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Mike Davis: 'Periferie del pianeta: laboratori della rivolta'

di Miriam Tola - 21/05/2006

 
 “Planet of Slums”, l’ultimo libro del sociologo americano analizza lo sviluppo selvaggio di bidonvilles e favelas in ogni realtà urbana del mondo. Spiegando come è in questi luoghi super controllati che cresce la rabbia degli esclusi


«Un giorno del prossimo anno una donna partorirà nello slum di Ajegunle, a Lagos, un giovane uomo scapperà dal suo villaggio a ovest di Java verso le luci risplendenti di Jakarta, o un contadino trasferirò la sua famiglia impoverita in uno degli innumerevoli pueblos jovenes di Lima. La circostanza precisa è insignificante e passerà completamente inosservata. Tuttavia costituirà una svolta nella storia umana. Per la prima volta la popolazione urbana della terra sorpasserà quella rurale. Addirittura, date le imprecisioni nei censimenti del Terzo Mondo, questa transizione epocale potrebbe essere già avvenuta». Planet of Slums, l’ultimo libro di Mike Davis, nato da un saggio del 2004 uscito sulla “New Left Review” e appena pubblicato negli Stati Uniti da Verso, comincia così, con un incipit da romanzo di fantascienza catastrofica.

Dopo Città di quarzo e Geografie della paura, i rivoluzionari studi su Los Angeles, megalopoli simbolo «dell’utopia e della distopia del capitalismo avanzato», Davis sposta lo sguardo verso la proliferazione selvaggia di slums, bidonvilles e favelas, miserabili quartieri formicaio dai servizi sociali sotto zero, dove le case sono fatte con pezzi di plastica, legno e lamiere, immerse in polvere, fango e cumuli di rifiuti e, letteralmente, annegate in una mare di escrementi.

Le città trasparenti di vetro e acciaio sognate da generazioni di urbanisti si sono dissolte per lasciare spazio ad una realtà da incubo. Perfino le Nazioni Unite hanno dovuto riconoscere questo nuovo scenario in “The Challenge of the Slums”, il rapporto realizzato nel 2003 da un pool di centina di ricercatori che Davis definisce «il primo monitoraggio veramente globale sulla povertà urbana». Dal Brasile al Pakistan, dall’Iraq al Senegal, una massa sconfinata di persone si sposta verso le città. Fuggono da guerre e carestie o sperano di trovare lavoro nelle fabbriche che sfornano scarpe da ginnastica da vendere negli Stati Uniti e in Europa, o nelle discariche high tech dove si distruggono computer dismessi a colpi di martello.

Il flusso di persone è esploso con la Rivoluzione industriale in città come Manchester che ispirò a Engels il libro La condizione della classe lavoratrice in Inghilterra. Ma la novità, spiega Davis, è che oggi l’urbanizzazione è scollegata dallo sviluppo industriale e dalla crescita economica. Nel 1950 solo 86 città avevano più di un milione di abitanti, oggi sono 400. Delle 500 mila persone che migrano verso Delhi ogni anno, 400 mila finiscono negli slum. In Africa la situazione è ancora più estrema: in Etiopia e Ciad il 99,4% della popolazione urbana vive in aree povere. Le cifre sono di poco più basse in Afghanistan, Tanzania e Bangladesh.

«Gli attuali mega-slums sono stati in gran parte creati negli anni Settanta e Ottanta - ha spiegato Davis in un’intervista - Prima degli anni Sessanta il problema era: perché le città del Terzo Mondo crescono così lentamente? Allora, in effetti, c’erano enormi ostascoli istituzionali all’urbanizzazione. Gli imperi coloniali restringevano ancora l’ingresso alle città, mentre in Cina e in altri paesi stalinisti un sistema interno di passaporti controllava i diritti sociali e la migrazione. Il grande boom urbano è arrivato negli anni Sessanta con la decolonizzazione. Ma all’epoca gli stati affermavano di poter giocare un ruolo chiave nel fornire case e infrastrutture. Negli anni Sessanta, lo stato ha cominciato a ritirarsi e, durante gli anni Ottanta, l’era degli aggiustamenti strutturali, c’è stato l’arretramento in America Latina e in Africa. Nel frattempo le città sub-Sahariane crescevano ad una velocità superiore a quelle delle città industriali vittoriane nei periodi di boom ma, nello stesso tempo, non creavano lavoro».

In sostanza, secondo lo studioso americano, le politiche neoliberiste imposte da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale sono la chiave per capire l’irrefrenabile espansione delle megalopoli. I tagli alle spese sociali, l’ondata di privatizzazioni e l’eliminazione di sostegni all’agricoltura e delle tariffe protezionistiche in nome della competizione, hanno accelerato il collasso delle economie rurali e creato le condizioni per l’esodo di massa in città senza infrastrutture. La reazione delle elites del Sud del mondo all’assedio degli slums non è troppo diversa da quella dei ricchi di Los Angeles descritta in Città di quarzo: i segmenti poveri della popolazione sono criminalizzati e la middle-class globale si rinchiude in enclave militarizzate, disegnate sul modello della California del Sud. Così, alla periferia del Cairo troviamo un’area chiamata Beverly Hills e a Pechino i nuovi ricchi comprano appartamenti a Orange County, quartiere dal nome rubato alla culla californiana degli imperi Disney e McDonald’s. Ancora più inquietante il nome scelto per la città nella città costruita a nord-est di Sao Paolo: si chiama Alphaville come la metropoli aliena del film di Godard, governata da un computer che impazzisce. Contiene uffici, un centro commerciale ed è sorvegliata da un esercito di ottocento guardie private.

Quando l’opzione fortezza non risponde agli obiettivi, ne resta un’altra più radicale: distruggere gli slum e deportare gli abitanti. Accade in Cina dove, in vista delle Olimpiadi di Pechino del 2008, secondo la Asian Coalition for Housing Rights, 350 mila persone saranno costrette a spostarsi per fare spazio a uno stadio.

Negli slum la sopravvivenza è legata ai circuiti dell’economia informale, al lavoro servile, alle reti criminali, ai mercati illegali del sesso, della droga e degli organi. Ricordate le bande di piccoli assassini di City of God, la pellicola di Fernando Meirelles su Ciudad de Deus, la favela alla periferia di Rio de Janeiro? La loro spettacolare violenza, esibita col sorriso sulle labbra a ritmo di samba, è consolante in confronto al cupo scenario offerto da Davis. Piuttosto, gli adolescenti affamati, armati e inneggianti ad Allah di Sadr City, periferia sciita di Baghdad, sembrano l’incarnazione perfetta della condizione delle vite precarie negli slum del pianeta. Non a caso, sottolinea Davis, verso la fine del libro, gli scenari di guerra previsti dal Pentagono descrivono le distese di catapecchie come terrero dei prossimi combattimenti. Nel 1993, dopo la catastrofica battaglia di Mogadiscio (ricostruita da Ridley Scott nel film Black Hawk Dawn), l’apparato militare americano ha lanciato nuovi programmi per addrestrare i soldati ad affrontare il nemico nelle strade degli slums. «Notte dopo notte - leggiamo nell’ultima, nerissima, pagina del libro - elicotteri armati a forma di calabrone danno la caccia a nemici misteriosi nelle strette strade degli slums, investendo con una pioggia di fuoco infernale catapecchie e auto in fuga. Ogni mattina lo slum risponde con uomini bomba ed esplosioni eloquenti. Se l’impero può dispiegare tecnologie di repressione orwelliane, i marginali hanno il dio del caos dalla loro parte».