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Chi aveva paura di Kurosawa l’imperatore del cinema?

di Alberto Crespi - 23/03/2010

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Anniversari Cade oggi il centenario dalla nascita dell’immenso regista dei «Sette samurai»
Strano destino Per circa vent’anni fu estromesso dal «sistema»: non fosse stato per Lucas & co... Come Fellini e Orson Welles, e nonostante una sfilza di capolavori clamorosi, anche Kurosawa ad un certo punto fu considerato un «ferrovecchio»... e invece confezionò meravigle come «Ran» e «Sogni».

Parlando di Akira Kurosawa, noi italiani possiamo evitare di vergognarci. Non capita spesso, di questi tempi. Il sommo maestro nipponico, del quale ricorre oggi il centenario della nascita (vide la luce, o forse la luce vide lui, il 23 marzo 1910,
in quel di Tokyo), deve all’Italia la sua fama internazionale. Era il 1951 quando la Mostra di Venezia propose in concorso Rashomon. A molti italiani sembrò un film «pirandelliano» 4 personaggi raccontano ciascuno la propria verità su uno stupro dando il via forse a un equivoco che dura ancora oggi (nella sua autobiografia Kurosawa non nomina mai Pirandello mentre nomina molte volte Dostoevskij, altro scrittore che sul tema del «doppio» e sulla polifonia ha costruito tutta la sua opera). Ma fu un equivoco fruttifero. Il film vinse il Leone d’oro e tutto il mondo si accorse che in Giappone si faceva un cinema modernissimo e straordinario. Kuro-
sawa era in buona compagnia: i suoi amici-rivali si chiamavano Kenji Mizoguchi e Yasujiro Ozu, altri due giganti che sarebbe bene riscoprire. Tra parentesi, se Ozu è un artista dai ritmi forse difficili per noi occidentali, Mizoguchi è invece un cineasta di immensa piacevolezza: procuratevi I racconti della luna pallida d’agosto, pubblicati in dvd da Punto Zero, e ci
ringrazierete. Pagato il tributo agli altri due sa-
murai, rimane il fatto indiscutibile che il samurai numero 1 resta lui, Akira. E in Italia c’è tutto quello che serve per ripercorrere la sua grandezza. Ci sono quasi tutti i film in dvd (qui accanto ve ne segnaliamo tre, ma vorremmo ribadire che la recentissima edizione Studio Canal/Universal di Ran è davvero imperdibile). C’è la sua autobiografia, L’ultimo samurai, curata da Aldo Tassone per l’editore Baldini & Castoldi. E c’è la bella monografia che sempre Tassone ha scritto per il Castoro, a suo tempo edita in un cofanetto assieme ai Sette samurai – ovviamente la versione lunga, che non si era mai vista in Italia e che un giorno di tanti anni fa venne trasmessa dalla Rai in una serata che non esitiamo a definire epica... Insomma, non ci sono scuse: se un italiano non conosce Kurosawa, è una sua libera scelta autolesionista.
Che aggiungere? Ah, sì, c’è sempre quella vecchia storia, sentita mille volte ma ancora istruttiva: Sergio Leone, non sapendo bene cosa inventarsi per il suo primo western, prende La sfida del samurai (1961) e lo rifà inquadratura per inquadratura, quasi fosse una fotocopia, in Per un pugno di dollari, senza dir nulla a nessuno e soprattutto senza pagare i diritti. Tanto, pensa, ‘sto filmetto uscirà solo in Italia e figurati se in Giappone se ne accorgerà qualcuno. Per un pugno di dollari diventa un successo planetario e un bel giorno i dirigenti della Toho Film chiamano Leone e gli dicono cortesemente: scusi, abbiamo visto il suo film, è veramente UGUALE al nostro, come la mettiamo? Al che Leone pensa di fregarli offrendo loro a mo’ di risarcimento i diritti per il mercato giapponese, dove Per un pugno di dollari fa, se possibile, ancora più soldi che in Italia...
Ci siamo capiti. Kurosawa è un gigante indiscutibile. Del resto, non lo ha copiato solo Leone: i remake hollywoodiani dei suoi film – regolarmente pagati, almeno si spera – sono numerosi, e uno è celeberrimo: I magnifici sette, ispirato ai Sette samurai. Ma ci sono anche remake «nascosti»: George Lucas non ha mai negato, ad esempio, che una delle fonti della saga di Guerre stellari è La fortezza nascosta, meraviglioso film picaresco del 1958 (in particolare, si ispirebbero ai due contadini di quel film le figure dei due droidi servitori di Luke Skywalker, C3-PO e R2-D2). Vi aspettereste, quindi, che in Giappone ci sia come minimo una statua equestre di Kurosawa nella piazza principale di ogni città. Ebbene, non è così. O forse è così oggi – non conosciamo abbastanza bene il Giappone. Ma non è così all’inizio degli anni ’70, quando il regista ha solo 60 anni ed è però considerato, nel suo paese, un ferrovecchio. Accade dopo l’insuccesso commerciale di Dodes’ka-den, il suo primo film a colori. Il cinema giapponese attraversa una crisi profonda e Kurosawa, non sentendo più
il «polso» del pubblico, viene colpito da quella bruttissima bestia chiamata depressione. Tenta addirittura il suicidio: si taglia le vene nella vasca da bagno, come Seneca e Petronio! Un gesto da antico romano, più che samurai, che verrebbe da definire in linea con il personaggio se non si trattasse di una cosa tragica e se non ci fosse un precedente terribile (un fratello di Kurosawa, Heigo, si suicidò nel 1933).
Per fortuna lo salvano e sempre per fortuna, in quegli anni, esiste ancora l’Unione Sovietica. Perché è lì, contro ogni pronostico, che Kurosawa trova aiuto.
Il vecchio regista Sergej Gerasimov, un artista-burocrate potentissimo ai tempi di Breznev, lo invita a girare un film in Urss. Kurosawa ha già firmato, nel ’51, una versione cinematografica dell’Idiota di Dostoevskij, ma per il suo film «russo» non sceglie un classico, bensì una storia vera: si ispira ai diari di Vladimir Arsenev, un esploratore della Siberia, per Dersu Uzala, un gioiello di epica e di poesia che lo rimette sulla mappa del cinema mondiale. Credete che in Giappone facciano ammenda? Figurarsi! Dal ’75 al ’90 gira solo altri 3 film, uno ogni cinque anni: Kagemusha (1980), Ran (1985) e Sogni (1990). Stavolta, anziché i rubli, sono i dollari a finanziarlo: George Lucas e Steven Spielberg, divenuti onnipotenti dopo i successi di Guerre stellari e dello Squalo, si ricordano del maestro e decidono di aiutarlo. È una bella storia, con un bel finale: Kurosawa riesce a girare altri due film prima di morire (nel 1998), Rapsodia d’agosto e Madadayo. Ma certo è triste, ripensando alla sua filmografia, che una simile voce abbia dovuto tacere – o parlare poco – per vent’anni, dai 60 agli 80. Qualcosa del genere è successo a Fellini in Italia, o ad Orson Welles in America. I giganti possono diventare fastidiosi. E pensare che tanti pigmei vivono sulle loro spalle.