Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Equosolidale, crisi di crescita

Equosolidale, crisi di crescita

di Paolo Lambruschi - 12/05/2006

inchiesta. Domani è la Giornata mondiale del commercio che rispetta i produttori poveri del Sud del mondo. Ma ora interessa anche le multinazionali. E gli esperti si dividono

 

Si è arrivati al 47% delle banane «giuste» in Svizzera, al 20% del caffè in Gran Bretagna

 

Sono quelli che continuano a credere in un "altro mondo possibile". E i fatti danno ragione ai milioni di protagonisti del commercio equo e solidale, di cui domani si celebra la giornata mondiale. In Europa le quote di mercato dei beni soprattutto agro alimentari e tessili che rispettano lavoratori e ambiente, pagando un giusto salario ai produttori del Sud, superano le due cifre percentuali, fino al 47% delle banane in Svizzera o al 20% del caffè in Gran Bretagna. L'Italia, con 500 botteghe e 4000 supermercati in cui si trovano prodotti equo-solidali, è terza in Europa per importazioni (41 milioni di euro l'anno). «Una ricerca della Bocconi - aggiunge Alberto Zoratti, vicepresidente di Agices, associazione dei punti vendita italiani - stimava nel 2004 in 110 milioni di euro annui il fatturato complessivo di grande distribuzione e botteghe». Ma il successo è globale.
«Tanto che - spiega Leonardo Becchetti, giovane economista dell'ateneo romano di Tor Vergata - il 30% dei consumatori del mondo è potenzialmente interessato a banane, caffè, tè equi e solidali». Come mai tanto successo? «Perché le teorie economiche dominanti vedono la persona nella sua componente di autointeresse, ma trascurano altri due fattori: la sympathy, la solidarietà e il desiderio di relazione, e il commitment, il dovere. Non basta comprare quello che costa meno, l'uomo ha bisogno di soddisfare anche le componenti morali. La globalizzazione chiude il cerchio facendoci compiere atti di inclusione verso persone molto lontane».
Oggi botteghe, importatori ed enti certificatori, cioè che assegnano a un prodotto il marchio equo e solidale se soddisfa i criteri specifici, sono sostanzialmente davanti a una nuova grande sfida: l'arrivo di colossi transnazionali dell'agro alimentare e della grande distribuzione sull'onda della responsabilità sociale. Collaborare o no con gli "avversari"? Dilemma lacerante perché attorno a questo movimento di società civile globale gravit ano missionari e ong che vogliono difendere le botteghe e la purezza dell'equo e solidale, che temono scada a paravento dei grandi gruppi economici e finanziari. Ma vi lavorano con identica passione anche personaggi pragmatici abituati a dialogare con i consigli di amministrazione dei marchi globali e il successo commerciale va oggettivamente attribuito soprattutto a loro. Insomma, entrambe le parti hanno buone ragioni.
«L'anno scorso abbiamo certificato il caffè solubile venduto dalla Nestlè nel Regno unito, boicottata fin dagli anni '70 per le sue politiche commerciali - spiega Barbara Crowther, portavoce della britannica Fairtrade Foundation - suscitando molte polemiche. Ma il nostro compito è garantire il rispetto dei criteri e l'azienda compra il caffè da cooperative di produttori etiopi e salvadoregni affiliati da anni a centrali di esportazione del nostro commercio pagando il giusto prezzo. Il nostro obiettivo è sensibilizzare i grandi marchi e, se agiscono in base ai nostri criteri e noi possiamo verificarlo, l'obiettivo è raggiunto. Inoltre in sei mesi dall'avvio del progetto, la produzione è aumentata del 50%».
In Italia tanto pragmatismo spaventa. «In questo momento non daremo il nostro marchio alla Nestlè - ribatte Adriano Poletti, presidente di Transfair Italia, ente certificatore nazionale - non per pregiudizio, ma quell'azienda viola oggettivamente molte convenzioni. È un'iniziativa funzionale alla cultura anglosassone».
«Non si fanno crociate e ci sono poche certezze sulle multinazionali- aggiunge Zoratti - ma non sottovalutiamo l'impatto sui produttori: le nostre organizzazioni stanno crescendo in maniera graduale e abbiamo medie dimensioni. Se entrano in gioco i big, una domanda molto accresciuta farebbe abbandonare le piccole produzioni per i grandi appezzamenti.»
C'è comunque una richiesta unitaria al nuovo parlamento italiano. «Una legge nazionale - risponde Poletti- specifica e nuova che definisca prodotti e organizzazioni, istituendo due albi: uno per le associazioni e uno per enti certificatori».
Quali prospettive, allora? Sembra avere le idee chiare l'elvetica Paola Ghillani, ex manager di uno dei marchi storici del commercio equo, "Max Havelaar" Svizzera, che sotto la sua guida dal 1999 al 2005. quintuplicò il volume di affari. Oggi Ghillani è consulente strategica per l'Onu e per diverse aziende svizzere quotate in borsa.
«Il commercio equo ha conservato un grandissimo potenziale dimostrando con i suoi criteri rigidi e la trasparenza che la scelta del consumatore può fare la differenza. Le multinazionali? Sono favorevole al fatto che seguano i modelli del commercio equo, ma non è giusto che ne utilizzino i marchi perché solo una piccolissima parte del loro fatturato compra e vende a condizioni eque. Trovo giusto invece che un'azienda integri la responsabilità sociale e ambientale nella propria strategia economica». Consigli ai vecchi colleghi? «Sviluppare nuovi prodotti e convincere altre aziende a collaborare, specialmente la grande distribuzione, gestendo con professionalità i processi di controllo. Finché era un piccolo movimento di ong, si poteva anche sbagliare. Adesso stanno facendo concorrenza alle multinazionali, non sarà consentito il minimo errore».