Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il prezzo del petrolio è l’arma letale che metterà in crisi il mondo occidentale?

Il prezzo del petrolio è l’arma letale che metterà in crisi il mondo occidentale?

di Giacomo Busulini - 29/04/2006

In cinque anni il prezzo della benzina è aumentato del 22,8% che significa ben 11,8 euro in più per fare un pieno. Il Codacons sulla base dei dati del ministero della attività produttive ha calcolato che una famiglia in un anno arriva a dover spendere circa 300 euro in più. Solo il 16 febbraio il sole 24 ore annunciava “Petrolio, il calo continua” spiegando che il calo era dovuto ad un incremento degli stock di greggio del mercato americano, mentre i sondaggi dell’agenzia Reuters vedevano la media del Wti nel 2006 a 59,04 $ al barile pari a 2,34$ in più della media record registrata nel 2005. Ma ecco che dopo due mesi ci troviamo con il Brent a 74 $ al barile nuovo massimo storico e previsioni a breve ancora peggiori: entro giugno a 80 il barile con conseguenze pesanti sulla crescita dell’inflazione nei paesi europei.
Sappiamo che l’aumento dei prezzi energetici e l’enorme volume di importazioni americane di greggio hanno creato forti squilibri sul mercato. Le importazioni di petrolio hanno contribuito per un terzo del disavanzo 2005 delle partite correnti americane, una voce quella petrolifera, che da sola conta ben 268 miliardi di dollari di squilibrio americano verso l’import. Ma se da una parte al Congresso americano si cerca di capire come le aziende petrolifere potranno migliorare la loro efficienza produttiva e diminuire la dipendenza dall’estero, dall’altra le stesse aziende petrolifere hanno chiuso il 2005 con profitti record. Grazie alle impennate del greggio nel 2005 Exxon Mobil ha realizzato l’utile annuale più alto mai realizzato da un’azienda Usa pari a 36,1 miliardi di dollari (il 43% in più rispetto al 2004), la Shell invece si è dovuta accontentare di utili pari a 25,3 miliardi di dollari ( il 37% in più rispetto al 2004). Ma questi profitti sono stati ripartiti fra dividendi e operazioni di buyback, mentre l’america ha oggi bisogno di 10 miliardi di dollari di investimenti alla settimana per poter compensare il suo squilibrio commerciale che ha raggiunto la cifra record di 804,9 miliardi di dollari (il 20,5% in più rispetto al 2004). Per l’amministrazione usa i profitti della lobby petrolifera sono ben più importanti del disavanzo delle partite correnti, come dimostra il regalo da sette miliardi di dollari fatto da bush agli amici del petrolio: è quanto riceveranno le compagnie petrolifere nei prossimi 5 anni quale incentivo per estrarre greggio e gas naturale negli usa. Così mentre il caro benzina diventa un’automatica sovratassa per le famiglie americane e nonostante alle compagnie petrolifere non difettino i profitti, il governo usa fregandosene del deficit federale e delle tasche dei contribuenti, ha restituito con gli interessi alla lobby petrolifera i finanziamenti ottenuti per sostenere la campagna per la rielezione di bush.
E mentre i paesi occidentali si annunciano tempi duri e nelle cancellerie europee si teme che l’Iran che ha il quarto più grande giacimento petrolifero del mondo possa tagliare la produzione , l’aumento del prezzo del greggio sta spingendo l’africa ad una crescita economica del 5,8%, la più elevata degli ultimi 30 anni.
Ma che cosa ci aspetta per il futuro?
Per quanto tempo ancora saremo dipendenti dal petrolio quale fonte di energia primaria?
Nel 2002 dell’energia totale prodotta nel mondo il petrolio forniva il 38%, il gas e il carbone il 25%, il nucleare (insieme all’idroelettrico e al geotermico) il restante 12%. Oggi la stima delle riserve petrolifere variano a seconda delle fonti : la media è di circa 180 Gton (Gigaton).
Ma qual è la verità sulle riserve ancora esistenti?
Matthew Simmons, ex consigliere di Bush, uno dei massimi esperti mondiali del settore, nel suo recente best-seller “Twilight in the desert: the coming oil shock and the world economy” ha riassunto gli aspetti principali della crisi del greggio a suo giudizio imminente.
Smmons ci spiega che attualmente il petrolio resta ancora il liquido più a buon mercato ma ci attende nel prossimo futuro un prezzo da 200 a 250 dollari al barile. Forse è questo il motivo per cui Simmons non è più consigliere del presidente Bush ? perché le sue previsioni non sono gradite all’inquilino della casa bianca? Certo che come lo stesso Simmons intervistato recentemente ha sostenuto : “su queste mie previsioni sono disposto a giocarmi la carriera”.
Nel breve termine – secondo Simmons – dipende dagli speculatori se il prezzo sale o scende. Ma al di là delle previsioni degli economisti che si alternano in un senso o nell’altro ma che si basano su teorie, quello che bisogna considerare sono i fatti, i quali sono tutti a favore delle previsioni di Simmons: “Esistono gravi strozzature nel campo della capacità di raffinazione e della disponibilità di attrezzature, ma il problema più grave è che si stanno esaurendo i giacimenti petroliferi.” Veniamo poi a scoprire che fine hanno fatto gli utili record delle compagnie petrolifere i cui bilanci tesaurizzano somme record mantenendole sotto forma di liquidità anziché investire denaro ai loro scopi tradizionali.
La produzione attuale è insufficiente a far fronte alle crescenti richieste che giungono dai paesi emergenti: oggi tutto il mondo vuole vivere come i paesi industrializzati. Attualmente ogni cinese consuma in media solo 1,8 barili di greggio all’anno mentre un americano ne utilizza 26. Ammettiamo ora che la Cina così come anche l’India, continui a svilupparsi e che il suo consumo di energia salga allo stesso livello di quello, peraltro relativamente modesto del Messico pari a 6,5 barili pro capite. In questo caso il quantitativo di greggio estratto giornalmente che oggi è di circa 75 milioni di barili, dovrebbe salire di altri 45 milioni.
Di fronte a questa domanda aggiuntiva si rende quindi necessario un aumento di estrazione ricorrendo alle riserve esistenti che sono valutate a 260 miliardi di barili nella sola Arabia Saudita. Ma si tratta di una cifra annunciata dai sauditi nel 1988, ben 17 anni fa mentre nel frattempo non è stato scoperto alcun nuovo giacimento. Se consideriamo che in questo periodo l’Arabia saudita ha estratto mediamente 3 miliardi di barili all’anno ne consegue che le sue riserve si sono ridotte di un buon 24%.
Il secondo paese che ha le più grandi riserve al mondo è l’Iran con 132 miliardi di barili, attualmente al quarto posto come paese produttore, il che spiega come sia diventato il prossimo obiettivo della politica di conquista coloniale dell’impero americano dopo l’Iraq (115 miliardi ) le cui riserve sommate a quelle del Kuwait (99 miliardi ) giustificano la 1° e la 2° guerra del golfo.
Se i governi dei paesi Opec hanno abbellito le cifre delle loro riserve per poter concordare quote più alte di estrazione, non migliore è la situazione nei paesi non appartenenti all’Opec, dove per la prima volta da sei anni a questa parte la quantità di greggio estratta non ha superato quella dell’anno precedente, in mancanza di nuove scoperte l’unica via d’uscita sembra rappresentata da nuove tecniche di estrazione che potrebbero consentire un miglior sfruttamento dei vecchi giacimenti. In questo settore però negli ultimi 15 anni non si è verificato alcun importante passo avanti in campo tecnologico e con le tecniche più moderne si può forse incrementare l’estrazione di un 10-20%. Tutti gli altri giacimenti alternativi quali le sabbie petrolifere del Canada o i giacimenti in alto mare si sono dimostrati poco economici. Si pensi che delle 50 isole galleggianti con impianti di trivellazione una dozzina sono state danneggiate
dai recenti uragani. Occorre molto tempo per costruire questi poderosi impianti, tra l’altro molto costosi: in media 400 milioni di dollari l’uno, attualmente se ne stanno realizzando da 10 a 15 unità , le prime delle quali entreranno in funzione non prima del 2012.
In conclusione Simmons prevede che per quanto riguarda l’offerta di petrolio “il punto massimo della produzione mondiale di greggio, il cosidetto Oil Peak è molto vicino se addirittura non è già stato oltrepassato. Tra 7 anni l’attuale produzione di 75 milioni di barili al giorno non sarà più possibile e dovrà scendere a quota 65 milioni.”
Se il fabbisogno per il 2006 è stato stimato dalla Iea (agenzia internazionale per l’energia) a 85, 2 milioni di barili al giorno, per il 2030 la domanda è destinata a salire di un altro 42%fino a raggiungere i 121 milioni di barili. I tre quarti di questo incremento si riferiscono a paesi in via di sviluppo. Quanto agli usa il loro utilizzo di petrolio aumenta ogni anno fino al 2% nonostante siano già oggi in testa alla graduatoria dei paesi consumatori di energia con l’assorbimento di un quarto della produzione mondiale. Se il boom della domanda si verifica in corrispondenza di una ormai del tutto sfruttata capacità in quasi tutti i paesi produttori la via che conduce fuori dalla scarsità di petrolio è solo quella che prevede elevati investimenti. Sempre secondo la Iea di qui al 2030 i grandi gruppi energetici statali e privati dovranno spendere circa 3 mila miliardi di dollari per aprire nuovi giacimenti e costruire raffinerie. Nel 2005 solo le 5 maggiori compagnie petrolifere quotate in borsa hanno guadagnato 110 miliardi di euro. Tuttavia queste prime energetiche esitano a investire i capitali nella ricerca di greggio preferendo elevare i dividendi o riacquistare azioni proprie. Oppure tendono a impossessarsi di società concorrenti, come ha fatto il gigante americano Conoco-Phillips che ha acquistato la Burlington resources, specialista in gas naturale.
Con l’assottigliarsi della capacità produttiva il cuscino che nel passato era servito a far fronte a momenti imprevisti di crisi si è del tutto sgonfiato (oggi è stimabile in un magro 2% dei consumi mondiali) rendendo il prezzo del petrolio ostaggio di ogni evento politico o climatico, di ogni paura reale o artificiale alimentata da rumors di mercato e dalla speculazione. Ogni notizia di uragani in arrivo, periodi di freddo anomalo, conflitti politici o scorte inadeguate fa scattare all’insù fino a due dollari al giorno il prezzo del petrolio.
Ma se per l’economia energetica questo comporta un ulteriore aumento di utili, dal punto di vista pratico per il cittadino comune oltre ad un maggior esborso per fare il pieno c’ è da aspettarsi un effetto ancora più pesante sui prezzi dei beni trasporti e sulle bollette energetiche.
Tuttavia la propaganda della junta militar-petrolifera bushista, non paga del fallimento della campagna irachena, ha già trovato un nuovo capro espiatorio responsabile del caro benzina. A fronte degli ultimi rincari è stata infatti rapidamente diffusa la notizia che il presidente iraniano Ahmadinejad ha chiesto ai paesi produttori di petrolio e in particolare a quelli membri dell’Opec (di cui l’Iran fa parte) di vendere il greggio alle nazioni povere ad un prezzo più basso di quello di mercato.
La verità è che il presidente Iraniano deve essersi chiesto ma perché mai i governi occidentali dovrebbero continuare a godere di prezzi a buon mercato quando finora attraverso l’imposizione fiscale hanno fatto raddoppiare (vedi Giappone) o addirittura triplicare (vedi Europa) il prezzo della benzina per il consumatore finale?
Se proprio vogliono evitare la crescita dell’inflazione provvedano a riequilibrare la tassazione dei carburanti in modo da compensare una più equa ripartizione dei profitti fra paesi produttori e lobby di speculatori.