalizzazione selvaggia avviate alla fine degli anni’90


Certo Rob Portman è prima di tutto un fedelissimo del presidente Bush e il restauro di un budget in condizioni catastrofiche entro le elezioni di mezzo termine, è uno di quei compiti che solo un fidato consigliere può affrontare. Resta il fatto che la scelta dei tempi di revoca del mandato di Commissario al commercio è quanto meno sospetta essendo Portman protagonista indiscusso della difficile trattativa cominciata al Wto di Hong Kong e che dovrebbe arrivare in dirittura d’arrivo proprio in questo mese. La posta è il famoso ciclo di negoziati “sviluppisti” noto sotto il nome di Doha Round, una ventata di ulteriori liberalizzazioni che dovrebbero, almeno nelle intenzioni degli ideatori, livellare il terreno di quel gioco machiavellico che si chiama commercio globale affinché la ben nota mano invisibile si decida a ridistribuire le ricchezze, come promesso, anche agli ultimi del pianeta.

Il richiamo in patria di Portman non può non essere considerato un segnale di disimpegno da una trattativa incagliata prevalentemente sull’agricoltura - resta per gli americani lo scoglio dei sussidi all’agrobusiness - la cui conclusione era stata fissata per la fine di aprile. Nessuno mette in dubbio le competenze del sostituto di Portman, la signora Susan Schwab, che si occupa di commercio internazionale dal 1997, ma indubbiamente la sua vice non ha il peso politico del congressista dell’Ohio che, insieme al suo omologo europeo Peter Mandelson, ha praticamente salvato il summit di Hong Kong dall’ennesimo tracollo. Tanto è vero che lo stesso Mandelson, dopo avere tessuto le rituali lodi per la Schwab, ammette di essere dispiaciuto perché «in questo stadio dei negoziati sarebbe stato molto più facile continuare a trattare con lui». E se questi sono i commenti ufficiali è facile immaginare quale può essere il tono di quelli ufficiosi: «allo stadio in cui sono ora i negoziati è certamente una pessima notizia», ha dichiarato un funzionario di Bruxelles al Financial Times, suggerendo che il reimpasto alla Casa Bianca sia proprio un modo per nascondere la resistenza a intraprendere le ulteriori liberalizzazioni del settore agricolo previste nel Doha Round. Sospetti che trovano conferma nelle parole di “esterni” molto competenti: secondo Tom Buis, presidente della National Farmers Union statunitense, la Casa Bianca ha finalmente capito «che la realizzazione di Doha non sarebbe il successo sperato», mentre secondo Gary Hufbauer dell’International Economics di Washington la rimozione di Portman dalla partita Wto indica che «L’amministrazione considera ormai naufragato il ciclo di Doha».

La VI Conferenza ministeriale del Wto, svoltasi a Hong Kong lo scorso dicembre, era sì riuscita a evitare il tracollo reiterando gli appelli alla comune fede liberista e fissando una data (il dicembre 2006) per la conclusione del Doha Round, ma di fatto aveva rimandato ogni decisione sostanziosa ai negoziati di primavera. Ma oggi, a poche settimane dalla scadenza del 30 aprile, il consenso su temi caldi quali l’agricoltura e i prodotti industriali (noto come Nama) è tutt’altro che vicino. Come scrive su Trade Watch Roberto Meregalli di Beati i costruttori di pace, «dopo anni di scontri sull’agricoltura, oggi a rallentare maggiormente i negoziati sono i prodotti industriali. Le simulazioni realizzate nelle ultime settimane hanno reso consapevoli tutti i paesi che in cambio di poche concessioni agricole i paesi industrializzati stanno loro chiedendo un conto molto salato sui prodotti industriali». Questa consapevolezza, che il 20 marzo scorso ha provocato una presa di posizione abbastanza netta contro i Nama da parte di alcuni paesi in via di sviluppo, è condivisa in modo più o meno palese anche da numerosi paesi avanzati, terrorizzati dall’invasione dei prodotti cinesi.

Dal punto di vista dell’agricoltura spicca, come sempre, la resistenza di europei e americani a mettere mano alle proprie politiche agricole. L’Unione europea sostiene di averlo già fatto con la riforma della Pac - attuata nel 2003 proprio in vista del Doha Round - mentre, riprendendo di nuovo le parole di Meregalli «gli Usa stanno bluffando alla grande sul tavolo agricolo, poiché le loro offerte sono poco credibili se rapportate alle dichiarazioni del Congresso americano, che non ha mai nascosto l’intento di non voler assolutamente stabilire la propria politica agricola in base ai negoziati Wto». E’ chiaro dunque che lo spostamento di Portman dal commercio all’Ufficio budget della Casa Bianca non fa che reiterare un messaggio particolarmente pericoloso per l’Organizzazione mondiale del commercio il cui approccio ideologico - e operativo - non ammette ripensamenti o esitazioni.

Certo, dopo due fallimenti storici - a Seattle e a Cancun - e l’accordicchio di Hong Kong, l’intero Wto rischia di colare a picco dietro il naufragio del Doha Round, come si evince dall’agitazione delle ultime settimane. Nel suo discorso al Consiglio generale tenuto il 28 marzo scorso (cioè prima della rimozione di Portman), il direttore generale del Wto ha invitato tutti i paesi membri a rispettare la scadenza del 30 aprile, definendola «il momento della verità». Inoltre Lamy ha avvertito i paesi membri che si riserva il diritto di convocare, anche all’ultima ora, una Ministerial Green Room dal 29 aprile al 2 maggio, ovvero una mini-ministeriale aperta ai soliti 20-25 paesi che contano e che dovrebbero prendere le decisioni da far ratificare a un Consiglio generale convocato negli stessi giorni. Si tratterebbe insomma di un vero e proprio colpo di mano da parte di un’organizzazione criticata proprio per la mancanza di trasparenza e di partecipazione democratica ma che, del resto, è la prosecuzione della strategia messa in atto dopo la ministeriale cinese.

Da dicembre infatti è stato tutto un susseguirsi di micro-mini-ministeriali in ogni luogo del mondo, allestite in fretta per far incontrare sempre meno paesi e per far perdere le proprie tracce a giornalisti e contestatori. Una strategia efficiente, ma non certo priva di controindicazioni come dimostrano le dichiarazioni rese al Financial Times da Dipak Patel, ministro per il commercio dello Zambia e attuale coordinatore del gruppo dei paesi meno sviluppati: «I paesi meno sviluppati sono determinati a fare tutto il possibile per migliorare la loro condizione ma devono avere l’opportunità di accedere agli organismi preposti ai negoziati Wto» cosa impossibile se si pensa di procedere a suon di trattative segrete e colpi di mano. Insomma, far approvare un accordo sottobanco è una cosa, recuperare quel minimo di credibilità che i teorici del liberismo avevano all’alba di Seattle, è tutto un altro paio di maniche.