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Il calo del dollaro: una caduta che potrebbe aprire una crisi

di Alfonso Tuor - 08/05/2006

Fonte: Mariella

 


Il dollaro ha ripreso a scendere e questo movimento rimette in gioco molte previsioni sulle prospettive dell’economia internazionale, soprattutto quelle riguardanti l’economia europea.
Ma procediamo con ordine. Il brusco calo registrato dalla valuta statunitense negli ultimi giorni sembra indicare che non si tratta di un movimento di breve periodo, ma di un trend destinato a prolungarsi nel tempo. L’attuale fase di ribasso è di fatto la prosecuzione della forte discesa del valore del biglietto verde che ha preso avvio all’inizio del 2002. Allora il dollaro valeva più di 1,70 franchi e soprattutto valeva più di un euro. Anzi, la moneta unica europea aveva toccato proprio all’inizio di questo decennio il suo minimo storico (quando occorrevano solo 85 centesimi di dollaro per acquistare un euro). Dall’inizio del 2002 il dollaro ha cominciato a scendere, arrivando a toccare alla fine del 2005 quota 1,34 rispetto all’euro e 1,15 rispetto al franco svizzero.
I continui aumenti dei tassi d’interesse statunitensi e il conseguente ampliamento del disavanzo dei tassi tra le due sponde dell’Atlantico hanno arrestato la caduta del dollaro e nel corso dell’anno scorso hanno permesso un suo rimbalzo che si è protratto fino all’inizio di questo mese.
Da allora la moneta statunitense ha perso smalto e negli ultimi giorni è addirittura scesa in modo brusco. Il motivo di questa debolezza è chiaro: la ripresa dell’economia europea appare più forte delle previsioni e dà quindi spazio alla Banca Centrale europea di aumentare i tassi; d’altro canto, la manovra restrittiva della Federal Reserve è prossima alla fine, come ha confermato giovedì scorso in una audizione davanti al Congresso Ben Bernanke. La conseguenza è ovvia: il differenziale dei tassi a breve tra le due sponde dell’Atlantico ha toccato il massimo ed è ora destinato a restringersi. Questo movimento dei tassi a breve è stato del resto già anticipato dal mercato dei capitali, dove il forte aumento dei rendimenti europei ha ristretto a poco più di cento punti base il differenziale di rendimento rispetto alle obbligazioni americane. Tutto ciò vuol dire che la stampella dei tassi e della politica monetaria restrittiva della banca centrale americana non sostiene più il dollaro, che è condannato a scendere a causa delle sue strutturali debolezze, rappresentate da un disavanzo commerciale che supera i 700 miliardi di dollari l’anno e da un crescente indebitamento estero, che, al netto delle attività possedute dagli americani all’estero, si aggira attorno al 30% del Pil statunitense e che fa degli Stati Uniti il paese con il più alto debito estero del mondo.
Per formulare delle ipotesi sulle conseguenze economiche di questi movimenti sui mercati dei cambi, bisogna dapprima fare delle previsioni sui tempi e sull’ampiezza del ribasso del dollaro.
Il brusco calo di questi giorni lascia presagire che la caduta possa essere più rapida di quanto si aspettino i mercati. Per quanto riguarda l’ampiezza del ribasso ripetiamo quanto avevamo scritto alcuni anni orsono: ogni movimento di lungo periodo di ribasso del dollaro si è chiuso solo dopo aver stabilito un nuovo minimo storico. Quindi la caduta del dollaro iniziata nel 2002 si concluderà unicamente dopo una discesa sotto quota 1,10 nei confronti del franco svizzero, che era il livello toccato nel 1995. Ciò corrisponde ad un euro sopra quota 1,40.
I tempi necessari per giungere a questi livelli non sono prevedibili, ma questa seconda fase di caduta rischia di essere più dirompente della precedente, poiché fattori geopolitici ed economici spingeranno molti paesi (dai paesi arabi alla Russia, dalla Cina ai paesi del Sud Est asiatico) ad accelerare la diversificazione delle loro riserve valutarie, finora costituite prevalentemente da dollari. Se queste previsioni si riveleranno corrette, le conseguenze maggiori verrebbero avvertite dall’economia europea. Infatti è bene ricordarsi che il ritardo dell’attuale ripresa europea rispetto a quella americana è dovuto a una politica monetaria e fiscale meno aggressiva di quella statunitense, ma soprattutto è da imputare ad un euro in rialzo che ha compresso i volumi delle esportazioni e i margini di redditività delle società del Vecchio Continente.
Quindi, dato che la ripresa europea si fonda ancora sulla crescita delle esportazioni e dato che i movimenti del tasso di cambio dell’euro e del franco svizzero hanno un peso maggiore delle manovre monetarie e di quelle fiscali, è inevitabile ipotizzare un rallentamento della crescita del Vecchio Continente l’anno prossimo, soprattutto se i consumi delle famiglie non riprenderanno a crescere in modo sostenuto. La rivalutazione dell’euro e del franco ha comunque anche effetti positivi: si riduce l’effetto dell’aumento del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; in secondo luogo, i tassi a lunga cresceranno meno del previsto; e, infine, Bce e BNS saranno indotte ad aumentare i tassi meno di quanto avrebbe fatto con un dollaro relativamente forte.
L’effetto complessivo dell’indebolimento del dollaro è comunque negativo, come attesta l’immediato calo delle Borse europee. Ma c’è di più. La caduta del dollaro potrebbe rivelarsi qualcosa di più di un forte movimento al ribasso e trasformarsi in una vera e propria crisi del dollaro, determinata dal crescente squilibrio dei conti con l’estero degli Stati Uniti.
Questa eventualità non è da escludere, ma per cercare di tratteggiare i termini della questione occorrerebbe ampliare l’analisi all’Asia, ai paesi produttori di petrolio e soprattutto agli squilibri geopolitici che rendono precaria la posizione della superpotenza americana e del ruolo di valuta mondiale del dollaro.