Quella ribellione agli USA
di Roberto Zavaglia - 16/10/2010
Lunedì scorso (non) si sono celebrati i venticinque anni trascorsi dai fatti di Sigonella. Scorrendo alcuni dei principali quotidiani, non abbiamo trovato niente su quanto accadde, nella notte dell’11 Ottobre 1985, nella base Nato siciliana. Anche se non fu un grande evento storico, quell’episodio vide però, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, contrapporsi militari italiani e statunitensi armi alla mano. E rappresenta uno dei pochissimi casi di soprassalto della dignità nazionale nei confronti dell’ingombrante “alleato” Usa.Le cose andarono all’incirca in questo modo. Un gruppetto di militanti del Fronte di liberazione della Palestina, dopo essersi impadronito della nave da crociera Achille Lauro, assassinò un passeggero, Leon Klinghoffer, un invalido di nazionalità statunitense e di origine ebraica. Iniziarono le trattative che giunsero a termine grazie alla mediazione del presidente egiziano Mubarak, di Arafat e del capo del Fronte, Abu Abbas, salito a bordo per convincere i suoi compagni ad abbandonare la nave. Ai dirottatori fu concesso di salire su un aereo in Egitto per dirigersi in un Paese disponibile ad offrirgli asilo, ma due caccia Usa intercettarono il Boeing e lo costrinsero ad atterrare a Sigonella. Incominciò allora un vero e proprio braccio di ferro tra i governi di Roma e Washington che voleva mettere le mani soprattutto su Abu Abbas.
Sul campo la situazione diventò presto surreale, con tre cerchi concentrici di soldati che si controllavano a vicenda: i ragazzi della Vam (Vigilanza Aeronautica Militare) erano schierati a protezione dell’aereo egiziano, circondati dagli uomini della Delta Force i quali, a loro volta, erano accerchiati dai carabinieri. Tutti con le armi spianate: un solo momento di nervosismo avrebbe causato una carneficina. Intanto si intrecciavano le telefonate tra Reagan e il capo del governo italiano Craxi. Inutilmente, il presidente Usa pretese che si cedesse il passo ai suoi soldati. Craxi, offeso per l’arroganza delle forze statunitensi e intenzionato a difendere la sovranità del territorio nazionale, fu irremovibile. Finché, verso le 5 e mezza del mattino, la Delta Force si ritirò e Abu Abbas poté salire su un aereo verso Roma, che gli aerei militari Usa provarono ancora a dirottare, desistendo poi per l’intervento dei caccia italiani.
Questo fatto, controverso sul piano giuridico e “morale” ( era stato pur sempre assassinato un uomo inerme), mostrò comunque, una volta tanto, la fermezza di un governo della Repubblica di fronte alle imposizioni Usa. Al di là delle ragioni e dei torti, gli statunitensi si erano comportati in modo sprezzante, da padroni in casa nostra, ma alla fine avevano dovuto abbassare la cresta. Craxi, infuriato, annullò il viaggio ufficiale programmato negli Stati Uniti, ma in seguito Reagan, con una lettera dai toni amichevoli, quasi a scusarsi dell’accaduto, lo convinse a effettuare la visita. Non mancò il solito atlantista più realista del re: il ministro della Difesa, il servile Spadolini, provocò una mini crisi di governo, uscendo dalla maggioranza.
Se dalla Prima passiamo alla Seconda repubblica, troviamo un altro episodio di “scontro” tra Roma e Washington. Nei giorni seguenti la tragedia del Cermis del 3 febbraio 1998, il governo italiano, però, non seppe trovare lo stesso coraggio di Craxi. L’allora presidente del Consiglio D’Alema fece ben poco affinché gli aviatori Usa che, spezzando i cavi di una funivia nella località della Val di Fiemme, avevano causato venti vittime, fossero giudicati da un tribunale italiano. Rientrati tranquillamente in patria, il pilota e il navigatore dell’aereo dei marine furono sottoposti a un processo farsa nel quale, ovviamente, furono assolti. Eppure, c’erano motivi di indignazione per l’atteggiamento “coloniale” di quei militari. Oltre a non avere ottemperato alle regole sulla velocità e l’altezza della navigazione, c’è il sospetto che il pilota avesse provocato il tragico incidente con un “gioco” azzardato: uno slalom a bassa quota fra cavi e altri ostacoli. Molti valligiani dichiararono che i jet provenienti dalla base di Aviano si dilettavano di frequente con questo passatempo.
Per Aviano, però, D’Alema aveva altri progetti. L’anno seguente, con orgoglio esibito da neoconvertito atlantista, autorizzò l’uso della base per gli assurdi e criminali bombardamenti sulla Serbia. Con un tocco di residuo pacifismo, trovò il modo di fare una delle affermazioni più cialtronesche che un nostro capo di governo abbia mai pronunziato, ovvero che gli aerei militari italiani sorvolavano sì la Serbia, ma senza sganciare bombe. Lo stesso D’Alema, dopo l’abbattimento della funivia, aveva dichiarato in Parlamento: “Il governo ha stabilito di fronte alle richieste della Procura di accedere al testo dell’Accordo-quadro bilaterale Italia-Usa del 25 ottobre 1954, di porre tali documenti a disposizione dell’autorità giudiziaria”. Probabilmente, ai magistrati fu dato invece il meno importante Memorandum d’intesa Italia-Usa del 1995, nel quale si ribadiva la cooperazione militare con Washington, senza entrare nello specifico delle clausole segrete. Perché clausole segrete, negli accordi militari con gli Usa, ce n’erano e ce ne sono ancora.
Non risulta che, dopo il discorso di D’Alema undici anni fa, quei patti misteriosi siano stati disvelati. E così, a “soli” 65 anni dalla sconfitta militare, ci ritroviamo ancora in casa oltre 100 basi, comprese le installazioni “minori”, della potenza vincitrice. Il bello è che i contribuenti italiani pagano quasi la metà delle spese per queste basi straniere, senza, come abbiamo visto, conoscere la loro funzione e le loro attività. Certi, comunque, che, in caso di qualsiasi tipo di incidente, non saranno i tribunali italiani a fare giustizia. Peggio ancora, non sappiamo quante sono precisamente (comunque, almeno diverse decine) le bombe atomiche custodite nelle basi né quali siano le misure adottate per metterle in sicurezza.
Dopo la fine della Guerra Fredda, che era la sola giustificazione per mantenere le truppe Usa sul nostro territorio, i governi hanno fatto niente per riappropriarsi della sovranità militare. La questione non si pone: destra, sinistra e centro non se ne occupano affatto. D’altra parte, il livello miserabile a cui è scesa la nostra politica è compatibile con un servaggio di questo genere. Quel poco di politica estera, al pari di quanto avveniva durante la Prima repubblica, è frutto di iniziative personali, come nel caso dei rapporti fra Berlusconi e Putin. Non possediamo una dottrina strategica in un momento in cui le potenze, grandi e piccole, cercano nuovi interlocutori, stabiliscono inedite alleanze, selezionano gli scacchieri in cui intervenire, per riposizionarsi al meglio negli equilibri mondiali in cambiamento. I nostri “leader” ripetono il solito mantra: fede nell’Europa e solidarietà atlantica. Altro non sanno dire, perché i loro veri interessi vanno in ben altre direzioni.