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Afghanistan, Iran e Pakistan. Cortocircuito tra Roma e Herat

di Alessandro Cisilin - 19/10/2010



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Coincidenza del tutto casuale, densa peraltro di amarezza e di interrogativi senza risposta sul seguito della missione afgana. A Herat si è tenuto ieri l’avvicendamento semestrale tra due brigate di Alpini al vertice del Regional Command West dell’Isaf, proprio mentre a Roma si riunivano i vertici diplomatici e militari globali a discutere sul concetto di “road map”.

Sono accorsi praticamente tutti dal cosiddetto “International Contact Group” per l’Afganistan, con foto di gruppo a Villa Madama e conferenze stampa alla Farnesina: il ministro degli Esteri di Kabul Zalmai Rassoul, accanto all’omologo padrone di casa Franco Frattini e ai rappresentanti di 46 paesi, inclusi 9 Stati membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Non funzionari di second’ordine, tra l’altro, bensì l’intero stuolo di “Inviati Speciali”, termine generalizzato dall’intitolazione del delegato della Casa Bianca Richard Holbrooke.

E poi il personaggio più atteso, il generale David Petraeus, che dirige la missione della Nato e da giorni gira l’Europa a persuadere le cancellerie alleate sul senso delle operazioni in corso da oltre nove anni, tra escalation di vittime militari e civili, esorbitanti costi annuali e trattative ora avviate col nemico talebano.

Un sì preventivo circa la “piena adeguatezza della missione” è giunto nei giorni scorsi dal ministro della Difesa La Russa all’indomani dell’ultima strage di soldati italiani, con tanto di conferma all’incremento del contingente fino a 4000 soldati entro la fine dell’anno.

Il vertice romano era però consacrato all’obiettivo apparentemente opposto, ossia alla “transizione della sicurezza e del controllo del territorio dalle mani della coalizione internazionale a quelle delle forze afgane”, in preparazione del vertice della Nato fissato tra esattamente un mese a Lisbona.

Traduzione: si comincia a discutere su come andarsene senza che risulti una sconfitta.

L’Inviato dell’Onu Staffan De Mistura ha spiegato che l’incremento delle violenze segnala un “indebolimento dei talebani” (anziché il contrario) e al contempo la loro “volontà di aprire un dialogo”. La disponibilità negoziale è stata confermata da Holbrooke, sia nei confronti dei ribelli afgani che verso i paesi limitrofi, incluso l’Iran (anch’esso rappresentato ieri a Roma), peraltro con la cerniera delle basi aeroportuali americane in costruzione presso tale frontiera.

L’altra, quella col Pakistan, segna il confine col nuovo epicentro della guerra identificato dal Pentagono: là oltre, secondo quanto fatto filtrare ieri dalla Nato alla Cnn, vivrebbero tuttora – oltre al mullah Omar, anziano leader dei talebani afgani – gli stessi Bin Laden e il suo vice al-Zawahiri, “indisturbati” e anzi “protetti da alcuni membri dei servizi segreti pakistani”.

In cima alle preoccupazioni militari e politiche di Washington sembrano dunque ora trovarsi Teheran e Islamabad, anziché Kabul.

E l’Afganistan? “Lo sosterremo su sviluppo, sicurezza e addestramento anche dopo il 2014”, precisa Frattini.

Ma secondo il ministro Rassoul, commentando le ultime ambizioni militari esternate da La Russa, “le bombe sugli aerei non sono la soluzione neppure per proteggere i vostri soldati”.