Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Dov’è la nostra mente; dove siamo noi, mentre stiamo ricordando o immaginando?

Dov’è la nostra mente; dove siamo noi, mentre stiamo ricordando o immaginando?

di Francesco Lamendola - 01/10/2010






«Chi sono io?» resta pur sempre la domanda fondamentale di ogni filosofia e di ogni essere umano che si ponga in maniera problematica davanti al reale.
La risposta di Cartesio, «io sono io», divenuta oggi quella ufficialmente riconosciuta e, addirittura, la base di ogni ulteriore forma di conoscenza, è una risposta che non spiega nulla, nemmeno sul piano strettamente psicologico: è piuttosto una tautologia che sposta semplicemente il problema un poco più in là.
Infatti, se domandiamo: «ma chi è quell’io che dubita?», ricadiamo subito nel circolo vizioso: «quell’io che dubita è me stesso»; al che, ovviamente, non resta che chiedere ancora e sempre: «ma io che sto dubitando, chi sono in realtà?».
La risposta di Buddha è molto più articolata e anche molto più radicale: non c’è nessun io, perché quello che denominiamo «io», altro non è che un aggregato di stati della coscienza, sempre mutevoli e cangianti. Altro è l’io di adesso, altro l’io di cinque minuti fa o di cinquanta anni fa; altro ancora sarà l’io che si domanderà chi egli sia, fra cinque minuti o fra cinquant’anni. Conclusione, come direbbe Pirandello: uno, nessuno e centomila.
Ammettiamo, tuttavia, per puro amore di ipotesi, che un «io» esista realmente: un «io» sempre identico a se stesso, pur nel mutare del tempo e delle situazioni; un substrato coscienziale che si possa sempre e comunque rispecchiare in se medesimo, e riconoscersi.
Domandiamoci, dunque: se la coscienza di un tale «io» risiede nella sua mente, come generalmente si ammette (e sia pure interpretando la parola «mente» nel senso più ampio possibile, pressappoco nel significato di «anima»), ebbene, dove si trova nel momento in cui sta ricordando le cose della sua vita passata, oppure mentre sta immaginando delle cose che non fanno parte della sua esperienza reale, ma sono la proiezione di aspirazioni e desiderî?
Sembrerebbe una domanda semplicissima, ma forse non lo è; forse la risposta ad una simile domanda è sconvolgente, e tale da modificare in maniera radicale il quadro delle nostre certezze intorno al nostro stesso «io», anche ammesso che sia quella unità semplice e coerente, sempre uguale a se stessa, che sostiene Cartesio.
Infatti.
Quando ricorda il passato, l’«io» non è, evidentemente, nel presente, ma in un altrove che non è la stessa cosa del passato stesso: non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua, diceva Eraclito; e Nietzsche aggiungeva, maliziosamente: nemmeno UNA volta. È inutile chiedersi «dove» si trovi quel luogo, visto che non è un luogo: è uno stato della mente. Uno stato della mente che non è più il passato, ma non è nemmeno il presente; e nessuno sa cosa sia.
Immaginiamo che le note di una canzone di venti o trenta anni fa mi riconducano al mio «io» di allora: rivedo, con la mente e nella mente, DENTRO la mente (ma tutto ciò che posso vedere è dentro la MIA mente), quei luoghi, quelle persone, quelle situazioni; mi par quasi di provare quegli stati d’animo, di immergermi in quella atmosfera. Allora: dove sono, dov’è il mio «io», mentre le onde del ricordo mi fanno risalire a ritroso il fiume del tempo?
In quel momento, non vedo il presente; vedo un qualcosa che assomiglia molto al passato, al mio passato; però lo vedo dopo che una grande distanza di tempo mi ha allontanato da esso. Lo vedo come potrei rivedere il mio paese natale, se vi tornassi dopo una prolungata assenza; lo vedo e non lo vedo: lo vedo, ma non è più quello.
Non so cosa sia, non so dove si trovi; so soltanto che non mi trovo qui, che non sto vivendo nel presente, se non con la mia forma esteriore. Chi mi vede in questo momento, mi vede presente; ma io non ci sono, sono assente, sono altrove, perché la mia mente è altrove. Dove, non si sa; nessuno potrebbe dirlo con certezza.
La stessa cosa accade quando fantastico, quando immagino, quando sogno ad occhi aperti; perché quando sogno ad occhi chiusi, mentre sto dormendo, allora è proprio certo che mi trovo in un’altra dimensione: e quello che vedo non è illusorio, è reale, solo che non appartiene a questa dimensione, ma ad un’altra.
Beata ignoranza.
Crediamo di sapere tante cose, e invece sappiamo così poco.
Non sappiamo nemmeno dove siamo, mentre tutti credono che siamo qui.
Dov’è l’amante che sta facendo l’amore con una persona che non ama, mentre invece sta pensando alla persona che ama?
Dov’è il figlio che sta pensando al genitore morto; dov’è il padre che sta pensando al figlio lontano; dov’è il vecchio marinaio che pensa ai mari e alle terre lontane che ha visitato in gioventù, ora che giace nel letto di una casa di riposo?
Dov’è il mistico che sta pensando a Dio, che sta meditando su Dio, che sta ricevendo nell’anima, come una pioggia di luce, la rivelazione dell’Amore divino?
Dov’è il bambino ancora in culla, che sgrana gli occhioni sul mondo circostante e sembra che non veda nulla e non riconosca nessuno, mentre forse già vede e riconosce moltissime cose?
E dove sono il bue mentre sta brucando l’erba del prato, la lucertola mentre riceve il sole sopra una roccia dalla superficie liscia, il falco che si libra alto nel cielo estivo?
Dov’è il cane che abbaia alla Luna, ad un suo misterioso fantasma: dov’è la sua mente, in quel momento?
Dove sono il fiore che dischiude i petali umidi di rugiada allo splendore del nuovo giorno, la spiga di grano che oscilla nel vento, l’immenso cedro che svetta al di sopra del giardino e protende i suoi aghi innumerevoli verso la luce?
Chi siamo noi, per dire che essi sono qui, semplicemente qui; o che non sono da nessuna parte, perché non hanno un «io» come gli esseri umani? E se neppure gli esseri umani l’avessero? Hume pensava che gli esseri umani non possiedano alcun «io», ma solo una specie di collezione di abitudini mentali, esattamente come lo aveva pensato Buddha.
Eppure, anche se non si possiede un «io» stabile e permanente, si possiede tuttavia una serie di stati dell’essere: migliaia, milioni, miliardi di stati dell’essere, uno ad ogni istante della propria esistenza. E dunque, alla fine torna sempre, implacabile, la domanda: dove sono gli stati dell’essere, mentre si sta ricordando o immaginando?
E chi può dire, ad esempio, che gli animali non immaginano, che non sognano? I poeti, più acuti dei filosofi, lo hanno sempre saputo: il cavallo, dice Pascoli, sogna la strada, sogna la biada, proprio come i bambini, addormentandosi stanchi dopo una lunga giornata di giochi, sognano ancora di stare giocando.
Leopardi, come filosofo e non come poeta, pensa che l’armento, sazio d’erba, non pensa a nulla quando giace in riposo sull’erba; ma chi può dirlo? Sappiamo così poco perfino di noi stessi; come possiamo pretendere di sapere quello che avviene nella mente di un animale?
Sappiamo che le piante provano emozioni; sono stati fatti esperimenti: sappiamo che provano la paura e la tenerezza, che si agitano quando si avvicina una mano brutale, che si rilassano quando le sfiorano dita delicate.
Perfino dell’acqua sappiamo che possiede reazioni: le sue molecole si aggregano a formare disegni meravigliosi e coloratissimi mentre si ode una musica di Bach, mentre si deturpano e si intorbidano orrendamente quando risuona lo strepito di una musica di rock duro.
Dov’è la mente del bue, mentre bruca l’erba del prato?
Dov’è la mente della magnolia, mentre le sue foglie lucenti ricevono il ristoro della pioggia?
E dov’è la mente dell’acqua, mentre il sole al tramonto si immerge lentamente nelle onde del mare?
Ancora e di nuovo: non lo sappiamo. Non è un luogo, ma uno stato dell’essere; tutto ciò che esiste conosce gli stati dell’essere, perché è fatto di essi, delle loro continue trasformazioni.
Una cosa è certa: la mente è mobile; la mente è inquieta; la mente, di conseguenza, è la fonte della nostra agitazione e, sovente, dei nostro errori e dei nostri rimorsi.
La pace non si trova nella mente, ma fuori della mente. Quando la mente esce da se stessa, allora è in pace, allora trova finalmente la pace.
Prima abbiamo identificato, per semplificare il discorso, «mente» ed «anima»; ora è venuto il tempo di distinguere in maniera opportuna, di stabilire la differenza.
La mente è una parte dell’anima; è la parte inquieta, la parte che teme e che brama, la parte che si interroga e cerca di afferrarsi, così come il cane impazzito cerca di afferrarsi la coda. L’anima, invece, è la nostra essenza, la nostra ultima realtà: quando abbiamo tolto tutto ciò che non è essenziale - il corpo, la mente - rimane l’anima.
L’anima non è qualcosa di individuale, non è qualcosa di nostro, o di soltanto nostro: l’anima è il riflesso dell’Essere, dello splendore cosmico. L’anima è tutto in tutti; al di sopra delle anime individuali, che si credono tali e non lo sono, vi è l’unica Anima universale.
I più grandi spiriti dell’antichità - Pitagora, Platone - lo sapevano perfettamente; solo noi moderni ce ne siamo dimenticati, con tutta la nostra scienza.
La pace, dunque.
Per trovare la pace, bisogna oltrepassare la mente; bisogna lasciarsi dietro le spalle i suoi affanni, i suoi turbamenti, i suoi errori - nel duplice significato di «sbagli» e di «giri tortuosi ed inutili»: bisogna deporla, almeno ogni tanto, come un fardello che ci appesantisce senza avvicinarci di un passo alla verità ultima delle cose.
La verità ultima giace nel fondo dell’anima: là dove essa si riconosce parte di un Tutto; una parte, o un riflesso, o una emanazione dell’Essere.
Sono cose molto più grandi della mente, e che la mente può capire solo in minima parte: è già tanto se possiede quel minimo di umiltà per cedere il passo e per porsi in ascolto di qualcosa che eccede, e di molto, le sue possibilità di comprensione.
I razionalisti ritengono che questa sarebbe una resa inaccettabile, un salto nell’irrazionale: per loro, solo la mente ha dignità; anzi, solo la sua parte razionale.
È un punto di vista molto recente e limitato alla sola civiltà occidentale; dobbiamo ringraziare, per una tale “conquista”, la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo e uomini come Francis Bacon, Galilei, Cartesio e Newton. Uomini talmente pervasi da un orgoglio smisurato, da voler stabilire come funzioni la mente di Dio: vale a dire con il ragionamento logico-matematico (si veda il discorso sul sapere “intensive” ed “extensive” nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi»).
È questa, dunque, la mentalità che dobbiamo superare; questo l’errore che dobbiamo correggere, prima che sia troppo tardi.
L’orgoglio del razionalismo ci ha portati molto vicini al disastro: esso non vede nell’altro che il campo d’azione della mente individuale, dal quale ricavare il massimo del vantaggio o del profitto; non una realtà di pari dignità. La natura diviene un magazzino da saccheggiare impunemente o una discarica per i prodotti di scarto della nostra forsennata sete di dominio.
Questo, a livello sociale ed ambientale.
A livello personale, il rifiuto di adorare la mente come signora e dominatrice implacabile dell’«io», qualunque cosa vogliamo intendere con quest’ultima espressione, è il primo passo verso un riequilibrio dell’anima, verso la riconquista della pace interiore.
Quando la mente domina sull’anima, l’anima non è mai in pace, perché la mente è sempre turbata da mille pensieri, desiderî, paure; bisogna far sì che l’anima si liberi da tutte queste pulsioni disordinate, affinché ritrovi se stessa.
Ritrovando se stessa, ritrova il mondo intero; ritrova l’altro, riscopre la bellezza del «tu».
Ritrova le proprie sorgenti luminose, che scaturiscono direttamente dall’Essere.
Perché l’Essere e soltanto l’Essere è la vera pace, cui tutti gli enti anelano nel loro pellegrinaggio terreno.