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Sobrietà e autoproduzione di beni

di Maurizio Pallante - 05/05/2006

Fonte: greenreport

 

La decrescita felice di Pallante: «Sobrietà e autoproduzione di beni»

Intervista con il saggista che oggi vive nelle campagne astigiane, autoproducendo e cercando la massima riduzione degli scambi mercantili
LIVORNO. Mentre in tutto il mondo, destra e sinistra si confrontano su come accelerare la crescita economica, Maurizio Pallante(nella foto) sostiene la decrescita. Anzi la “Decrescita felice”, che è il titolo del suo ultimo libro (Editori riuniti, pp. 134 euro 12).
Cos’è la decrescita felice?
«Partiamo da un presupposto: in un mondo di risorse finite, per quanto ampie, e di una capacità finita di assorbire gli scarti della produzione, solo due categorie possono pensare alla crescita infinita: gli economisti e i pazzi. Per spiegare la decrescita e poi al decrescita felice è quindi necessario partire dalla crescita economica: che nella nostra società non è la crescita dei beni e dei servizi messi a disposizione da un sistema economico e produttivo a una popolazione, ma la cresciuta delle merci, cioè degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro. Merci e beni sono concetti molto diversi fra loro, le faccio un esempio: se si percorre una strada in auto si consuma benzina, cioè una merce, e cresce il pil e quindi il benessere sociale. Se per lo stesso tratto si va più piano perché ci sono curve, si consuma più benzina, e aumenta il pil. Quindi se si sta in coda per un’ora cresce il benessere. Viceversa se nell’orto di casa si autoproducono e si mangiano i propri pomodori, si fa diminuire il Pil, per cui paradossalmente i pomodori autoprodotti diminuiscono il benessere sociale. Questa è la crescita.
La decrescità è invece sobrietà nell’uso delle risorse (che sono finite e che richiedono una capacità di carico da parte della terra per assorbirle), lo sviluppo dell’autoproduzione di beni e servizi in sostituzione di merci equivalenti. La decrescita è anche felice quando all’autoproduzione si aggiungono scambi mercantili senza denaro, fondati sul dono e sulla reciprocità, che quindi creano anche solidarietà e hanno valore aggiunto, quello di portare felicità».

Ultimamente una parte della sinistra mette in discussione sia il concetto che la prassi della crescita e che, addirittura, qualche ambientalista storico giudica fatuo e datato questo dibattito, almeno da quando gli ambientalisti hanno cercato di introdurre in economia le leggi della termodinamica. Lei che cosa ne pensa?
«Penso che noi siamo alla vigilia di una revisione del pilastro su cui si è fondata la cultura del modo di produzione industriale, cioè delle regole che hanno governato per 200 anni l’economia e la scienza dell’occidente. Questo dibattito è appena all’inizio e quindi ci sono confusioni, parzialità, errori. È un processo comunque inevitabile, perché c’è la necessita di un nuovo paradigma culturale: finora destra e sinistra sono state due varianti dello stesso modello industriale, concordi nel ritenere che la crescita economica sia un fatto positivo e conflittuali solo nella distribuzione della ricchezza prodotta attraverso la crescita. Anche il dibattito ambientalista è concentrato sul tema dello sviluppo sostenibile, che è un modo di riproporre la crescita depurandola dai suoi aspetti più distruttivi. L’esempio è il dibattito sulle fonti alternative: se il petrolio non basta più a sostenere la crescita occorre trovare nuove fonti che possano sostituirlo. Il punto di vista della decrescita invece inserisce le rinnovabili all’interno di un dibattito incentrato sulla riduzione della domanda e non sulla sostituzione dell’offerta».

Qualche anno fa si pensava che con l’avvento della società e dell’economia dell’informazione ci stessimo avviando verso una «dematerializzazione» delle produzioni e dei consumi e quindi, inerzialmente, verso la sostenibilità ambientale. Ciò se, e in quanto, si è avverato, riguarda l’utilizzo di energia e materia per unità di prodotto ma, proprio la crescita dei volumi prodotti vanifica questo sforzo. Lei cosa ne pensa?
«Non è assolutamente avvenuto, tant’è che il consumo di risorse, soprattutto di tipo energetico, è aumentato. L’informatizzazione ha accelerato il processo di consumo e ha favorito l’avvento della globalizzazione: e l’estensione del mercato a livello mondiale ha portato all’aumento dei trasporti, delle distanze di spostamento delle merci e del consumo di risorse».

L’argomento utilizzato dai sostenitori ad oltranza della crescita economica illimitata, magari anche di qualità, è che altrimenti non ci sarebbero risorse da ridistribuire e di ciò ne soffrirebbero i più deboli e i meno abbienti. Lei non crede che sia questo il pericolo?
«I fatti dimostrano che la crescita economica negli ultimi anni ha aumentato le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Allora il problema non è quello di consentire lo sviluppo dei popoli poveri, cioè l’inserimento in un meccanismo fondato sulla crescita e sulla sostituzione dei beni con le merci, ma l’uscire dalla povertà consiste in una più equa distribuzione delle risorse reali. Non si è poveri se si può comprare poco, ma si è poveri se non si può comprare il necessario per vivere. Povero è chi non può mettere pomodori sulla tavola, mentre per gli economisti è povero che non può comprare pomodori sufficienti a sopravvivere. La soluzione per i Paesi più poveri non consiste quindi nel loro ingresso nell’economia mercantile, ma è consentire loro una più equa distribuzione di risorse, all’interno di un’economia regionale fondata sulla produzione di beni e non sull’acquisto di merci».

Nel suo vivere quotidiano come applica la decrescita felice?
«Intanto sono andato a vivere in campagna e affianco un’attività di autoproduzione a un attività intellettuale che mi consente di avviare scambi di tipo mercantile. Il mio orto mi fornisce molti prodotti, che in gran parte riesco anche a conservare per l’inverno. Inoltre ho un’autoproduzione di prodotti intermedi come pane, yogurt, succhi, marmellate. Quello che invece sento come forte carenza è il fatto di non essere stato ancora capace di costruire rapporti comunitari con gruppi di persone che hanno fatto le mie stesse scelte di vita, e con cui realizzare forme di scambio basate sul dono e la reciprocità».

Il suo concetto di decrescita è piuttosto diverso quindi da quello di uno dei più grandi teorici della ricerca: Latouche ha uno stile di vita piuttosto diverso dal suo.
«Conosco abbastanza bene Latouche e quindi lo stimo molto anche perché è stato un precursore delle tematiche della decrescita. Però è vero che lui non mette sufficientemente l’accento sull’aspetto dell’autoproduzione e anzi mi critica garbatamente per l’eccessiva enfasi che io ci metto. Credo che l’elemento su cui occorre approfondire la discussione sia sulla differenza tra beni e merci e sulla mercantilizzazione (o come dice Latouche “ognimercificazione”): la decrescita passa attraverso la riduzione degli scambi mercantili, almeno nella stessa misura della sobrietà».