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In nome del cosiddetto progresso stiamo uccidendo la nostra parte migliore

di Francesco Lamendola - 26/11/2010




Un tempo non tanto lontano, diciamo meno di due generazioni fa, la vita delle persone era ancora piena di piccoli, grandi segni che ne sviluppavano la parte migliore: la fantasia, la sensibilità, lo stupore davanti al mondo, la “pietas” verso gli altri e verso i defunti.
All’avvicinarsi della ricorrenza di Santa Lucia o del Natale, i bambini scrivevano una letterina in cui tracciavano un bilancio del proprio comportamento morale, si proponevano di migliorarlo e chiedevano, trepidando, il giocattolo tanto a lungo sognato: non lo pretendevano; lo domandavano, pur consapevoli di non averlo pienamente meritato.
Era una lezione di umiltà verso se stessi e un avviamento alla chiarificazione interiore. Era anche un esercizio di bello scrivere. Infine era uno stimolo alla creatività e allo sviluppo del senso estetico, perché quella letterina, che costituiva un vero e proprio evento nella vita del bambino, veniva abbellita da disegni e decorazioni che ne facevano un piccolo capolavoro di inventiva e di capacità artistiche.
Poi sono venute le letterine natalizie già belle e pronte: si compravano in cartoleria e avevano già tutti i disegni e le decorazioni; bastava scrivere il testo.
Da ultimo è scomparsa anche la letterina, così come sono scomparsi Santa Lucia e Gesù Bambino. I giocattoli li portavano direttamente i genitori, senza che il bambino avesse fatto niente per meritarseli: così, in omaggio al consumismo dilagante.
Un altro esempio.
All’epoca di cui stavamo parlando, presso molte famiglie era diffusa una pia e dolce tradizione: quella di lasciare un bicchier d’acqua sul tavolo della cucina, alla sera, la vigilia del 2 novembre, il giorno della ricorrenza dei morti. Quell’acqua era destinata a dissetare le anime del Purgatorio che, la notte, sarebbero venute a bere.
Un residuo di superstizione, una scoria dei tempi magici che la scienza moderna ha dissipato? Certo, può darsi. Ma se anche fosse?
Non era una tradizione utile, oltre che poetica, dal momento che contribuiva a tenere sempre frequentato il sentiero spirituale che collega i vivi ai morti, mentre oggi quel sentiero si sta ricoprendo inesorabilmente di erbacce, dato che nessuno più lo percorre?
Potremmo continuare a lungo con esempi del genere, ma crediamo di aver reso l’idea di quel che vogliamo dire.
In genere, nel rendere ragione della scomparsa di tali gesti, come quello di rendere grazie per il cibo quando ci si mette a tavola, o di benedire una persona che esce di casa per affrontare un viaggio, si risponde - se pure si ritiene di dover dare una spiegazione - che è giusto liberarsi dei residui del passato, dato che viviamo in un mondo ove la scienza, la tecnica e l’economia marciano sempre più in fretta.
Gira e rigira, quindi, è sempre la solita, eterna ideologia del progresso illimitato, che dovrebbe spiegare tutto, giustificare tutto, rendere ragione di tutto. Che cosa volete farci, è il progresso; e non si può mica andare contro il progresso, questo è certo…
Eppure, basta una riflessione anche abbastanza frettolosa per rendersi conto che le cose stanno altrimenti; che questa è solo una spiegazione che si dà «a posteriori» per illudersi di avere ancora il controllo della situazione; mentre è vero il contrario: che questo cosiddetto progresso è sempre più simile a una locomotiva lanciata a tutta velocità, senza macchinista e senza freni, lungo un binario morto.
Allo stesso modo in cui sono scomparsi i gesti gentili, le parole buone, i simboli del nostro legame con la realtà soprannaturale, così stanno scomparendo i popoli, le lingue, le culture; così stanno scomparendo le specie vegetali e animali, a un ritmo sempre più vertiginoso; così stiamo entrando, a vele spiegate (si fa per dire), nel paradiso della modernità.
Vorremmo convincerci che tutto questo sia frutto di un piano preordinato  e che, sì, vi sono forse degli effetti collaterali non previsti, ma insomma, nel complesso, gli aspetti positivi prevalgono immensamente, senza possibilità di paragone.
Non è forse vero che tante malattie sono state domate (ma altre ne sono comparse); che la vita umana si è allungata (ma solo la durata media); che le comodità e il benessere si sono largamente diffusi (ma solo in una parte dell’umanità e a prezzo di tensioni e nevrosi ogni giorno crescenti)? E dunque, come dubitare della bontà del progresso?
E poi, il progresso non si giudica: è un valore evidente in se stesso; chiunque lo metta in discussione deve soffrire di qualche disturbo mentale. Meno male che c’è una scienza nuova di zecca, la psichiatria, per curare questi individui sempre scontenti, inspiegabilmente ingrati e potenzialmente pericolosi per l’intera società.
In Unione Sovietica si ricorreva alla psichiatria per “curare” quanti non gradivano le meraviglie del socialismo reale; e il marxismo, a ben guardare, non era che una delle tante forme di adorazione del Progresso, una delle tante ideologie uscite dalla nobile e altruistica convinzione illuminista (e positivista) che la ragione serva per portare la felicità a tutti, sia che lo vogliano, sia che non lo vogliano…
I contadini della Vandea, per esempio, non volevano un tal genere di felicità: volevano tenersi i loro preti, le loro superstizioni e, «horribile dictu», i loro signori; insomma volevano la tradizione e l’ancién régime: ragion per cui gli eserciti repubblicani francesi, in nome della Dea Ragione e della felicità, ne sterminarono circa un milione.
Ma che cosa è mai un milione di cafoni della Vandea, davanti alle “magnifiche sorti e progressive” della modernità? Che cosa sono mai otto milioni di contadini russi, a fronte della creazione di una industria pesante nel volgere di pochi anni e, nello stesso, della totale distruzione della proprietà privata rurale, eterno focolaio di reazione e di superstizione?
Il fatto è che, in nome del cosiddetto progresso, che poi è soltanto brutale sviluppo materiale, stiamo uccidendo la parte migliore di noi stessi: quella che sogna e si stupisce; quella che loda e ringrazia; quella che si sente collegata a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che vive, a tutto ciò che respira: cominciando con la Terra, «sora nostra matre Terra», come la chiama San Francesco nel sublime «Cantico delle creature»: sorella e madre al tempo stesso.
Noi non ci stupiamo più di nulla: sappiamo che la scienza ha una risposta per ogni cosa; né ringraziamo più per tutto ciò che la vita ci offre: non si tratta di un dono, ma una preda e, conquistandola, non facciamo che esercitare un nostro diritto.
Un tempo non troppo lontano, i mandarini sulla tavola erano, per i bambini, un gradito dono del Natale; anche le mele erano un dono, anche il pane caldo appena sfornato era un dono. Quei bambini sapevano quanto lavoro era costato il pane e sapevano che senza il sole, senza la pioggia, senza il vento, non ci sarebbero stati mandarini sulla tavola, né mele, né pane…
I bambini di oggi protestano se in tavola non ci sono i frutti fuori stagione; se non ci sono i dolci confezionati di produzione industriale; se non c’è la Coca Cola. Non si stupiscono più per le piccole  cose, non si sognano nemmeno di ringraziare qualcuno o qualcosa.
Non è certo “colpa” loro.
I loro genitori li hanno cresciuti così; e, se non i genitori, la televisione, il cinema, il computer, l’esempio dei compagni e delle loro famiglie.
Eppure, nella vita del singolo così come in quella delle società, sono soprattutto i piccoli gesti quotidiani, sono soprattutto i pensieri di ogni giorno che costruiscono, lentamente ma immancabilmente, i valori intorno ai quali la vita e il mondo trovano un significato; sicché, aver lasciato scomparire quei gesti e quei pensieri non può che produrre un vuoto esistenziale nel quale subito tendono ad introdursi le male piante dell’edonismo, dell’egoismo, dell’indifferentismo.
Suvvia, dirà qualcuno, non esageriamo: dopotutto, si trattava semplicemente di simboli.
Vero, verissimo; ma i simboli non sono un di più, non sono un fronzolo o un abbellimento; i simboli rivelano l’anima stessa della vita, tanto individuale che collettiva, qualora formino una rete armoniosa e coerente tessuta dal susseguirsi delle generazioni.
Un individuo e una società che abbiano smarrito il linguaggio dei simboli, hanno con ciò smarrito sia le proprie radici, sia il senso del proprio destino; ed è inevitabile che vadano incontro al nulla, cioè all’autodistruzione. Poco importa se ci vanno col sorriso sulle labbra.
Questo è il pericolo che attualmente ci sovrasta.
Non la crisi economica, dalla quale ci si può riprendere; non la guerra mondiale, dalle cui ceneri  si potrà ricominciare; e nemmeno la catastrofe ecologica, che pure servirà ad insegnare ai sopravvissuti la strada di un nuovo inizio.
No: il pericolo mortale è la perdita delle radici e la perdita del senso circa il proprio destino; diremo meglio: la perdita dell’idea del destino. Al destino subentra il caso; a una visione organica del mondo, subentra una visione meccanica; a un modo di porsi qualitativo, subentra un modo di porsi puramente quantitativo.
Il mondo vivo, elastico, malleabile, del destino e del simbolo, viene gradualmente sostituito da un mondo rigido, solidificato, morto, ove una tecnica senz’anima celebra i suoi ultimi, spettacolari trionfi, in una luce corrusca da apocalisse.
Dobbiamo fare molta attenzione.
Il mondo si regge anche sul piccolo gesto quotidiano di ringraziare il Cielo per il nostro nutrimento, di ringraziare la Terra per i beni che ci elargisce, e di benedire il figlio che esce di casa, andando incontro al suo destino di adulto.
Questa rete di simboli ci teneva legati in una unità organa ed impediva che le forze individualistiche dell’egoismo sfrenato ci conducessero all’autodistruzione.
Il gesto pietoso rivolto ai nostri cari defunti ci teneva legati al mondo dell’Aldilà e consentiva alle anime di coloro che ci hanno preceduti di agire positivamente su di noi, proteggendoci dalle conseguenze di un materialismo cieco e distruttivo.
Un tempo si insegnava ai bambini che accanto ad ognuno di essi vi è una Presenza benevola, un Angelo custode che ne sorveglia affettuosamente i passi e che gli fa scudo contro le energie malefiche in agguato sulla sua strada.
Era solo una favoletta edificante? Non lo crediamo.
Le forze del Bene esistono, e così quelle del Male; e la loro azine sul mondo fisico è tanto certa, quanto lo è quella degli agenti atmosferici o della realtà storica.
Tuttavia ben diversa è la condizione di una umanità che ignora questa rete di presenze spirituali e che fa affidamento solo e unicamente sulle proprie forze; che spesso, anzi, tende a stringere un patto scellerato con le forze del Male, in cambio di potere e successo.
Tale è la nemesi dell’uomo moderno, dell’uomo faustiano: colui che stringe un patto col Diavolo, vendendogli la propria anima  in cambio di un dominio sempre più spietato sulla natura e sul mondo delle cose.
I gesti volgari e insultanti, le smorfie di irrisione, le parodie del sacro che oggi imperversano ed il cui pessimo esempio giunge, sovente, proprio da parte delle persone più in vista, magari da quelle che ricoprono ruoli istituzionali, hanno sostituito i gesti benedicenti e le parole di fede e di carità che, un tempo, accompagnavano la vita umana.
Tutto questo è il prodotto di una modernità che ha smarrito le strade dell’anima; che, anzi, ha smarrito perfino la coscienza di possedere un’anima, e quindi di possedere una vocazione ed un destino soprannaturali.
In cambio, abbiamo eretto i nuovi altari alla Ragione, alla Scienza, alla Tecnica, al Progresso.
Da ultimo, li abbiamo eretti solo al nostro sfrenato egoismo e alla nostra superbia luciferina.
E poi, che cosa ne sarà di noi?