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America, che macello

di Mariuccia Ciotta - 25/05/2006

 
L'hamburger, da simbolo a poltiglia di carne e sterco, in «Fast Food Nation», in Concorso. Ancora paranoie del dopo 11 settembre in «Bug» di William Friedkin

Can I trust? Posso fidarmi? Tutti se lo chiedono scoperchiando il panino con gli occhi puntati sulla poltiglia di carne e senape di Fast Food Nation, il film in concorso di Richard Linklater, 46enne di Houston, regista di Before Sunrise. Insieme allo Steve Soderbergh di Bubble, Linklater usa una cinepresa-metaldetector di immagini, mostra le icone gigantesche della realtà che di solito sfuggono come i cartelloni stradali sull'autostrada. Una variante del metodo Michael Moore, l'autore-corpo che assicura la «verità». Invece in Fast Food Nation la forma delle cose emerge in un percorso oscillante, l'occhio si posa ai margini della storia, devia e poi torna sull'oggetto.

L'hamburger. Sapore degli anni '50 quando nacque in California dentro spazi irreali, già simbolo, pop-art, segno di pura fantasia, contrassegno dell'America come le palme di Hollywood. Gioioso medaglione con il ketchup di Warhol e le patatine fritte, gioielli di plastica... Perché hanno messo della merda di mucca nell'hamburger? L'interrogativo si estende a molti altri simboli americani, non c'è più da fidarsi. Moore, Soderbergh, Linklater non sono agit-prop, semplicemente «vedono», fanno cinema.

Fast Food Nation è la visione di un best-seller davvero speciale, il libro di indagine giornalistica di Eric Schlosser, che ha fatto infuriare le grandi catene tipo McDonald, passato all'easy-meals, dopo la rinuncia alla maxi-polpetta criminale, grazie anche a film-denuncia come Super Size Me.

Schlosser ha scritto la sceneggiatura con Linklater, e, seguendo il percorso del libro, il film zigzaga intorno all'agglomerato di carne, dove un'analisi di laboratorio non ufficiale ha rilevato parti consistenti di materiale fecale. Un diligente dirigente della Mickey's (allusione al famoso Topo, ma nel frattempo la nuova Disney ha deciso di rompere con McDonald) interpretato da Greg Kinnear, parte alla volta del Colorado per ispezionare la fabbrica di hamburger.

Contemporaneamente, un gruppo di messicani passa la frontiera e viene imbarcato su un camion alla volta dello stabilimento che macina a super velocità carcasse bovine.... Fast food e Fast work, tanto fast che ogni tanto un braccio dei lavoratori inesperti e illegali finisce negli ingranaggi.

Linklater ci porta in fabbrica come a una visita degli Studios Universal, dietro il film, là dove ci piace andare per scoprire come nascono i sogni. E nel viaggio ci indica le divinità Usa: Wal (stellina) Mart, i grandi magazzini dedicati ai poveri, come i Fast Food, le splendenti gippone Suv, i drugstore, i driver, la grande «m» gialla, l'insegna di Taco Bell... e i divi in carne ed ossa, anche loro «prodotti tipici» del posto. Ethan Hawke, Patricia Arquette, Kris Kristofferson, e un Bruce Willis nella parte di se stesso. Splendida la sua tirata da bushiano in faccia all'ispettore della Mickey's, riferendosi ai messicani, trattati appunto come carne da macello: «Ammiro questa gente, lavora duro per migliorare la propria esistenza...».

Le buone intenzioni del rappresentante della Mickey's evaporano, in gioco è la sua carriera, continuerà a promuovere il Little Big One, prodotto n° 1 - merda a parte - della corporation, sinistra assonanza al Little Big Horn.
Convergono verso la scena clou «non aprite quella porta» i tanti personaggi di questo film corale. Un gruppo di adolescenti situazionisti no-global e no-Patriot Act, ex inservienti al fast food, o usciti direttamente dall'opera prima di Linklater, Slackers, che decidono di liberare i buoi, ammucchiati in spazi transennati su terra brulla.

Una sequenza mozzafiato sorvola i chilometri di bestie immobili sotto il sole, chiuse nei lager del Colorado. Le ragazze messicane palpate, sedotte e violentate dal capetto-macho. I ragazzi messicani che finiranno feriti e mutilati, senza copertura sanitaria... L'hamburger si fa indigesto, non è più l'invenzione del secolo, il cibo da 1 dollaro, è la metafora concreta di un sistema criminale che si nutre dei suoi stessi scarti.

L'America non è solo popolata di poveri, è povera. La porta proibita di Linklater si aprirà sul mattatoio dove scorrono ruscelli di sangue, e l'occhio della mucca, che non ha avuto il coraggio di scappare, ti guarda mentre la sgozzano, dove l'operaio messicano viene triturato dalla macchina che poi sforna la bellezza in persona, tanti armoniosi hamburger rosa destinati alle pance di tutto il mondo, danzanti sul tapie roulant.

Neppure William Friedkin, il regista dell'Esorcista, si fida più della sua America del dopo 11 settembre. E non è certo un rosso. Paranoia alle stelle in Bug (Quinzaine des realisateurs), violentissimo, visionario, insostenibile. Un'esperienza shock che apre un'altra porta infernale, quella della mente di un ex soldato della guerra del Golfo, convinto di aver fatto da cavia per orrendi esperimenti militari. Qualcuno gli ha iniettato sotto-pelle larve di insetti intelligenti, controllori della psiche, variante del chip nel cervello di Manciuran Candidate.

Torna il sospetto, gli americani stanno perdendo le libertà una a una. Prima gli immigrati, poi i wasp. Gli States vivono in un eterno copri-fuoco, la guerra è in casa. Tratto dalla pièce off-Broadway di Tracy Letts, Bug è un claustrofobico film di un solo atto, tutto dentro la stanza degradata di un motel, insieme a una magnifica Ashley Judd e al protagonista dello spettacolo teatrale, Michael Shannon, il marine impazzito, l'amante dolce della donna sola che deve difendersi da un ex marito violento, e che ha perduto il figlioletto, rapito al supermarket. Due solitari abbarbicati l'uno all'altra in un delirio crescente, allucinazioni visive e sonore, autolesionismo, e presenze impalpabili di insetti perforanti. Friedkin supera ogni livello di pietà per noi e per loro, e affonda nel sangue dei denti che il marine si strappa dalla bocca come per togliersi l'infezione profonda che ammala corpi e anime. Un film «affettuoso» verso chi percepisce ogni dolore impercettibile, compreso il morso di una pulce, e che si sente vittima di un big complotto, di un big hamburger, di una big ingiustizia. Tutti gli altri, in sala, ridevano.