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Emilio Salgari, una produzione grandiosa e un destino avverso

di Pino Cacucci - 03/01/2011

L’eroe dell’anti-colonialismo che morì suicida in povertà


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Q uanti erano? Di preciso, non lo sapeva neppure lui, che ormai teneva il ritmo di tre romanzi all’anno, ma dovevano essere almeno un’ottantina, i libri pubblicati, più un centinaio di racconti sparsi… A metterle insieme, tutte quelle pagine scritte, avrebbe potuto costruirci un castello di carta. Milioni di parole al vento, pensò. A cosa è servito? Ad accumulare debiti, frustrazioni, amarezze, senza neanche poter garantire un avvenire ai figli. E l’amata, adorata Aida, che vegetava in un manicomio, con la mente smarrita e lo sguardo vacuo… Troppo, davvero troppo, da sopportare: la vita era stata crudele e spietata, con lui, perché le traversie le aveva affrontate con dignità e tenacia, senza mai arrendersi, anche a costo di imporsi quelle tre pagine al giorno— e cento sigarette per poterle scrivere— caschi il mondo, domeniche comprese, che raddoppiavano per rimettersi in pari se un malanno lo costringeva a letto, con la testa che scoppiava e il corpo scosso dai brividi delle febbri… qualsiasi cosa, ma non l’Aida in manicomio, no, questo alla vita non lo poteva perdonare. E allora… fu più la rabbia che l’abbandono: recidere la vita infame con un gesto furioso, di implacabile disprezzo. Scrisse una lettera ai figli, Omar, Nadir, Romero e Fatima: «Figlioli, vado a morire, voi sapete dove, poiché è sul colle ove andavamo a cogliere i fiori. Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire e un credito di altre 600…» . Poi ne scrisse una agli editori: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna» . Uscì con un rasoio in tasca. Raggiunse le colline nei dintorni di Torino, e si squarciò il ventre e la gola. La fantasia gli aveva permesso di creare personaggi eroici, la realtà lo condusse a una fine da protagonista di memorabili avventure che non accetta la resa al nemico: un harakiri colmo di rancori. Era il 25 aprile del 1911. A soli 49 anni lasciava una mole di opere destinate a propagarsi in tutto il mondo e a far sognare generazioni di giovani lettori che su quei romanzi avrebbero scoperto luoghi esotici ignorando — almeno i suoi contemporanei — che l’autore non si era mai mosso dall’Italia, e tutti i perigliosi viaggi si limitarono a qualche traversata dell’Adriatico. Ma la capacità di immaginare situazioni lontane nello spazio e nel tempo fu unica e irripetibile, perché Salgàri sapeva assorbire attraverso le letture ambientazioni e usanze di popoli sconosciuti, gli bastavano atlanti e carte nautiche per descrivere mari, arcipelaghi e giungle, ma, soprattutto, era in grado di narrare l’avventura con coinvolgente immedesimazione negli eroi che ingaggiavano lotte strenue contro avversari poderosi, forse senza neppure rendersi conto di trasmettere un messaggio «politico» : perché in fin dei conti il nemico era spesso il colonialismo, nelle sue varie forme. E nonostante la fervida fantasia, non poteva lontanamente presagire che a distanza di tanti anni, nel continente latinoamericano avrebbero considerato i suoi romanzi come esempi di «letteratura antimperialista» … O almeno così ritiene Paco Taibo II, che gli attribuisce persino un alto valore educativo: «Un ragazzo che legge Salgàri, da adulto non potrà essere razzista» . E Luis Sepúlveda racconta che suo nonno, anarchico andaluso emigrato in Cile, organizzò il primo circolo di letture delle opere salgariane come sorta di seminari libertari. In Italia nessuno colse questo singolare aspetto di «alfiere dell’anticolonialismo» , anzi: ignorato dai critici, ottenne successi effimeri con i cicli dei pirati della Malesia e dei corsari delle Antille, ma sempre considerato come autore di pura evasione, anche se, in effetti, molti genitori non vedevano di buon occhio le sue avventure intrise di violenza contro potenti e sfruttatori, e poco dopo la sua morte, un sondaggio rivelò che tanti giovani lo leggevano di nascosto, perché secondo mamma e papà Salgàri «eccita i nervi» o «scalda la testa» . E nell’Italia a cavallo dei due secoli, non si volevano ragazzi teste calde e per giunta innervositi da letture eccitanti. Crudele beffa del destino, far sognare gli altri, arrivando addirittura a «eccitarli» , mentre si conduce un’esistenza da forzato della penna, oberato di debiti e stretto nella morsa di editori rapaci: «La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedirle agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere» , si sfogava con l’amico pittore Gamba, nel 1909. E intanto Ida Peruzzi, che aveva sposato nel 1892, e che lui chiamava Aida, unico sostegno al suo affanno, smarriva il senno e lo lasciava solo in quella realtà desolata. Vivevano a Torino, ma lui amava ancora le colline della Valpolicella dove era cresciuto, terra fertile per le vigne che donano il vino prediletto di Hemingway, terra di antiche tradizioni che non lo ha dimenticato e in tempi recenti ha visto nascere appassionati comitati, la rivista «Ilcorsaronero» e un premio biennale per la letteratura avventurosa, e la Ca’ Salgàri è sempre lì, nelle campagne di Negrar, accogliente e semplice nella sua bellezza d’altri tempi, con i cipressi alti e dritti, e la famiglia di suoi discendenti a produrre il miglior Amarone e il Valpolicella classico e ripasso, con l’etichetta che riporta con orgoglio quel cognome, e guai, qui, a usare l’accento sbagliato, e chissà se Emilio lasciò correre perché gli sembrò più esotico: di fatto, i salgàri nel veronese sono i salici, e da sempre il loro nome si pronuncia così. Da quel giorno in cui «spezzò la penna» , è trascorso un secolo. Verona e la Valpolicella si accingono a ricordare lo scrittore con il rispetto e la stima che l’Italia non gli tributò da vivo, e con affetto per l’uomo che non resse alle umiliazioni di una vita ingrata: cento anni ci dimostrano che la sua opera è immortale, malgrado non avesse neppure il tempo di rileggerla e correggerla.