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Perché i palestinesi hanno votato per Hamas

di Sergio Romano - 19/05/2006

 

Mi riferisco alla lettera sulle elezioni in Palestina e alla sua risposta «Politica estera: interesse nazionale e consenso popolare». Mi meraviglia che non ci sia alcun accenno al terrorismo praticato ieri e oggi da Hamas, che rende assolutamente improponibile un qualsiasi confronto con la Cina o altri Paesi, dittatoriali o meno. Ogni altra considerazione di ordine politico ed economico non può prescindere da una realtà basata sull’assassinio di civili innocenti!
giuliano fabrizio
 
Caro Fabrizio,
so che che la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi ha suscitato l’indignazione e i timori di una larga parte dell’opinione pubblica occidentale. L’organizzazione è responsabile di una lunga sequenza di attentati terroristici e ha uno statuto che nega la legittimità dello Stato d’Israele. Molti pensano quindi che dovremmo condannare il suo governo e negare all’Entità autonoma qualsiasi assistenza finanziaria sino a quando il movimento non avrà rinunciato al suo programma radicale. Le propongo, tuttavia, di considerare la questione da un altro punto di vista.
A differenza di altre elezioni dell’area mediorientale (in Egitto e in Iran, ad esempio) quelle palestinesi non hanno prestato il fianco all’accusa di brogli e manipolazioni. Ancor prima di manifestare la nostra indignazione per il risultato dovremmo chiederci quindi perché la maggioranza degli elettori abbia scelto Hamas. Credo che vi siano alcune ragioni, strettamente collegate. In primo luogo la politica unilaterale del governo Sharon ha escluso Mahmud Abbas da qualsiasi negoziato bilaterale e ha negato al successore di Arafat la possibilità di rivendicare, di fronte alla società palestinese, il merito di avere strappato a Israele qualche utile concessione. In secondo luogo Hamas è un movimento combattente, deciso a utilizzare per i suoi fini l’arma della violenza; ma non è corrotto, a differenza dell’apparato di Arafat, ed è anche una organizzazione assistenziale, responsabile di iniziative che hanno alleviato in questi anni le disperate condizioni della società palestinese. Chi ha votato Hamas lo ha fatto, a torto o a ragione, nella convinzione che il movimento fosse, in quelle circostanze, la sola scelta possibile.
Per l’Europa e gli Stati Uniti le scelte, a questo punto, sono due. Possiamo sostenere che i palestinesi hanno votato male e punirli per avere scelto il partito sbagliato negando gli aiuti economici con cui la comunità internazionale ha contribuito alla sopravvivenza di una società che vive da sei anni in stato d’assedio. È quello che hanno fatto sinora Washington e, con qualche attenuazione, l’Unione Europea. O possiamo fare del nostro meglio per incoraggiare quei settori di Hamas da cui provengono segnali interessanti. In un articolo apparso recentemente nella New York Review of Books («Hamas: the last chance for peace?»,«Hamas, ultima possibilità di pace?»), Henry Siegman registra questi segnali e lascia comprendere, tra l’altro, che non è ragionevole chiedere ad Hamas il riconoscimento dello Stato israeliano nel momento in cui il governo di Gerusalemme persegue una politica unilaterale, diretta a ridurre progressivamente l’estensione del futuro Stato palestinese e la libera comunicazione tra le diverse aree di cui sarà composto. Aggiungo che Siegman è un esperto di questioni mediorientali al Council of Foreign Relations, è stato direttore generale del World Jewish Congress e riflette opinioni che sono diffuse in una parte della società israeliana. Non è la «voce degli arabi». È la voce di coloro a cui sembra che la strada imboccata dall’America, dall’Ue e da chiunque persegua la linea Sharon, non porti da nessuna parte.