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Una folata di islamofobia percorre l’Europa

di Vincenzo Maddaloni - 02/12/2010

Fonte: vincenzomaddaloni


Il referendum svizzero contro i minareti, sta alimentando un’onda di intolleranza nei confronti dell’Islam in tutta Europa. Accade dopo un anno dal referendum che aveva visto il 57,5 per cento della popolazione svizzera votare contro la costruzione dei minareti nel proprio paese. Di nuovo il Comitato, l’Egerkingen Kommittee,  s’è mosso con il lancio di un nuovo manifesto che suona come un ultimatum. Infatti, i minareti vengono ora descritti come “”un simbolo di un imperialismo politico-religioso che, in nome d’una rivendicata libertà religiosa, contesta i diritti fondamentali degli altri, al punto d’entrare in conflitto con la Costituzione e con il regime giuridico svizzero”. Poi si  condannano il burqa, i matrimoni forzati e ogni punizione corporale contemplata dal Sacro Libro. Infine si avverte ogni musulmano che, “auspica di farsi naturalizzare”, di restare fedele alla Costituzione federale, alle sue leggi e alle sue regole,  altrimenti gli verrà tolto il passaporto rossocrociato.

Così gli svizzeri hanno di nuovo reso il “problema” incandescente, dopo che olandesi e danesi avevano denunciato – anch’essi un anno fa – che in Europa esiste un crescente disagio nella coabitazione con i musulmani. Dopo che (qualche settimana fa) il Belgio ha  imposto  il divieto di indossare il burqa  nei luoghi pubblici, mentre la Francia lo ha proibito in ogni luogo del territorio nazionale. L’Italia invece ha cominciato a muoversi prima, nel 2008,  quando la Lega Nord ha chiesto l’obbligo di costruire le moschee ad una distanza di almeno un kilometro dalle chiese. Sebbene tale richiesta non sia mai divenuta legge, in Italia è assai difficile ottenere il permesso per costruire i luoghi del culto islamico.  

Tuttavia, di fronte al nuovo e diffuso malessere europeo ci sono diverse maniere di reagire. Infatti,  sebbene la maggioranza dei tedeschi ritenga che i quattro milioni di musulmani presenti sul territorio   rappresentino ”un peso economico” per il Paese come rivela un sondaggio dell’Allensbach Institute for the Financial Times Deutschland, Angela Merkel si è limitata ad augurarsi che l’altezza dei minareti delle moschee non superi quella dei campanili delle chiese tedesche. Insomma, se da una parte il 55 per cento dei tedeschi pensa che i musulmani ”dal punto di vista sociale ed economico costino molto di più di quanto producano” dall’altra parte la  Cancelliera  ha preferito non soffermarsi sui numeri e nemmeno sulle caute considerazioni delle comunità musulmane, tuttavia ha rifiutato quei simboli le possano far apparire dominanti. Un altro segnale che la recrudescenza dell’islamofobia è un problema reale, un problema temuto.

Non è così per gli svizzeri, o per essere precisi, per la maggioranza di loro secondo la quale è il simbolo stesso della presenza musulmana che deve scomparire, va eclissato. Beninteso non siamo ancora  al clash of civilization, allo scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington, professore di Harvard e consigliere del Pentagono. Il quale avvertiva che “nell’epoca che viviamo, gli scontri tra civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale”. Anche perché un segnale, che ingenera un cauto ottimismo, sembra arrivare dalle élites musulmane europee. Le quali in più di un’occasione hanno ribadito la propria volontà di procedere per tappe, per garantire un’integrazione meno traumatica delle minoranze islamiche all’interno delle società europee.

Stando così le cose, determinante diventa lo scenario polacco dove il Centro culturale islamico di Varsavia, di recente costituzione, “vuole lavorare per costruire ponti con il resto della società polacca” come scrive la Deutsche Welle. Inoltre, informa  che in Polonia la comunità musulmana è fiorente,  ed è composta “soprattutto da immigrati provenienti dalla Siria, dall’Iraq e dalla Libia” perché – spiega -  essi sono “attratti dalla presenza della Polonia all’interno dell’Unione Europea”. Si tenga però a mente che sebbene i musulmani polacchi costituiscano appena l’ uno per cento della popolazione, il che equivale a circa trenta – quaranta mila  persone,  anche in Polonia divampa la discussione sull’Islam. A scatenarla è stata appunto la costruzione nella capitale del centro di cultura musulmana, in cui oltre ad una biblioteca con una sala multimediale, una galleria d’arte, ristoranti e negozi, sarà costruita anche una sala di preghiera. Quel che soprattutto non  piace, nella cattolicissima Polonia, è sapere che il Centro ha ricevuto dai sauditi i finanziamenti  per costruire una moschea nel quartiere Ochota a Varsavia. Lo riprova anche  la protesta organizzata dall’associazione Przyszłość Europy (Il Futuro dell’Europa) nel marzo di quest’anno, nel giorno dell’inaugurazione del cantiere.

Quel che solleva scandalo – s’è detto- quel che fa gridare – “No alle moschee in Polonia”, “La tolleranza non è ingenuità” -  sono i bonifici dei sauditi, non il timore di un proselitismo islamico. Dopotutto, nella cattolicissima Polonia  ci sono già tre moschee. Due vecchi edifici nella regione del Podlasie, a Kruszyniany e a Bohoniki, che hanno più di 150 anni, e la moschea di Danzica, data in concessione per l’uso nel 1990. A Varsavia, invece, c’è solo una piccola sala di preghiera, come in molte altre delle principali città polacche del resto. Questo è accaduto perché  i musulmani che si erano stabiliti in Polonia dopo la Seconda Guerra Mondiale erano prevalentemente degli studenti, attratti dalla possibilità di studi poco costosi e favoriti dagli accordi tra gli Stati membri del Patto di Varsavia e i paesi musulmani stessi. Moltissimi di costoro misero su famiglia e qui si fermarono.

Dal 2004, da quando la Polonia è nell’Ue, è comparsa una nuova tipologia d’immigrazione, simile a quella degli altri Stati europei. Sono persone (sempre di più) che cercano migliori condizioni di lavoro nei settori del commercio e della ristorazione. E’ un fenomeno che i mass media polacchi descrivono, con una punta d’orgoglio, come “ un’ ulteriore tappa di avvicinamento della realtà polacca a quella dei paesi dell’Europa Occidentale”. Naturalmente,  non si sollevano problemi di Fede, soprattutto adesso che la Polonia – con la presidenza di turno della Ue che inizierà a luglio 2011 –  ha un’altra importante occasione per  rafforzare il proprio peso all’interno della Ue e guadagnare lustro sullo scenario internazionale. Infatti, la gestione della presidenza sarà un’operazione diplomatica di considerevole spessore. Essa richiederà, oltre ad una ampia capacità negoziale, la organizzazione di circa 150 summit ministeriali e di esperti di vari settori che dovranno svolgersi in diverse città del paese, a cui si aggiungono alcuni grandi eventi come le Giornate Europee di Sviluppo e i summit extraeuropei.

Va pure ricordato che la presidenza polacca ha incentrato l’agenda non soltanto sui temi economici, ma anche su quelli sociali. Il presidente polacco Komorowski ha affermato che l’ufficio di presidenza della repubblica polacca si trasformerà in un centro di riflessione sul futuro della Europa unita. Sarà inoltre promosso un dibattito pubblico su come rafforzare la crescita e migliorare la società da qui al 2030, non soltantoo al 2020 come chiede la Ue.  Stando così le cose la Polonia potrebbe giuocare un ruolo decisivo per  smorzare l’ondata di intolleranza nei confronti dell’Islam.  Una ruolo di controtendenza dopo che la Francia (settembre 2010) è diventata il primo Stato europeo a censurare il burqa su tutto il territorio nazionale.

Dopotutto se i polacchi, come da più parti si sostiene, è il popolo più cattolico d’Europa,  essi – più di ogni altro popolo – dovrebbero tenere in gran conto che: “credenti e comunità religiose, sulla base della loro fede in Dio, hanno un ruolo specifico da svolgere nella società, su un piano di parità con gli altri cittadini”. Lo afferma un comunicato congiunto del Centro per il dialogo interreligioso dell’Organizzazione per la cultura e le relazioni islamiche (Icro) di Teheran e del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, rappresentato nei giorni scorsi nella capitale iraniana dal suo presidente, il cardinale Jean Louis Tauran.  Si aggiunga pure che il presidente del Pontificio consiglio dei migranti, monsignor Antonio Maria Vegliò, ha spiegato di essere «sulla stessa linea dei vescovi svizzeri», i quali hanno espresso forte preoccupazione per quel manifesto del comitato di Egerkingen che hanno definito «un duro colpo alla libertà religiosa e all’integrazione».

Così da una parte ci sono i proclami con le intenzioni, i proponimenti pacifici e perciò rassicuranti. Dall’altra parte rimane il consigliere nazionale Ulrich Schlüer (UDC/ZH) che a nome del comitato anti-minareti, continua a contestare ogni competenza  della Corte europea dei diritti dell’uomo chiamata a pronunciarsi sulla la validità del testo del referendum, accettato dal 57,5 degli svizzeri che hanno votato il 29 novembre 2009. Beninteso è soltanto una minoranza, quanto però basta per riversare il “problema” su tutto il continente. Sicché affermare che la salvaguardia della pace sociale in Europa, nonché dei principi di integrazione,  attraversa oggi “un assai brutto momento”,  non è affatto un’esagerazione.