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Il talento dell'inquisitore evangelisti

di Alessandro Puma - 21/04/2010



Nel panorama letterario contemporaneo, fatto da stupidi che (in Italia) non hanno il coraggio o la voglia di alzare la voce e il tiro contro lo sfacelo socio-politico che ci circonda, Valerio Evangelisti si presenta come uno dei pochi che nei suoi romanzi – non solo “di genere” fantastico – fa riferimento alla politica.
    E proprio lui che non dovrebbe farlo, per l’obiettivo di puro intrattenimento che si prefiggono le sue opere, parla di tematiche come la corruzione nelle alte sfere di chi ci governa, in ogni tempo e paese, della futura nascita di partiti filo-nazisti, del verminaio che sta dietro al sogno americano, di tragedie disgustose come quella dell’uccisione, in Sudamerica, dei cosiddetti meniňos de rua e della schiavitù telematica che ci tiene tutti prigionieri.
    Quello che non fanno cioè i vari Ammaniti, Baricco, Brizzi ecc. lo fa lui che proprio per questo , in Italia, risulta essere al tempo stesso un autore di culto ma anche di nicchia, curatore di un sito di letteratura fantastica (Carmilla on line) che è al tempo stesso ‘di opposizione’, e in breve più famoso all’estero che in patria (ma sarebbe meglio dire ‘matria’).
    Un esempio è dato dalle parole pronunciate dalla protagonista di un suo racconto (presente nell’antologia “Acque oscure”, ed. Mondadori pag. 207) che, mentre sta per essere torturata, dice: “Cose innominabili fatte in nome del mercato, cioè di niente. L’Africa alla fame. Parte dell’Asia ridotta a bordello per turisti. Uomini-merce, da comprare e da vendere. Tutto ciò mi riusciva insopportabile. Non sono mai stata veramente comunista, non ci ho mai creduto. Ma i crimini del comunismo mi sembrano poca cosa, rispetto a quelli di chi aveva deciso di ridurre due terzi del mondo a un inferno [...]. Poi il SYS, che si impadronisce di tutti i canali di comunicazione. Altera l’immaginario della gente, lo svuota di simboli e vi sostituisce i propri. La dittatura sottile della telematica manipolata. La schiavitù non nel tempo di lavoro, ma nel tempo libero…”.
    Sembra qui di sentir parlare il grande Philip Dick, che già alla fine degli anni Sessanta aveva immaginato una sorta di concorso a premi tra i poveri schiavi di una società dittatoriale, che faceva si che il sogno migliore inventato – e non sognato, si badi bene – da uno dei partecipanti al concorso venisse poi proiettato nella mente dei sognatori di tutto il mondo, in modo che non si potesse nemmeno avere una propria libera attività onirica ma si dovesse essere costretti a sognare il sogno di qualcun altro, e che questo fosse virtualmente vincolante per tutti (“Guaritore galattico”, ed. Bompiani).
    E anche un altro scrittore americano contemporaneo, Chuck Palahniuk, va nella stessa direzione quando, nel romanzo “Soffocare”, afferma: “Una volta che il mondo è stato suddiviso in proprietà, sottoposto a limiti di velocità e piani regolatori e tassato e irreggimentato… nessuno ha più  lasciato spazio all’avventura, se non a quella che si può comprare. E anche così sono emozioni finte… non esistendo la possibilità che si verifichi una catastrofe vera, un rischio vero, ci è preclusa anche ogni possibilità di salvezza vera. Ebbrezza vera. Eccitazione vera. Gioia. Scoperta. Invenzione.” (pag 159, piccola biblioteca Oscar Mondadori).
    Ma è soprattutto con il suo personaggio più famoso, l’inquisitore domenicano storicamente esistito Nicolas Eymerich, che l’Evangelisti raggiunge vette di pura grandezza. Protagonista definito dallo stesso autore come “cattivo ma non turpe (o meschino)” questo inquisitore spagnolo, con la sua fermezza e il rigido codice morale, con il suo ragionamento analitico e il disgusto per i deboli, con il suo maniacale auto-controllo e il suo essere versato per la politica, risulta quasi incarnare il superuomo nietzschiano.
    In un’epoca in cui i domenicani costituiscono di fatto l’unica èlite intellettuale e filosofica del tempo, capaci di essere dei veri domini canes persino nei pubblici dibattiti anti-eretici, Eymerich svolge la funzione di un Giordano Bruno alla rovescia (domenicano anche lui), che, anziché per il progresso, si batte per l’oscurantismo. Un ‘oscurantismo’, s’intende, del tutto logico e ragionato, considerato come l’arma più potente contro tutte le eresie, e che applica con cura e precisione per ogni dettaglio, la legge veterotestamentaria del taglione.
    E del resto, come dargli torto visto che l’oscurantismo di oggi riveste i panni del liberalismo democratico e progressista? E visto che la sottocultura di MTV e del ‘BigMac’ ha ormai sradicato l’identità etnica di molti popoli?
    Ed è così che, di fronte a uno sbigottito messer Francesco Petrarca che gli rimprovera di essere intollerante, il nostro eroe risponde: “E vi meravigliate? Tolleranza significa sopportare con compiacenza chi ha un pensiero diverso dal proprio. Ma Dio è uno, la fede vera è una, la Chiesa è una. Al di fuori esiste solo la menzogna, e la menzogna è del demonio. Verreste a patti con il demonio?” (Acque oscure, pag. 95).
    E se qualcuno gli fa notare che gli angeli non possono essere cattivi, lui precisa: “E chi lo dice? Sono la spada di Dio. Se si ribellano, possono essere temibili quanto i demoni. Perché la spada seguitano a portarla anche se tradiscono”(Ibidem, p. 94).
    Certo, la scaltrezza di questo inquisitore è, a volte, davvero eccessiva, quasi in linea con la stessa società post-moderna che l’autore vorrebbe stigmatizzare (ed è forse questo uno dei pochi limiti che possiamo ravvisare nello scrittore), soprattutto quando finge di scendere a compromessi, illudendoli  così malignamente, con alcuni dei suoi avversari o quando, addirittura, è capace d’influire sull’archetipo junghiano della dea della caccia Diana – evocata dalle sue sacerdotesse – in modo da farla apparire invece come la classica e mostruosa immagine del diavolo, unicamente per farle fuggire inorridite (Cfr. “Nicolas Eymerich, inquisitore”). Come dire, che ogni inquisitore si serve di un’immagine, che lui stesso sa di essere falsa, del suo diretto antagonista per avere la scusa di distruggere un culto pagano.
    E’ qualcosa che può essere pensata soltanto in un’epoca come la nostra, che ha già conosciuto il “decostruzionismo” heideggeriano prima, e vattimiano poi, e non certo in un’epoca luminosa e ancora ingenua come il Medioevo. Ma la bellezza, dal punto di vista letterario e non storico, degli autori post-moderni del nostro tempo consiste appunto nel farci riflettere sulla tecnica meta-linguistica del romanzo, messa appositamente ben in evidenza all’interno della sua stessa struttura narrativa. E del resto il “gioco” delle varie epoche narrate (il passato, il presente e il futuro) in tutti i romanzi del ciclo di Eymerich vuole appunto fornire questa dimostrazione.
    Ecco perché non di plagio si tratta ma di piacevole citazione il finale di uno dei romanzi di Eymerich (“Il corpo e il sangue di Eymerich”) in cui le varie stanze della Casa Bianca americana – compresa la camera ovale del presidente – vengono allestite per una festa esattamente come le sale del castello dei nobili che vogliono sottrarsi, inutilmente, alla peste descritta dal grande Edgar Allan  Poe nel racconto “La maschera della morte rossa”.
    E non sorprende neanche di leggere una lunga spiegazione, da parte dell’inquisitore, di certe dinamiche sociali “di classe” che sembrano tratte di pari passo da un’analisi di tipo comunista o marxista. Eccola qui di seguito: “[L’idea è] quella di liberarsi di spoglie mortali così fragili, di sfuggire per sempre alla paura e alla miseria. Da ciò il diffondersi di dottrine che predicano la mortificazione o l’avvilimento della carne, in vista di una redenzione che permetta il definitivo distacco dalle miserie materiali. Però questa spinta comune ha trovato risposte diverse nei vari ceti. Se i tintori e gli artigiani poveri hanno ridato vita al catarismo, la borghesia non poteva accontentarsi di una risposta tanto grossolana. Quando […] ha cominciato a diffondersi (un’altra) dottrina gnostica, fantasiosa e pittoresca ma anche dotata di una sua complessità, i borghesi vi hanno visto una soluzione più adeguata alle proprie velleità intellettuali […].” La borghesia, continua Eymerich, è infatti un ceto che “mentre disprezza chi gli è inferiore, ha sempre invidiato chi gli è superiore. E tra le molte cose che invidia alla nobiltà, ci sono la libertà di costumi e un certo gusto per la perversione.”(Ibidem pag. 211).
    Un’altra spiegazione chiarificatrice dell’inquisitore riguarda il modo corretto con cui comportarsi con tutti gli eretici: “Un inquisitore, di fronte a un eretico, deve ignorare l’onestà, la lealtà, la franchezza e ogni altra virtù. Il suo compito è annientare il nemico, quali che siano i mezzi cui deve far ricorso. Può ingannare, mentire, fare promesse che è sicuro di non mantenere. Non ha davanti un uomo, bensì un servo del demonio spesso dotato di pari astuzia. E davanti a un servitore del diavolo l’onestà è debolezza, la franchezza è indulgenza, la lealtà è connivenza. Sono stato chiaro?”(Ibidem pag. 216).
    E’ proprio questa intransigenza, deviata ed eccessiva quanto si vuole, ma che rivela una totale aderenza a degli ideali di razionalità e di ordine in un mondo che si rivela sempre più caotico, che dovrebbe farci riflettere sulla condotta che tutti, laici e uomini di chiesa, dovremmo fare nostra nel difendere, anche con la spada, la nostra più autentica fede.