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La lobby israeliana e la politica estera USA (settima puntata)

di John Mearsheimer e Stephen Walt - 18/05/2006

 
 
 
«Il 15 settembre 2001, Wolfowitz propose a Bush di attaccare l’Iraq prima dell’Afghanistan, anche se non c’era alcuna prova che Saddam fosse implicato negli attacchi contro gli USA»

Le pressioni di Israele e della lobby non furono il solo fattore che spinse gli Stati Uniti ad attaccare l’Iraq, ma costituirono un elemento determinante.
Alcuni americani ritengono si sia trattata di una «guerra per il petrolio», ma non c’è praticamente alcuna evidenza che supporti tale affermazione.
La guerra fu, invece, motivata principalmente dal desiderio di rendere Israele più sicuro.
Secondo Philip Zelikow, ex membro della President’s Foreign Intelligence Advisory Board (2001-2003), Direttore Esecutivo della Commissione sull’11 settembre e attualmente Consigliere del Segretario di Stato Condoleeza Rice, la «minaccia reale» da parte dell’Iraq non era rivolta agli Stati Uniti.
La «minaccia non dichiarata» era nei confronti di Israele, disse Zelikow ad una conferenza presso l’Università della Virginia nel settembre 2002, notando inoltre che «il Governo americano non vuole dare troppa pubblicità alla cosa, perché non è un argomento popolare».
Il 16 di Agosto 2002, undici giorni prima che il vice pesidente Dick Cheney desse inizio alla campagna a favore della guerra attraverso un duro discorso ai veterani, il Washington Post riportava che «Israele raccomanda agli Stati Uniti di non ritardare lo scontro militare contro l’Iraq di Saddam Hussein».
Da questo punto in poi, secondo Sharon, il coordinamento strategico tra Israele e gli USA arrivò a «livelli mai raggiunti prima», e funzionari israeliani fornirono a Washington numerose ed allarmanti informative sui programmi irakeni per le armi di distruzione di massa.
Come disse un generale israeliano in pensione, «Israele è stato un partner fondamentale per i rapporti che l’intelligence americana e britannica hanno presentato relativamente alle capacità irakene di dotarsi di armamenti non convenzionali».   
 
I leader israeliani erano profondamente preoccupati quando il Presidente Bush decisedi cercare l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per muovere guerra all’Iraq, e tale preoccupazione aumentò quando Saddam acconsentì al ritorno degli ispettori ONU in Iraq, dal momento che tali avvenimenti sembravano ridurre le possibilità di un intervento militare.
Il ministro degli Esteri Shimon Peres disse che «la campagna contro Saddam è una priorità. Le ispezioni e gli ispettori vanno bene per gente rispettabile, ma persone disoneste possono facilmente  ostacolare tali attività».
Alle stesso tempo, l’ex primo mnistro Ehud Barak scrisse al New York Times avvertendo che «attualmente il maggiore rischio è non fare nulla».
Il suo predecessore, Benjamin Netanyahu, pubblicò un articolo simile sul Wall Street Journal intitolato «I motivi per rovesciare Saddam».
Netanyahu scrisse che «al giorno d’oggi è necessario fare niente di meno se non smantellare il regime», ed aggiunse «io credo di parlare per la stragrande maggioranza degli israeliani quando sostengo la necessità di un attacco preventivo contro il regime di Saddam».
Oppure come Ha’aretz riportò nel febbraio 2003: «i leader politici e i militari israeliani vogliono fortemente la guerra in Iraq». 
Ma come suggerisce Netanyahu, la volontà di muovere guerra non era confinata ai leader israeliani. Oltre al Kuwait, che Saddam aveva conquistato nel 1990, Israele era l’unico Paese al mondo in cui sia i politici che la gente erano entusiasticamente a favore dell’intervento.
Come il giornalista Gideon Levy osservò all’epoca, «Israele è il solo Paese occidentale i cui leader appoggiano la guerra senza riserve e non contemplano alcuna altra opzione».
Infatti gli israeliani erano così entusiasti per tale guerra che i loro alleati americano dovettero dir loro di abbassare i toni, perché altrimenti l’intervento militare sarebbe sembrato una guerra fatta per Israele.
 
Per quanto riguarda la lobby e la guerra all’Iraq, all’interno degli Stati Uniti le principali spinte verso l’intervento furono fatte da un manipolo di neocon, molti dei quali strettamente legati al partito politico israeliano Likud.
Inoltre, i principali leader delle organizzazioni legate alla lobby fecero attivamente campagna in favore della guerra.
Secondo il Forward, «quando il Presidente Bush cercò di raccogliere consensi per la guerra in Iraq, le principali organizzazioni ebraiche americane si precipitarono in suo appoggio. In numerosi interventi i leader della comunità insistettero sull’importanza di liberarsi di Saddam e delle sua armi di distruzione di massa».
L’editoriale proseguiva dicendo che «le preoccupazioni per la sicurezza di Israele hanno pesantemente influito sulle posizioni del principali gruppi ebraici».   
Benché i neocon e gli altri leader della lobby fossero entusiasti all’idea di invadere l’Iraq, la grande maggioranza della comunità ebraica americana non lo era affatto.
Infatti, Samuel Freedman ha riportato che da un sondaggio di opinione condotto dal Pew Research Center, emerse che gli ebrei erano meno favorevoli alla guerra rispetto alla media della popolazione, rispettivamente 52% contro 62%.
Pertanto, non è corretto sostenere che la decisione sulla guerra in Iraq fu influenzata della comunità ebraica.
Piuttosto, essa fu in gran parte determinata dalle pressioni della lobby, e specialmente da quelle dei suoi membri neocon.
 
I neocon stessi erano determinati a rovesciare Saddam ben prima che Bush diventasse presidente.
Essi provocarono polemiche nel 1998 pubblicando due lettere aperte rivolte al presidente Clinton dove caldeggiavano la rimozione di Saddam.
I firmatari, molti dei quali avevano stretti legami con gruppi pro-Israele come il JINSA o il WINEP, ed i cui ranghi includevano Elliot Abrams, John Bolton, Douglas Feith, William Kristol, Bernar Lewis, Donald Rumsfeld, Richard Perle e Paul Wolfowitz, non ebbero difficoltà a convincere l’amministrazione Clinton a darsi come obiettivo l’eliminazione di Saddam.
Ma i neocon non furono in grado di far accettare una guerra per ottenere tale obiettivo.
Né furono capaci di generare entusiasmo all’idea di invadere l’Iraq nei primi mesi dell’amministrazione Bush: i neocon necessitavano di un aiuto per raggiungere l’obiettivo della guerra.
E tale aiuto arrivò con l’11 settembre.
In particolare, gli eventi di quel giorno portarono Bush e Cheney a cambiare rotta e a diventare accesi sostenitori di una guerra preventiva contro Saddam.
I noecon della lobby - in particolare Scooter Libby, Paul Wolfowitz e lo storico di Princeton Bernard Lewis - ebbero un importante ruolo nel convincere il presidente ed il suo vice a muovere la guerra.  
Per i neocon, l’11 settembre fu un’opportunità formidabile per promuovere la causa della guerra in Iraq.


In un importante incontro con Bush a Camp David il 15 settembre, Wolfowitz propose di attaccare l’Iraq prima dell’Afghanistan, anche se non c’era alcuna prova che Saddam fosse implicato negli attacchi contro gli USA, ed era ben noto che Bin Laden fosse in Afghanistan.
Bush respinse tale consiglio e decise di invadere l’Afghanistan, ma la guerra in Iraq diventò comunque una seria possibilità ed il Presidente chiese agli strateghi militari di preparare piani operativi per l’invasione.
Intanto, altri neocon erano al lavoro nei corridoi del potere.
Non conosciamo ancora tutta la storia, ma pare che accademici come Lewis e Fouad Ajami della John Hopkins University abbiamo giocato un ruolo importante nel convincere il vice presidente Cheney della necessità di muovere guerra.
Le opinioni di Cheney furono inoltre pesantemente influenzate dai neocon del suo staff, specialmente da Eric Edelman, John Hannah ed anche dal capo dello staff Libby, una delle persone più potenti dell’amministrazione.
L’influenza sul vice presidente aiutò a convincere Bush all’inizio del 2002.
Con Bush e Cheney dalla loro parte, il dado della guerra era tratto. 
Fuori dall’amministrazione, i neocon non persero tempo per propagandare l’idea che l’invasione dell’Iraq fosse essenziale per vincere la guerra al terrorismo.
I loro sforzi erano mirati sia a tenere sotto pressione Bush che a superare le posizioni contrarie alla guerra sia interne che esterne al governo.


Il 20 di settembre, un gruppo di importanti neoconservatori ed i loro alleati pubblicarono un’altra lettera aperta, dicendo al presidente che «anche se non vi è evidenza di un legame diretto tra l’Iraq e gli attacchi dell’11 settembre, qualunque strategia che miri a sradicare il terrorismo ed i suoi sponsor deve prevedere un impegno risoluto a rimuovere Saddam Hussein dal potere
in Iraq
».
La lettera inoltre ricorda a Bush che «Israele è stato e rimane il più fedele alleato dell’America contro il terrorismo internazionale».
Nell’edizione del primo ottobre del Weekly Standard, Robert Kagan e William Kristol caldeggiarono un cambio di regime in Iraq immediatamente dopo la sconfitta dei Talebani.
Nello stesso giorno, Charls Krauthammer ragionava sul Washington Post che dopo aver sistemato l’Afghanistan, sarebbe stata la volta della Siria, seguita dall’Iran e dall’Iraq.
«La guerra contro il terrorismo», diceva, «si concluderà a Baghdad» quando annienteremoil «più pericoloso regime terrorista del mondo».
Queste uscite rappresentavano l’inizio di una martellante campagna per costruire il consenso a favore dell’invasione dell’Iraq.


Una parte fondamentale di questa campagna fu la manipolazione delle informazioni di intelligence, in modo da far sembrare Saddam una minaccia imminente.
Ad esempio Libby fece visita molte volte alla CIA per fare pressioni sugli analisti affinché questi trovassero prove tali da giustificare l’intervento, ed aiutò a preparare un rapporto dettagliato sulla minaccia irakena all’inizio del 2003, che fu portato avanti da Colin Powell, e contribuì a preparare il suo scellerato intervento davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’Iraq. Secondo Bob Woodward, Powell «…era sgomento nei confronti di quello che riteneva un’esagerazione e mistificazione dei fatti. Libby aveva tratto le più estreme conclusioni da informazioni parziali e frammentarie».
Sebbene Powell respinse le affermazioni più eccessive di Libby, «la presentazione davanti all’ONU fu piena di errori ed omissioni, come lo stesso Powell adesso riconosce».
La campagna di manipolazione dell’intelligence coinvolse inoltre anche sue organizzazioni che furono create dopo l’11 settembre e che rispondevano direttamente al Sottosegretario alla Difesa Douglas Feith.
Al Policy Counterterrorism Evaluation Group fu assegnato il compito di trovare quei legami tra Al Qaeda e l’Iraq che l’intelligence, secondo loro, non aveva trovato.
I suoi due membri chiave erano Wurmser, un neocon convinto, e Michael Maloof, un libanese-americano che aveva stretti legami con Perle.
All’Office of Special Plans fu assegnato il compito di trovare prove che potessero essere usate per promuovere la causa della guerra all’Iraq.
Era capeggiata da Abram Shulsky, un neocon che aveva stretti legami con Wolfowitz, ed il suo personale includeva membri di diversi «think tank» pro-Israele.
 
Come praticamente tutti i neocon, Feith è profondamente impegnato a favore di Israele.
E’ anche da lungo tempo legato al partito politico Likud.
Scrisse articoli negli anni ‘90 a favore degli insediamenti e sostenendo che Israele avrebbe dovuto tenere il controllo dei territori occupati.
Di più, assieme a Perle e Wusmer, scrisse il famoso «Clean Break» report nel giugno 1996 per il neo primo ministro israeliano Netanyahu.
Fra le altre cose, esso raccomandava a Netanyahu che «l’impegno per rovesciare Saddam Hussein dal potere in Iraq era un importante obiettivo strategico per Israele».
Lo stesso report caldeggiava iniziative di Israele per riordinare l’intero medio Oriente.
Netanyahu non mise in pratica i loro consigli, ma ben presto Feith, Perle e Wursmer chiesero all’amministrazione Bush di impegnarsi per gli stessi obiettivi.
Tale situazione fece scrivere all’editorialista Akiva Eldar di Ha’aretz che «Feith e Perle stanno camminando su una linea sottile che separa la fedeltà al governo americano e gli interessi di Israele».
Wolfowitz è ugualmente impegnato a favore di Israele.
Il «Forward» una volta lo descrisse come «il falco più favorevole ad Israele nell’amministrazione Bush» e lo premiò come persona «consapevolmente attiva per la causa ebraica».
Nello stesso periodo, il JINSA lo insignì del «Henry M. Jackson Distinguished Service Award» per aver promosso una stretta patnership tra Israele e gli Stati Uniti, ed il Jerusalem Post, descrivendolo come «devotamente pro-Israele», lo nominò «Uomo dell’Anno» nel 2003.
 
Infine, va spesa qualche parola per parlare del sostegno fornito dai neocon nel periodo precedente la guerra ad Ahmed Chalabi, esiliato irakeno senza scrupoli, presidente dell’Iraqi National Congress (INC).
Essi sostennero Chalabi in quanto costui si era impegnato per stabilire stretti legami con i gruppi ebreo-americani e per promuovere buone relazioni con Israele una volta raggiunto il potere in Iraq. Questo era proprio quanto i gruppi pro-Israele volevano sentire, e pertanto lo appoggiarono.
Il giornalista Mattew Berger espose i dettagli dell’accordo nel Jewish Journal: «l’INC attraverso il miglioramento delle relazioni si proponeva di assicurarsi l’influenza dei gruppi ebrei a Washington e Gerusalemme, e di vedere sostenuta la propria causa. Dalla loro parte, i gruppi pro-Israele speravano in un miglioramento delle relazioni tra Israele ed Iraq, se e quando l’INC avesse sostituito Saddam Hussein».
Data la devozione dei neocon per Israele, la loro ossessione per l’Iraq e la loro influenza sull’amministrazione Bush, non sorprende il fatto che molti americani abbiamo sospettato che la guerra fu fatta per favorire gli interessi di Israele.
Ad esempio Barry Jacobs dell’American Jewish Committee riconobbe nel marzo del 2005 che l’idea che Israele ed i neocon avessero dato vita ad una cospirazione per portare gli Stati Uniti in guerra contro l’Iraq era «diffusa» all’interno dell’intelligence USA.
Tuttavia poche persone la hanno manifestata in pubblico, e quelli che lo fecero, incluso il senatore Ernest Holligs ed il membro della Camera dei Rappresentanti James Moran sono stati criticati per aver sollevato la questione.
Michael Kinsley puntualizzò bene alla fine del 2002, quando scrisse che «la mancanza di discussione pubblica sul ruolo di Israele … è il proverbiale elefante nella stanza: tutti lo vedono ma nessuno ne parla».
La ragione per questa reticenza, osservò, era il timore di essere dichiarati anti-semiti.
In ogni caso, ci sono pochi dubbi che Israele e la lobby siano stati fattori determinanti per la decisione di muovere guerra all’Iraq.
Senza gli sforzi della lobby, le possibilità che gli Stati Uniti andassero in guerra sarebbero state molto minori.


John Mearsheimer e Stephen Walt


(traduzione di Sebastiano Suraci)


(continua)


(esteri, prima puntata, 31/3/2006)
(esteri, seconda puntata, 7/4/2006)
(esteri, terza puntata, 17/4/2006)
(esteri, quarta puntata, 23/4/2006)
(esteri, quinta puntata, 29/4/2006)
(esteri, sesta puntata, 8/5/2006)