Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione (I parte)

Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione (I parte)

di Stefano Serafini - 14/06/2010

Fonte: Atrium

Premessa

 

Su gentile richiesta di Arianna editrice, riporto un mio studio col quale aprivo il numero speciale 1/2007, da me curato, della rivista Atrium. Ringrazio per l’autorizzazione a diffondere tale testo introduttivo l’editore Adytum di Trento (atrium48@tiscalinet.it).

 

Nonostante siano passati tre anni, quel volumetto di 200 pagine dedicate all’evoluzionismo, e inizialmente editato in poche centinaia di copie, continua a essere richiesto, ed è ormai giunto alla quarta ristampa. Fu molto gradevole organizzarlo con i prestigiosi contributi del citogenetista Antonio Lima-de-Faria, padre della teoria dell’autoevoluzione, dell’esperto di storia del pensiero esoterico Massimo Marra, che dedicò pagine interessantissime al paradossale sostegno offerto dalla teosofia alla diffusione del pensiero di Darwin, del filosofo marxista Costanzo Preve, del cardinale cattolico Christoph Schönborn, del genetista antievoluzionista Giuseppe Sermonti, e del biologo e studioso Giovanni Monastra. Quando chiusi il numero, ricordo quanto fosse chiaro che le cose stavano ormai sbloccandosi nel pensiero biologico. Soltanto qualche anno prima, per aver tradotto e curato il classico volume di Lima-de-Faria, Evoluzione senza Selezione, ebbi ancora l’onore di ricevere qualche contumelia. Nel 2007 l’aria invece era già cambiata, come mostrò bene due anni dopo il carattere ritualistico e ingessato delle iniziative per il bicentenario di Darwin. La parte ardua della critica all’ideologia evoluzionistica era compiuta, si assisteva alla maturazione del lavoro pressoché solitario e veramente durissimo di Giuseppe Sermonti, che già combatteva quando io appena nascevo. Perciò smisi di occuparmene, e feci bene. Ormai molte delle cose che quattro briganti del pensiero critico scrivevano su samiszdat improbabili, le pubblica Feltrinelli – e il buffo è che c’è ancora qualcuno, oggi, che arrota i denti, come si è visto dalle reazioni scomposte, volgari, e tutto sommato idiote, al volumetto di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor, Gli errori di Darwin, uscito quest’anno per il benemerito editore milanese. Nessuno tra i critici, nel fuoco di paglia che hanno acceso sui quotidiani nazionali, ha colto il problema posto dai due scienziati cognitivi, quello della forma. Si sono così udite molte fiacche condanne, accuse di scelleratezza, cecità e apostasia, ma pochi argomenti nel merito, ad angosciata difesa dell’altare della selezione naturale. Si è così visto uno scienziatone questuare in giro le firme dei colleghi per una “petizione” contro le tesi del libro, reo di bestemmiare la santa selezione. O un altro, che, preso da terrore, scriveva in giro di essere d’accordo con Piattelli Palmarini, perché tutti ormai ammettono che la selezione naturale non è poi così importante, e che non è accaduto alcuno scisma, dunque, al quale prestare attenzione. O un altro ancora, affrettarsi a smentire una recensione favorevole su un noto giornale di sinistra, giacché, secondo cert’altri noti giornali di sinistra, il darwinismo è la fiaccola dell’avvenire contro la reazione.

 

L’interesse per l’epistemologia, la sociologia della scienza, l’intenzionalità e la forma mi ha condotto a dedicare oltre dieci anni di studio alle critiche dell’evoluzionismo standard. Con Giuseppe Sermonti ho avuto la fortuna di indagare poi il problema della forma anche nella madre di tutte le scienze, la scrittura. Ora le stesse forme, dove ricorre il tema dell’autoevoluzione, le studio nelle conformazioni delle città e dei prodotti architettonici, con il matematico-urbanista Nikos Salingaros. Sono naturalmente contento del lavoro di Piattelli Palmarini e Jerry Fodor, due pensatori intelligenti e stimolanti, che alla critica della selezione sono giunti attraverso la linguistica, adoperando molte delle pubblicazioni uscite in questi ultimi quattro anni in biomeccanica, biochimica, matematica, biologia, fisica, neuropsicologia, e altre discipline correlate al ruolo dei vincoli morfofunzionali nei viventi (da Cherniak a Bejan, da Buchanan a Kitano, da Lewontin a West, Brown ed Enquist). Sono inoltre felice che uno degli autori sia un italiano illustre ed elegante, il cui curriculum onora il nostro Paese. Molte delle loro conclusioni le aveva tratte vent’anni prima il vecchio Lima-de-Faria, un gigante inascoltato, con le sue dodici ore al giorno in laboratorio, sul microscopio elettronico. Piattelli Palmarini e Fodor hanno seguito altri percorsi, sulla scia razionalistica di Noam Chomsky. Dopo tanti anni di fanatismo, anche se non me ne occupo più, sono insomma laicamente contento che il tabù cada a pezzi, e non mi turba che ciò avvenga con un po’ di rumore. Tanto era dovuto. Purtroppo, domani, non si troverà una persona col coraggio di ammettere di aver insultato la ragione mentre se ne accampava l’esclusiva ideologica, spesso davanti ai pochi che veramente ne cercarono un’applicazione libera, e dei quali leggerete alcuni nomi nel mio modesto saggetto.

 

Il testo è praticamente lo stesso dell’edizione originale. Per un’integrazione ed aggiornamenti sulla letteratura dell’ultimo triennio vale il già citato M. Piattelli Palmarini – J. Fodor, Gli errori di Darwin, Feltrinelli, 2010. Non posso non raccomandare però anche la lettura di A. Lima-de-Faria, Evoluzione senza Selezione. Autoevoluzione di Forma e Funzione, trad. It. Genova, Nova Scripta, 2003. Il paragrafo dedicato a Giuseppe Sermonti non tiene conto di quanto il genetista ha realizzato ultimamente, ma da quelle pagine sviluppai nel 2009 un articolo dettagliato, interamente dedicato al maestro, che è rintracciabile in rete (http://www.cartesio-episteme.net/ep8/sermonti.pdf).

 

13 giugno 2010

 

Stefano Serafini

 

Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione

 

 

Entartet Geschlect!

Unwert der Ahnen!

Wohin, Mutter,

Vergabst du die Macht,

über Meer und Sturm zu gebieten?[1]

 

 

I.

 

1. Le radici dell’albero della conoscenza di Darwin

 

Troviamo scritto in florilegi europei del XII e del XIII sec.: «Opus naturae est opus intelligentiae».[2] All’epoca ogni acquisizione di sapienza era riguardata come impersonale, e l’autore della sentenza, universalmente condivisa, non ha nome.

 

Non stupisca che, cominciando a trattare di un argomento scientifico, facciamo ricorso al Medioevo cristiano. Né i prevenuti sostengano trattarsi d’una maledizione.

 

Il grande storico della scienza Pierre Duhem mostrò quasi cent’anni fa che era stato il pensiero cristiano ad aprire l’anticamera della scienza moderna, perché modellando e approfondendo il concetto di Dio creatore trascendente, in realtà aveva disimpregnato (disincantato) il Cosmo dalla divinità.[3] Nel XII sec. la grande scuola monacale di Chartres lottava contro l’interpretazione simbolica della Natura, da esaminarsi, piuttosto, rationabiliter, e contro i negatori delle cause seconde, cioè quei mistici che ritenevano ogni avvenimento e fenomeno verificarsi nel mondo per opera diretta di Dio. Anche l’Islam conobbe una simile fase nella storia del suo pensiero – un pensiero eminentemente scientifico –, conclusasi similmente con la vittoria sopra i mutaziliti, teologi secondo i quali, quando il fuoco brucia, è Allah a bruciare nel fuoco.[4]

 

In realtà il filo che collega la moderna scienza tecnologica alla religione del Libro[5] è non soltanto rosso, sottile, doppio, nascosto, adamantino. Esso, soprattutto, è un filo d’Arianna il quale, accuratamente svolto nel labirinto dei luoghi comuni sull’inconciliabile opposizione tra fede e lumi, tra razionalità e timor di dio, ci conduce a scoprire la sostanziale identità (inquietante per alcuni, per altri illuminante) del Minotauro col suo mitico cacciatore.

 

Scienza e religione appaiono come due immagini speculari della comune civiltà sorta da e tra di esse; l’una assisa al principio, l’altra al termine. Cominciamo la nostra storia con il racconto del Genesi, e la finiamo con un “Progetto genesi” di dominio ingegneristico sulla vita, che gli scrittori di fantascienza hanno soltanto fatto in tempo ad adombrare, poco prima che gli scienziati (e l’industria) vi si adoprassero realmente.

 

Nello specifico del tema affrontato in questo numero speciale di Atrium, ci viene alla mente il parallelo evidenziato da Martin Lings fra l’idea di evoluzione e quella, comune alle grandi religioni, sebbene rovesciata, d’una emanazione creativa lanciata dal sovratemporale al temporale.[6] Più recentemente, sulla scia di Gerald Schroeder,[7] Giuseppe Sermonti ha sostenuto che il primo racconto della creazione del Genesi, lungi dal comporre una cosmogonia, è una descrizione storico-naturalistica che echeggia ragionamenti scientifici greco-ionici; esso possiede una innegabile somiglianza di fondo con la spiegazione, progressiva e lineare nel tempo, dell’evoluzione del cosmo e della vita alla quale siamo abituati a pensare come moderna.[8]

 

È peraltro ben noto, per averlo raccontato lo stesso Darwin nella sua autobiografia, e averlo citato anche nell’Origine della specie, che a ispirargli il principio di lotta per l’esistenza fu il reverendo Thomas Malthus (1766-1834). Poche volte viene rimarcato che l’economista inglese riguardava i flagelli della povertà e della carestia come il benefico pungolo di Dio per lo sviluppo dell’umanità, e la sua purificazione dagli inetti. Il suo saggio Essay on the Principle of Population (1798) accese indipendentemente l’idea della selezione naturale anche in Wallace; in entrambi i naturalisti la selezione sostituì alla lettera la corrusca e severa divinità malthusiana che screma gli inadatti e stimola il progresso. Ciò risultava piuttosto evidente ai prossimi di Darwin, come il noto geologo Adam Sedgwick, il quale lo aveva sempre stimato, incoraggiato e aiutato nella carriera. Rimproverandogli un uso disinvolto del metodo induttivo, Sedgwick lo accusava, pur riconoscendo l’importanza del concetto di sviluppo naturale del vivente, di distruggere il collegamento tra le scienze naturali e quelle morali.[9] Sedgwick era un pensatore troppo attento per ritenere erronee in quanto non letteralisticamente bibliche, le tesi di Darwin. Egli non era il reverendo Paley. Più acutamente dei critici della scimmia, si rendeva però conto che la costruzione teorica del passeggero del Beagle[10] uccideva sì il mondo dello spirito, ma perché si consustanziava ad esso, sostituendovisi dall’interno. Il collegamento tra cultura e natura veniva dissolto perché, semplicemente, i due termini della relazione venivano ridotti ad uno solo.

 

In realtà Darwin aveva compiuto un’operazione idealistica per molti versi simile al rovesciamento teologico di Hegel (la scuola sovietica, che pur con tutti i suoi orrori e travisamenti non era certo composta da sciocchi, in questo aveva colto nel giusto).[11] La Teologia naturale permeante la biologia pre-darwiniana anglosassone, la quale – come diranno i suoi detrattori – finiva per spiegare ogni fenomeno con la frase «Dio l’ha fatto così», ha dunque qualcosa in comune con la teoria darwiniana, dove troppo sovente i fenomeni trovano la propria ragione nell’affermazione che «la selezione e il caso l’han fatto così».

 

Scrive Julian Huxley:

 

 «La dimostrazione sulla carta che un carattere fatto così e così era o poteva essere adattivo, veniva considerata da molti scrittori come una prova sufficiente che esso dovesse la sua origine alla selezione naturale. Gli studi sulla evoluzione divennero sempre più dei puri trattati di casistica e di adattamenti reali o supposti. Il darwinismo dell’ultima parte del secolo diciannovesimo giunse a ricordare la scuola di Teologia naturale della prima parte dello stesso secolo. Paley redivivus, si potrebbe dire, ma filosoficamente capovolto, con la Selezione Naturale al posto dell’Artefice Divino, come Deus ex machina. C’era poco contatto tra speculazione evolutiva e fatti concreti della citologia e dell’eredità, o con la effettiva sperimentazione.»[12]

 

Purtroppo molti, tra gli odierni scolastici darwiniani, dimenticano questa indicazione quando usano il solido padre del neo-darwinismo a scopo polemico, per difendere i propri arroccamenti teorici e le proprie “sperimentazioni” condotte al computer, in laboratori simili a uffici. Sebbene Huxley sia stato definito «il mastino di Darwin», la sua pagina segue serenamente discorrendo dei meriti di Bateson e di de Vries nell’abbattere il dogma darwiniano e weismanniano del primato della selezione.

 

Invece nel 2007, una rivista politica italiana che dedica un intero fascicolo alla Scienza, in un articolo di 8 pagine modestamente intitolato “Perché quasi certamente Dio non esiste”, pubblica un passo di tale religiosa ispirazione da lasciare basiti, non soltanto per il tono mistico della sua professione di fede, ma soprattutto per l’evidente inconsapevolezza, un’ingenuità che nessuna vis polemica basta a spiegare. In esso infatti risalta il meccanismo di sostituzione mitica del feticcio Dio con il feticcio Scienza (in questo caso identificata con la selezione naturale), del quale parlano Adorno e Horkheimer.[13]

 

«La selezione naturale è così incredibilmente potente ed elegante, che non solo spiega l’intera vita, ma eleva anche le nostre coscienze e accresce la nostra fiducia nella capacità futura della scienza di spiegare tutto il resto.

La selezione naturale non è semplicemente una alternativa al caso. Essa è l’unica alternativa decisiva mai suggerita.»[14]

 

La scienza che presume di attaccare la religione – ohimé, tronfia come il re nudo della fiaba – mostra di stare in realtà mordendo la propria coda; e poiché le espressioni dell’anima di una società richiamano l’una l’altra, ne udiamo l’eco nella retorica politica di questi anni, in cui per difendere la pace si scatenano guerre, e in nome della libertà e della democrazia si emanano leggi orwelliane. È segno che il processo è maturo, giacché la politica è la coda della civiltà e ultima segue.

 

Il Lettore avrà compreso che le nostre osservazioni non intendono affatto rovesciare i ruoli, e così parteggiare per “la religione” o “la filosofia”, contro “la scienza”. Esse rigettano l’intera falsa opposizione tra i due volti del medesimo idolo. Aggiungeremmo che assieme al trinceramento acritico dietro posizioni ideologiche scientiste, il montare della superstizione, dell’irrazionalismo e dello spontaneismo parareligioso nel mondo, compongono altrettanti sintomi della medesima patologia del sistema scienza (un sistema ridotto a sostituire il senso con la descrizione, il sapere con il potere), e andrebbero dunque affrontati alla causa, non con cacce alle streghe, o ai preti.



[1] «Razza degenere! / Indegna degli avi! / Dove, o Madre, / cedesti il potere / di comandare al mare e alla tempesta?» Richard Wagner, Tristan und Isolde, atto prima, scena prima.

[2] «Ciò che viene dalla natura viene da un’intelligenza». L’espressione, di origine neoplatonica ma variamente attribuita, è una bella equivalenza logica a chiasmo che incardina sul termine medio opus (lavoro, frutto, fenomeno) l’identificazione di intelligenza e natura. Citato in Tommaso d’Aquino, ad es. nella Quaestio de potentia, 1-2, e in Alberto Magno, De quindecim problematibus, 1.

[3] È la tesi, collegata a quella più nota della circolarità del tempo nelle società precristiane, de Le Système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic (in otto volumi, 1913-1954). Recentemente è tornato sulle radici cristiane della razionalità occidentale e del suo sviluppo capitalistico (in radicale anticipo, quindi, al protestantesimo, secondo la nota tesi di Max Weber), il sociologo Rodney Stark, The Victory of Reason: How Christianity Led to Freedom, Capitalism and Western Success, Random House, New York 2006.

[4] Cfr. J. W. Goethe, Viaggio in Italia, ottobre 1787, corrispondenza (Albano, 5 ottobre) (ed. Mondadori “Meridiani” pp. 462-463): «Ho trovato di recente, in una miseranda tirata del Profeta zurighese [Lavater n.d.r.], questa frase senza senso: “Tutto ciò che ha vita vive grazie a qualcosa fuori di se stesso”; o così, più o meno, diceva. Roba che può uscire solo dalla penna di un evangelizzatore; e quando poi la rivede, nessun buon genio lo tira per la manica. Costoro non sono riusciti a penetrare nemmeno le prime e più semplici verità della natura; e pretenderebbero d’occupare i seggi attorno al trono, dove altri deve sedere, o dove non può sedere nessuno. Lasciateli dire, così come faccio io, dato che adesso mi riesce più facile!». Tommaso d’Aquino, da parte sua, spiegava che è vivo ciò che ha in sé il principio di mutare e dirigere se stesso: «substantiam cui convenit secundum suam naturam movere seipsam» (Summa Theologiae, I, q. 18, a. 2 c.); e forse giustamente scriveva F. Nietzsche, La gaia scienza, 11 [138] (p. 308 ed. Mondadori): «Gli uomini del Medioevo, quegli indomiti, ci disprezzerebbero, siamo al di sotto del loro gusto».

[5] La religione del Libro (tali sono l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Islam) sostituisce all’alba della nostra civiltà la religione della tradizione orale, dell’esperienza immediata del divino nella natura. Il Libro è emblematicamente proiezione della Scrittura, tecnologia donata agli uomini, secondo i miti di molte culture, da un dio minore, reietto e spaventoso (Cadmo, Prometeo, Toth) con la quale ha inizio la Storia, la nostra storia di uomini civilizzati.

[6] M. Lings, “Signs of the times”, in: J. Needleman (a cura di) The Sword of Gnosis, Baltimore, 1974, p. 114.

[7] G. L. Schroeder, Genesi e Big Bang, trad. It. Milano, Saggiatore, 1991.

[8] G. Sermonti, “La Genesi, 2500 anni dopo”, in Anthropos & Iatria (Genova), X (2006) 1, pp. 40-44, dove scrive (pag. 41): «Detto in modo spiccio, sto arrivando a questa conclusione: l’Evoluzionismo neo-darwiniano è sostanzialmente il testo biblico del Genesi, 1, da cui è stato cancellato Elohim (Dio)». Oltre alle caratteristiche precipue, la datazione della redazione fra III e V sec. a.C. (sebbene discussa) del primo dei due racconti della creazione che si trovano in Genesi non osta a questa ipotesi. Cfr. J. A. Soggin, Introduzione all’antico testamento: dalle origini alla chiusura del canone alessandrino, Brescia, Paideia.

[9] Lettera a Darwin del 24 novembre 1859.

[10] Beagle è il nome del brigantino sul quale il giovane Darwin viaggiò per quasi cinque anni, dedicandosi all’osservazione naturale. In particolare la variabilità della flora e della fauna delle Isole Galapagos a petto dell’uniformità ambientale, gli suggerirono l’idea di un’inadeguatezza del modello lamarckiano, secondo il quale sarebbe l’ambiente a determinare le diversità fra le specie.

[11] In nome del principio materialista i biologi dell’URSS accusavano il darwinismo di minare il determinismo materialista riducendo l’evoluzione a un processo casuale e di scelta, il cui prototipo non era che l’idealismo della società borghese. Ai sovietici possiamo aggiungere pensatori marxisti occidentali come Althusser, la cui critica, sulla medesima linea («objectivement idéaliste»), viene ricordata dallo stesso Jacques Monod, contro il quale era stata lanciata, in Le hasard et la nécessité, Seuil, Paris 1970, p. 52. Bisogna tuttavia notare che la Russia aveva anche un retroterra scientifico  pre-marxista contrario sia all’economia sia alla biologia “selezioniste”, cfr. Daniel Philip Todes, Darwin without Malthus. The Struggle for Existence in Russian Evolutionary Thought, Oxford University Press, 1989, dove cita a p. 24 K. A. Timirjazev («La teoria malthusiana... è sempre stata rigettata con sdegno dagli economisti russi»), e a p. 45 A. N. Beketov, il quale nel 1894 scriveva: «La competizione per la vita porta a un equilibrio, non a uno sterminio senza fine. Ritengo tale inconfutabile conclusione completamente opposta a quella finzione. Trovo moralmente ripugnante, infine, le conclusioni che Malthus ha tratto dalla sua falsa legge, e che tuttavia oggi molti considerano buona moneta». Curiosamente, anche il fatto che Malthus fosse un religioso veniva rammentato per sostenere l’erroneità del grande Darwin sulla questione, cfr. ivi, p. 24: «Il miserevole pastore Malthus e il grande naturalista Darwin! Quale stravagante e inaspettata combinazione di nomi!» (P. N. Tkačev).

[12] Julian Huxley, Evoluzione. La sintesi moderna, trad. It. della seconda edizione, Ubaldini, Roma 1966, p. 49.

[13] Cfr. Theodor W. Adorno - Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, trad. It. Einaudi, Torino, 1976. Debbo l’osservazione e la segnalazione della struttura religiosa del passo a citare a Massimo Marra.

[14] Richard Dawkins, “Perché quasi certamente Dio non esiste”, in Micromega, n. 2 (2007) Almanacco di scienze, p. 9, corsivi dell’Autore. Gli articoli che seguono mantengono lo stesso impegno antireligioso (“Il credente e la formica”, “E liberaci da Dio” di Daniel Dennett; “Il creatore non ha superato l’esame” di Ian Tattersall, ecc.). Segnaliamo, per la metodica e documentata descostruzione della retorica di Dawkins, Alister McGrath, Dio e l’evoluzione. La discussione attuale, trad. It. Rubbettino, Soveria Mannelli 2006. Al di là del personaggio Dawkins, ci sembra tuttavia qui di avere a che fare con una politica culturale faziosa e acida, tipica del provincialismo italiano. Essa ci rammenta il conflitto tra «barbari» e «mummie» seguito all’introduzione del neopositivismo logico nel nostro Paese: dall’estero si facevano proprie le posizioni più estremistiche per usarle «come arieti», come racconta Francesco Barone, “Teorie logiche”, in AAVV, Filosofia e crisi della cultura, La Garangola, Padova 1974, pp. 28-29.