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Una scienza aggressiva, senza amore, nella vicenda esemplare dei paleontologi Cope e Marsh

di Francesco Lamendola - 13/05/2010


 

 

 

Ogni società esprime il tipo di scienza che i suoi valori presuppongono; ogni società esprime gli scienziati che sono in linea con quei valori.
La società occidentale moderna, da Francesco Bacone e Galilei in poi, esprime un modello di scienza aggressivo, prevaricatore, intollerante; un modello totalitario che non ammette altro Dio al di fuori di se stesso; un modello che considera gli esseri e le cose della natura come semplici oggetti, come materiale da costruzione o come nemici da abbattere e sottomettere.
Questo tipo di atteggiamento rende inevitabile che gli scienziati si comportino fra loro come fa il capitalista con i propri concorrenti: la norma è la competizione sfrenata in vista dell’affermazione individuale, l’eccezione è la collaborazione professionale in vista di un vantaggio comune o, comunque, di una condivisione delle conoscenze.
È altrettanto ovvio che, quanto più una società possiede in misura spiccata i caratteri tipici della competizione, dell’individualismo egoistico e del profitto privato, tanto più tali caratteri entreranno a far parte della cultura personale dei singoli scienziati e tanto più verranno a delineare la concezione complessiva della scienza e del sapere.
Non stupisce affatto, pertanto, che la più sfrenatamente competitiva, materialistica ed economicistica di tutte le società occidentali, quella anglosassone, abbia sfornato gli scienziati più conformi al proprio paradigma culturale e, pertanto, abbia trasferito sul terreno della ricerca scientifica quelle stesse dinamiche di lotta senza esclusione di colpi, di corsa al successo personale e di narcisistica autocelebrazione, che sono alla base della sua struttura psicologica e sociale e che ne definiscono l’orizzonte spirituale.
Fin dal primo secolo della Rivoluzione scientifica, troviamo, ad esempio, l’aspra contesa fra Newton e Huygens intorno alla natura della luce e, contemporaneamente, fra Newton e Leibniz sulla priorità della scoperta del calcolo infinitesimale. È probabile che, in entrambi i casi, il campione della scienza inglese avesse torto: ma, animato dalla sacra convinzione di essere sempre nel giusto, come un antico profeta d’Israele, e sostenuto dalla comunità scientifica del proprio Paese, tanto baccano riuscì a fare intorno ai propri “diritti”, che finì per spuntarla, almeno nell’ambito della cultura a lui contemporanea.
Così, nell’Ottocento positivista, troviamo Darwin che, ricevute le memorie di Wallace sulla teoria dell’evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale, le pubblica INSIEME al proprio lavoro, buttato giù in tutta fretta per dare l’impressione che egli, quelle cose, le avesse sempre sapute: menzogna che ancor oggi i solerti divulgatori scientifici non si stancano di ripetere, mentre è vero che, all’epoca del viaggio sul «Beagle», egli non ne aveva alcun sentore (e non parliamo del suo atteggiamento mentale verso i cosiddetti uomini primitivi: basta leggere le sue osservazioni sugli indigeni della Terra del Fuoco per vedere fino a che punto fosse intriso di razzismo della peggiore specie).
Se poi andiamo ancora avanti nel tempo e ci spostiamo nel campo delle scoperte geografiche, troviamo la contesa ancor più aspra tra Frederick Cook e Robert Peary, nel 1908-09, per la priorità della “conquista” del Polo Nord: scriviamo “conquista” tra virgolette perché, se le parole vogliono dire qualcosa, questa terminologia militaresca ben rappresenta l’atteggiamento mentale degli uomini di scienza verso il mondo della natura.
Oggi noi sappiamo che, fra i due, quello che diceva la verità, o che meno si allontanava da essa, era proprio Cook, il quale, invece, all’epoca venne accusato di mendacio ed espulso dal salotto buono del mondo scientifico e culturale statunitense; ma è ancora più probabile che né l’uno, né l’altro siamo giunti davvero sul “tetto del mondo”, stando ad un esame spassionato di quanto scritto nei loro stessi diari di viaggio.
Peary, però, era sostenuto da un tale apparato di forze economiche e giornalistiche, che egli doveva per forza risultare come il “vincitore” del Polo Nord; mentre Cook, che non aveva alle spalle un così poderoso schieramento, non poteva che risultare perdente (la vicenda è stata ricostruita, fra l’altro, dal regista Robert Day nel film «In race to the Pole», del 1983, interpretato da Richard Chamberlain nella parte di Cook e da Rod Steiger in quella di Peary; titolo della versione italiana: «Cook e Peary»).
Gli scienziati che non si adeguano al paradigma dominante non solo non fanno carriera, ma, quanto più le loro vedute si discostano dal modello ufficialmente stabilito, rischiano di finire male; citiamo, a semplice titolo di esempio, il caso di Wilhelm Reich, morto in carcere negli Stati Uniti, il “Paese della libertà”, nel 1957 (non senza sospetti di assassinio legalizzato mediante pratiche “mediche” distruttive) perché la sua teoria degli orgoni risultava inaccettabile agli ambienti scientifici accademici, che lo perseguitarono con l’accusa di ciarlataneria, fino a distruggerlo moralmente e fisicamente.
Fra i tanti esempi di scienza ferocemente competitiva potremmo citare la paleontologia statunitense che, nella seconda metà del XIX secolo - mentre venivano infrante le ultime resistenze degli Indiani e le ultime tribù finivano chiuse nelle riserve - conobbe uno sviluppo spettacolare, evidenziando proprio i caratteri aggressivi di cui dicevamo.
I due massimi esponenti della scienza paleontologica americana furono Edward D. Cope (Filadelfia, 1840-1897), dell’Università della Pennsylania, e Othniel Ch. Marsh (Lockport, 1831-New Haven, 1899) dell’Università di Yale: quella stessa Università di Yale divenuta tristemente famosa ai nostri giorni per le sue sinistre società segrete e specialmente per la lugubre società «Skull and Bones», di cui abbiamo già parlato nel recente articolo «La psicologia cattiva di Milgram e Zimbardo è una perversione della vera ricerca scientifica», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 22/04/2011.
Gli anni Settanta dell’Ottocento videro i territori dell’Ovest americano, sui quali agonizzavano i popoli nativi stretti nella morsa delle “giacche azzurre”, percorsi in lungo e in largo dalle spedizioni scientifiche di questi due studiosi, somiglianti, in tutto e per tutto, a delle spedizioni militari. Certo, essi si sforzavano di tenersi in rapporti amichevoli con i pellerossa, dei quali avevano bisogno come guide per individuare i preziosi giacimenti di scheletri dei dinosauri; ad ogni modo, i loro assistenti viaggiavano vistosamente armati e con l’aria da bravacci, e poco mancava che, incontrandosi, non si prendessero vicendevolmente a fucilate.
Negli stessi anni, l’anglo-americano Henry Morton Stanley percorreva i fiumi del bacino del Congo e le foreste dell’Africa centrale con delle autentiche colonne militari, armate fino ai denti, decise ad aprirsi il passo schiacciando ogni opposizione degli indigeni con qualsiasi mezzo e a qualunque prezzo di vite umane: tipico esempio dell’esploratore spietato, inesorabile, che avanza come un conquistatore, senza alcun rispetto per le culture indigene e senza occhi per le meraviglie naturali che si aprono davanti alla sua piroga.
Ma torniamo a Cope e a Marsh, i due colleghi rivali, decisi a estrarre dal terreno delle Montagne Rocciose la maggiore quantità possibile di resti fossili, per la propria gloria personale e per il prestigio dei propri istituti universitar;, come se le immense distese del West, grandi come mezza Europa, non fossero state abbastanza grandi per contenerli entrambi e per assicurare a ciascuno dei due la sua porzione di scoperte e di relativa celebrità.
Ecco come ha delineato quella vicenda, a suo modo esemplare, Guido Ruggieri nel suo libro «La scoperta dei fossili. Il romanzo della paleontologia» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1975, pp. 96-99):

«… dopo che gli Stati Uniti ebbero superato il duro periodo della guerra di secessione, la ricerca dei dinosauri su suolo americano si volse decisamente verso l’Ovest selvaggio. L’espansione verso quelle terre era in pieno sviluppo e anche la paleontologia s’orientò al regno degli indiani e degli avventurieri, dove stavano strati di rocce ancora inviolate coi loro fossili. In questa corsa scientifica all’Ovest primeggiarono due studiosi, destinati a rivelare, in breve tempo, i più favolosi aspetti dell’antico mondo dei rettili. Erano Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh, due nomi che ancora oggi suonano leggendari.
Cope era nato a Filadelfia nel 1840, aveva studiato molti anni in Europa ed aveva acquisito una conoscenza prodigiosa dei vertebrati fossili e attuali.  Dopo un breve periodo d’insegnamento, aveva lasciato la cattedra per dedicarsi alle sue ricerche preferite in tutta indipendenza; s’era allora stabilito a Haddonfield, proprio nella località da cui era ucito l’”Harosaurus”. Marsh, un poco più anziano, era nato nel 1831 nello stato di New York, aveva studiato anch’egli in Europa e, dal 1865, era professore di paleontologia nella prestigiosa università di Yale, a New Haven. Quando l’Ovest li attirò, erano già scienziati affermati.
Nel 1868 Marsh si recò ad Haddonfield e fu ospite di Cope per una settimana. I due studiosi discussero insieme dei problemi che i appassionavano e si lasciarono come amici ma, inj realtà, di amicizia fra loro c’era soltanto un barlume che, più tardi, fu cancellato. Erano ambedue ambiziosi e non ammettevano ostacoli al loro lavoro e alle loro decisioni. Per questo loro carattere dovevano fatalmente finire per urtarsi, perché facevano le stesse ricerche; ne nacque una rivalità che li mise l’uno contro l’altro per tutta la vita.
Le spedizioni all’Ovest portarono ai risultati più clamorosi nel 1877 e negli anni seguenti; prima di allora esse furono variamente produttive, ma mai a quel livello. Addirittura, nel primo viaggio che fece Marsh, nel 1868, non si trovarono dinosauri, malgrado lo studioso si fosse trovato su un grande giacimento di ossa di rettili senza riconoscerlo. Fu notevole invece, in quegli anni, una spedizione di Cope nel Montana che ebbe luogo nel 1876. In quell’occasione Cope trovò, negli strati del Judith River già esplorati 21 anni prima da Hayden,. Un grande dinosauro quadrupede, alla testa corazzata e armata da un corno, ch’egli chiamò ”Monoclonius”. Insieme a quest’essere straordinario, di cui nessuno prima sospettava lì esistenza, venero alla luce parecchi resti di dinosauri a becco d’anitra. Un altro bellissimo androsauro era stato trovato nel 1871 nel Kansas da un gruppo di ricercatori che lavorava per Marsh.
Queste spedizioni rappresentarono, nella storia dei rapporti fra uomini e fossili, qualcosa di veramente nuovo ed eccitante. Alla ricerca, unirono l’avventura vissuta liberamente; anche spensieratamente, perché coloro che seguivano Marsh e Cope, oppure lavoravano per loro, erano dei giovani, studenti e assistenti, oppure degli uomini inadatti alla vita tranquilla nelle città dell’Est, per i quali la casa ideale era la prateria coi suoi orizzonti senza confini. Erano persone rotte alle fatiche e ai disagi, capaci di far buon uso, all’occorrenza, dei fucili di precisione a canna rigata di cui erano armate; e, coi loro cappellacci, le cartuccere alla cintura, gli alti stivali o i mocassini all’indiana, sembravano più dei conduttori di diligenza o, addirittura, dei fuorilegge che dei cercatori di fossili.
Quando Marsh aveva aperto all’università di Yale la via dell’Ovest, era in ultimazione la ferrovia che collega Omaha a San Francisco; perciò varie spedizioni sfruttarono il treno per gran parte del loro itinerario. A un certo momento occorreva, comunque, lasciar la rotaia, e affrontare, coi cavalli e i carri di legno dalle grandi ruote, piste tormentate e colline impervie. Occorreva poi esporsi al sole, al vento e alla pioggia; e accamparsi dov’era possibile,, stabilendo, spesso, dei turni di guardia per il pericolo degli indiani. Per la verità, le spedizioni sotto questo aspetto ebbero fortuna. Nel 1874 Marsh eseguì scavi nel South Dakota, mantenendo ottimi rapporti con i Sioux, che pure erano inaspriti dalla penetrazione, nei loro territori, di cercatori d’oro. E nel 1876 Cope non ebbe noie nel Montana, malgrado i posti di frontiera fossero permanentemente in allarme perché Toro Seduto aveva distrutto, appena allora, la colonna del generale Custer nella battaglia del Little Big Horn.»

Che cosa possiamo concludere su questo modo di fare scienza, su questo modo di porsi davanti ai misteri della natura e davanti ai propri colleghi scienziati?
Della scienza orientale, nonché dell’arte, della letteratura e della filosofia orientali, specialmente dell’antica India, ci sono rimaste testimonianze insigni, ma pochissimi nomi: in quella cultura non era considerato importante gonfiare il petto e firmare con il proprio nome le scoperte e le acquisizioni del pensiero, né le creazioni artistiche. Il sottinteso era che il vero autore di tutte quelle cose non è l’uomo, ma la divinità; e che gli uomini prestano solo la loro mente e il loro cuore per tradurre in un linguaggio umano le verità sublimi che scendono dall’alto.
Nella civiltà occidentale questa consapevolezza si è persa nel tempo, anche se rimane il fatto che gli antichi Greci non consideravano poi così importante sapere chi fosse stato realmente Omero, anzi non si ponevano affatto il problema, benché conoscessero a memoria le migliaia di versi dell’«Iliade» e dell’«Odissea»; fino a che non cominciò a diffondersi una nuova mentalità, spregiudicata e individualistica, basata sul culto della personalità e sulle realizzazioni personali del singolo individuo.
Noi siamo figli di quella nuova, spregiudicata mentalità; e figlie di essa sono le nostre idee della scienza e della professione di scienziato.
Galilei, il padre del nuovo paradigma, esordisce nel campo degli studi astronomici facendosi beffe del gesuita Orazio Grassi a proposito della natura delle comete: il suo celebre «Saggiatore», infatti, è una risposta, aggressiva e velenosa, alla «Libra» di quegli. I nostri solerti divulgatori scientifici, piattamente omologati sul paradigma oggi dominante, tramandano il fatto, omettendo però la circostanza, o facendola passare disinvoltamente come irrilevante, che padre Grassi, sostenitore della natura di corpi celesti delle comete, aveva perfettamente ragione; mentre Galilei, sostenitore della loro natura ottica o, comunque, atmosferica, aveva perfettamente torto.
È questa la mentalità dalla quale occorre uscire, se si vuole ricostruire una scienza a misura d’uomo: la mentalità possessiva, egocentrica, prevaricatrice, dominata dal protagonismo e dall’ambizione smisurata degli scienziati e non ispirata dalla ricerca disinteressata della conoscenza; mentalità  contro la quale già Dante aveva messo in guardia con l’apologo dell’ultimo viaggio di Ulisse, nel XXVI canto dell’«Inferno».
Il protagonismo e l’ambizione degli scienziati ci hanno completamente fuorviati, al punto da aver piegato la spassionata ricerca scientifica alle loro esigenze e prospettive, degradando la verità a ideologia e innalzando, per esempio, il grottesco edificio della psicanalisi freudiana al rango di “scienza della psiche” per antonomasia.
A quanti altri effimeri Vitelli d’Oro dovremo ancora inchinarci, prima di renderci conto che questo modo di intendere la scienza non è solo fuorviante, ma è anche privo di occhi per la bellezza del mondo e privo di amore e di compassione verso tutti i viventi, uomo compreso?