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L'eclissi della dialettica e le nuove conflittualità della storia (II parte)

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 12/01/2011

3. Non esiste dissenso senza contrapposizioni definite. Occorre infatti che si
determinino posizioni differenziate di schieramenti opposti riguardo ad un
medesimo oggetto del contendere. Solo se esiste un potere, può costituirsi un
contropotere. Solo se esiste lo Stato, può esistere antistato, se esiste la religione
può esistere l’ateismo, se esiste la borghesia, esiste anche il proletariato. Oggi, è
evidente a tutti la dissoluzione dello Stato, entità istituzionale che tuttavia non è
stata sostituita da una nuova forma istituzionale, ma continua a sussistere svuotata
delle sue prerogative, quali la sovranità politica, economica e sociale. E’ l’economia
globalizzata a dettare gli indirizzi della politica degli Stati. Risulta allora del tutto
velleitaria ed impotente la protesta che chiede le dimissioni di un governo, che
vuole affermare un progetto politico che è irrealizzabile nell’ambito di un sistema i
cui fondamenti prescindono dalle classi dirigenti della politica nazionale. Tutto ciò
conduce alla considerazione che il dissenso contro un sistema diviene
inconcepibile, quando non si possono delineare i caratteri reali e definiti di un
avversario. Quando si afferma di voler combattere il capitalismo, gli americani,
l’imperialismo, tale prospettiva si rivela di per sé stessa velleitaria ed
inconcludente: capitalisti ed imperialisti sono anche gli avversari geopolitici degli
americani. Inoltre il capitalismo non è solo un sistema economico, ma anche
culturale, etico e sociale. Spesso si vuole combattere il capitalismo,
contrapponendo ad esso forme di dissenso scaturite dalla sua stessa cultura
individualista e condividendo (anche inconsciamente), il suo modello sociale. Per
delineare un nemico contro cui creare un dissenso sociale, oggi non ci è di grande
aiuto la teoria giuridico – politica di Carl Schmitt incentrata sulla dialettica amico –
nemico. Secondo Schmitt, la politica è strutturalmente conflitto, che si sostanzia
nella distinzione amico – nemico, quale “estremo grado di un’associazione o di una
dissociazione”. Il nemico non è il concorrente economico o l’avversario politico, ma
bensì “l’altro”, qualcosa di diverso e/o estraneo a noi. Dovremmo allora concludere
che ogni contrapposizione al capitalismo ha la sua ragion d’essere in quanto nega il
capitalismo stesso. Ogni movimento anticapitalista, sarebbe un’entità politica che
sussiste in virtù della sua controparte ideologica, un’entità che è tale in quanto
derivata e dipendente dal capitalismo. La dialettica amico – nemico dovrebbe inoltre
generare il differenziarsi delle entità comunitarie, costitutive di poli antagonisti,
portatori di identità particolari. Ma nel XXI° seco lo, abbiamo potuto constatare che la
logica amico – nemico si è riprodotta come tecnica espansionista della
superpotenza americana. Se tutti coloro che non accettano l’ordinamento capitalista
in economia e la liberal democrazia in politica sono nemici, allora ogni guerra
espansionistica (vedi Iraq e Afghanistan), sarebbe legittima, in quanto scaturita da
uno “scontro di civiltà”, tra una identità virtuale definita “occidentale”, esportatrice
armata di diritti umani e democrazia nei confronti degli “stati canaglia”.
Da quanto mi sembra di capire, tu respingi la teoria di Carl Schmitt sulla dicotomia Amico
/Nemico, considerandola poco adatta alle esigenze di oggi e dell’attuale congiuntura
storico politica. Dal momento che io invece l’accetto nell’essenziale, sia pure con alcune
riserve, mi corre l’obbligo di segnalare, sia pure brevemente, prima perché l’accetto, e poi
quali sono le mie principali riserve.
Una breve premessa. Schmitt è stato certamente un genio della filosofia politica
novecentesca, e tuttavia come scrisse argutamente Hegel il genio è l’uomo più indebitato
del mondo, perché ha debiti innumerevoli con i suoi predecessori. Egli fa però parte di
quella scuola del realismo politico di tipo machiavellico, che a mio avviso esclude del tutto
il riferimento normativo al bene comune comunitario di tipo greco, in cui invece io mi
riconosco in quanto umanista metafisico dichiarato. Ma questo per ora possiamo metterlo
da parte.
La ragione per cui accetto nell’essenziale la dicotomia schmittiana sta nel fatto che essa
descrive con ammirevole approssimazione la situazione storico-politica creatasi nel
Novecento, e soprattutto permette di nominare l’impero ideocratico americano come
nemico principale. Esso è il nemico principale non perché sia l’unico impero capitalistico
(anche, la Russia, la Cina, l’India ,eccetera, sono capitalisti al cento per cento benché con
una positiva dominanza del momento politico, sia pure dispotico-meglio una politica
dispotica che un dispotismo anonimo ed impersonale dell’economia divinizzata), ma
perché la sua bruta esistenza coordina, sul piano sia militare che soprattutto culturale,
l’intera riproduzione capitalistica globalizzata mondiale, imponendone le regole finanziarie.
Per questo è il nemico principale, non certo perché i suoi concorrenti siano “umanamente”
migliori. Ma questo ti è certamente noto. Inoltre, Schmitt è stato l’unico pensatore
novecentesco che ha rilevato in modo chiaro e “riproducibile” che la sporca legittimazione
particolaristica della potenza marittima americana è stata edificata attraverso il richiamo ad
una presunta “umanità”. In Italia è stato ed è Danilo Zolo colui che meglio ne ha sviluppato
in pensiero, e si tratta di un pensatore non certo proveniente dalla destra, ma dalla
sinistra ed addirittura dall’estrema sinistra. E’questa la chiave (direi la sola chiave) con cui
ho condotto la mia critica alla sporca ideologia dell’esportazione armata dei diritti umani da
me svolta nella precedente seconda risposta. Oggi il paradosso dialettico sta in ciò, che il
nemico principale è appunto quello che si presenta come il principale amico dell’umanità,
che intende conformare “universalisticamente” alla sua particolaristica struttura
economica, politica e sociale, e lo fa in nome di un mandato religioso, di una divinità autoattribuita,
un vero e proprio Anti-Cristo frutto di una fusione mostruosa fra
fondamentalismo ebraico veterotestamentario e puritanesimo calvinista degli ”eletti”.
Come tu sai, ho scritto a suo tempo un documento filosofico-politico in cui riprendo
l’elencazione di Alain de Benoist delle cinque principali forme di nemico principale oggi. Se
l’ho scritto e diffuso è perchè evidentemente mi ci riconosco. Sono però anche
perfettamente consapevole dei suoi limiti e delle sue insufficienze, ed ecco perchè
considero del tutto legittimo che tu non ti ci riconosca. Per ora, mi limito ad alcuni rilievi
sommari.
In primo luogo, sono consapevole della grande obiezione fatta dai teorici della cosiddetta
Non-VioIenza (Pontara, eccetera), che non confondo mai con i pagliacci del pacifismo
ipocrita ritualizzato, in realtà guerrafondai, come la coppia sionista spiritata Bonino-
Pannella. Per i primi bisogna interrompere la mortifera catena della inimicizia violenta, ed il
solo modo è quello di considerare tutti non come nemici principali irriducibili, ma come
futuri amici potenziali (Capitini, eccetera ). Mi permetterai di non riuscire a credere a
questa edificante metafisica. L’esperienza di Norberto Bobbio (pacifista famoso ed
ammirato, e poi banditore vergognoso della guerra del Kosovo del 1999) è stata per me
determinante in quanto mi ha colpito anche sul piano emotivo, affettivo e personale. Ho
capito allora che se un pacifismo non si inserisce concettualmente in una più ampia
comprensione della riproduzione mondiale (da cui e impossibile “espungere” il capitalismo
e l’imperialismo, laddove e soltanto un elemento di auto-mistificazione lo stupido
antifascismo in assenza di fascismo, con Clinton liberatore antifascista e Milosevic tiranno
fascista), può diventare l’alibi di voltafaccia vergognosi. Dal 1999 ho imparato la lezione.
Non mi fregano più.
In secondo luogo, l’individuazione del nemico principale non è che un presupposto
necessario ma non ancora sufficiente, e lascia completamente aperta ed impregiudicata la
dialettica di come si specificherà in futuro la dicotomia Amico/Nemico. È questo un punto
di importanza inestimabile. Nominare il nemico principale è il presupposto per superare la
paura della deadline e del giuramento di fedeltà occidentalistico. Violare questo
giuramento di fedeltà occidentalistico significa concretizzare quello “spirito di scissione” (il
termine è molto felice, ed è di Antonio Gramsci) che è il presupposto di qualunque azione
futura. Chi ha individuato il nemico principale sa che l’individualismo laico anticomunitario
è peggiore dei riferimenti aristotelici della religione (in cui io non sono peraltro credente)
che gli USA non hanno alcun diritto di criticare in modo universalistico la Russia, la Cina,
l’Iran, Cuba, eccetera, eccetera.
L’individuazione del nemico principale non è ancora certamente una metafisica ed una
prassi di liberazione e di emancipazione, ma ne è soltanto il presupposto. Niente di più,
ma questo niente di più e il primo passo di un lunghissimo viaggio, di cui non disponiamo
dell’itinerario, perchè il futuro storico (a differenza di quello astronomico) è del tutto
imprevedibile. Vorrei sfatare un possibile equivoco. Io credo alla pertinenza dei rapporti
geopolitici, e considero una reazione moralistica da “anima bella” il chiudere gli occhi
davanti ad essi. Ma ti assicuro che non mi sogno affatto di sostituire la geopolitica alla
filosofia. Se poi qualcuno lo fa, ammesso che qualcuno lo faccia (La Grassa, Rivista
Eurasia, eccetera), non lo so, e bisogna rivolgersi a lui per chiarimenti. Io non lo faccio. Io
mantengo la centralità umanistica della filosofia come bussola per l’orientamento nel
mondo. La geopolitica non è affatto l’unica concretizzazione del nemico principale.
Semplicemente, fa parte di una catena, la “catena dei perchè” (come scrisse Franco
Fortini), tutti i perché uniti da una catena economica, filosofica, politica, sociale, eccetera.
Per finire, l’individuazione del Nemico e anche il presupposto per poterlo distinguere non.
solo dal semplice avversario (pensiamo al fondamento mascalzonesco
dell’antiberlusconismo italiano dell’ultimo ventennio, l’aver simbolicamente trasformato
l’avversario Gran Paperone e gran Puttaniere in nemico populista assoluto della
democrazia, difesa invece da Di Pietro, dalla Finocchiaro a da Santoro-Saviano), ma
anche per poter in seconda battuta connotare gli Amici Potenziali. Ammetto che il
problema del nemico è solo il dieci per cento, mentre quello degli amici è invece il novanta
per cento, ma consentirai con me che se non sai da chi devi difenderti non puoi neppure
chiamare alla solidarietà ed al soccorso.
4. Come abbiamo già approfondito e discusso nei precedenti dialoghi, il
capitalismo, come evidenzia la crisi economica in atto, è giunto alla fase storica
della sua decadenza. Per una compiuta analisi storico – filosofica del fenomeno
capitalista, occorre dunque richiamarsi alla dialettica hegeliana. Come scritto hai
più volte, il capitalismo, dopo un sua fase iniziale “astratta”, ha poi dovuto
affrontare la contrapposizione dialettica classista riassunta nel binomio borghesia –
proletariato, ed infine è giunto al suo definitivo compimento - esaurimento nella fase
“speculativa”, quale è quella storica attuale, in cui esso diviene un fenomeno
autoriflessivo e totalizzante. Vorrei esprimere alcuni dubbi circa tale interpretazione
filosofica del fenomeno capitalista, in quanto la logica interna che presiede al suo
sviluppo storico, non mi sembra conformarsi allo schema filosofico fondato sulla
dialettica hegeliana. Il capitalismo, nella sua fase iniziale, fa riferimento non solo e
non tanto alla radice culturale illuminista, ma si innesta nella logica di dominio del
periodo storico delle grandi conquiste coloniali del ‘600 e ‘700, in un’epoca
mercantilistica dominata dall’assolutismo monarchico, in un mondo cioè ancora
saldamente ancorato ad una cultura e una politica premoderna. Il suo riferimento
specifico non è tanto il razionalismo illuministico, quanto semmai l’empirismo e
soprattutto l’assolutismo politico di Tommaso Hobbes. Nella sua fase dialettica,
quella in cui si evidenziano le sue interne contraddizioni (‘800 e ‘900), con lo scontro
di classe borghesia – proletariato, il capitalismo, non si configura come un
fenomeno che supera il proprio termine di contrapposizione dialettica (proletariato),
in una sintesi la sua antitesi diviene parte integrante, quale momento necessario di
una sua trasformazione e realizza il superamento della contrapposizione dialettica.
Il capitalismo si contrappone al marxismo, ma non supera le proprie contraddizioni
interne (che anzi, nella sua fase “speculativa” vengono esasperate), assorbendo in
sé stesso le istanze del suo avversario. Esso nega semmai nella sua fase finale
unilateralmente la propria antitesi. La caratteristica peculiare del capitalismo è
inoltre quella di negare, nella sua dimensione compiuta entrambi i termini della
contrapposizione dialettica della storia recente. La lotta di classe ha avuto un esito
finale in cui, la scomparsa del proletariato ha comportato anche quella della
borghesia stessa. Il capitalismo è dunque un fenomeno che si è affermato
attraverso la negazione unilaterale assoluta di ogni contrapposizione storico
dialettica. Non voglio affermare con quanto detto in precedenza l’inadeguatezza
della dialettica hegeliana ad interpretare i fenomeni della storia. Voglio solo
sottolineare che la storia del capitalismo, proprio perché non essendo compatibile
con i canoni filosofici dell’idealismo, rappresenta un fenomeno estraneo al pensiero
dialettico e per questo, non suscettibile di produrre l’universalizzazione dei suoi
postulati fondamentali. Esso, amio parere, non produce che teorie di legittimazione
economica e politica aposteriori, perché non si sviluppa secondo una logica
unitaria e/o definita, ma si identifica con una prassi economicista immanente. Non a
caso la vittoria del capitalismo del 1989 sul socialismo reale coincide con la
fuoriuscita dell’Europa dalla storia. La prassi capitalista, in quanto coincide con la
negazione assoluta di ogni fenomeno ad esso non compatibile, può dunque essere
definita sul piano filosofico come il risultato di un nichilismo compiuto.
I tuoi dubbi sulla interpretazione filosofica (più esattamente, filosofico dialettica) del
fenomeno capitalistico sono anche i miei, e sarebbe strano che non lo fossero, perchè
sarebbe il preoccupante segnale di una mancanza soggettiva di autoconsapevolezza
critico-fallibilistica. Per questo colgo con piacere l’occasione per un ulteriore chiarimento.
La mia interpretazione filosofica della periodizzazione del capitalismo (astratta, dialettica,
speculativa) non intende affatto contrapporsi per sostituirla alle consuete periodizzazioni
storico-economiche del capitalismo stesso, ma intende soltanto integrarle dal punto di
vista della ricostruzione della loro totalità olistica espressiva, che i puri dati economici o
sociologici non riuscirebbero a rispecchiare adeguatamente. Ad esempio, non mi
contrappongo affatto ai tentativi di periodizzazione di Giovanni Arrighi (egemonia
genovese, egemonia olandese, egemonia inglese, egemonia USA, e domani forse la
Cina, eccetera) o a quelli di Gianfranco La Grassa (successione ciclica di momenti
unipolari e di momenti multipolari). Semplicemente, la mia periodizzazione è una “rete”
ulteriori che getto su di una molteplicità di fenomeni storici e sociali, che cerco di
interpretare sulla base esclusiva della ideazione filosofica.
Filosofia per me significa idealismo, ed idealismo significa dialettica (mi rifaccio quindi ad
una lunga tradizione, da Platone a Hegel ed in Italia da Gentile, Croce e Gramsci). Mi
permetto di rimandare ad un mio studio monografico (Costanzo Preve, Storia della
Dialettica, Petite Plaisance, Pistoia 2006). Ma sulla base della tua sollecitazione mi limiterò
a due soli aspetti. Primo, la dialettica è utilizzabile con profitto soltanto se si eliminano due
equivoci mortali, il mito dell’origine unitaria decaduta ed il mito della finalità necessaria
prefissata. Secondo, la dialettica non sparisce nella fase speculativa del capitalismo (come
tu sembri ipotizzare), ma assume soltanto forme diverse da quelle assunte storicamente
nelle fasi astratta e dialettica propriamente detta. Ma vediamo meglio.
In prima approssimazione, la dialettica e il semplice riconoscimento della unità ontologica
dei contrari. Più esattamente, è il riconoscimento razionale dell’unità ontologica degli
opposti in movimento temporale ed in correlazione essenziale. Essa non rompe affatto con
il senso comune (per fortuna generalmente ben distribuito fra le persone semplici, ed è
invece molto raro in quella categoria dogmatica, allucinata, settaria ed intollerante
chiamata degli “intellettuali”), ma semplicemente lo elabora in forma potenzialmente
accessibile a tutti.
Ogni fisiologia presenta delle patologie. Le principali patologie della dialettica a mio avviso
sono due: il mito dell’origine unitaria decaduta ed il mito della finalità necessaria prefissata.
Vediamole separatamente. Nel primo caso (il mito dell’origine unitaria decaduta) si ipotizza
che il normale momento in cui viviamo non sia caratterizzato dall’unità contraddittoria degli
opposti in correlazione essenziale, ma dal normale principio di non-contraddizione
effettivamente vigente nelle scienze della natura, in cui per principio non può esistere la
soggettività antagonistica delle prese di coscienza. Si ipotizza allora un’unità originaria
decaduta da raddrizzare, che da luogo o ad un mondo peccaminoso, “a testa in giù”
(variante biblica, ed in generale monoteistica ma estranea ad esempio alle culture non
monoteistiche, come quella cinese, che è naturalistica), o ad un mondo in qualche modo
“alienato” (scuola marxista e poi anti-marxista italiana di Lucio Colletti, Giuseppe Bedeschi
e Luciano Albanese). E’ possibile che la lontana origine filosofica di questa concezione sia
quella neo-platonica tardo-antica. (Ma personalmente ne dubito, pur non avendo qui lo
spazio per un chiarimento ulteriore). Resta il fatto che il presupposto mitico di questa unità
“originaria decaduta da ricostruire non caratterizza affatto la moderna dialettica storica di
Fichte e di Hegel, poi ereditata da Marx e quindi risulta infondata ed arbitraria questa
sovrapposizione, che è sempre il sintomo (laddove sia in buona fede) di una imperfetta
secolarizzazione messianica di un presupposto monoteistico trascendente, inevitabilmente
creazionistico. Per costoro il così detto comunismo dovrebbe rimettere semplicemente sui
suoi piedi una comunità originaria decaduta nel tempo storico. Chi ci vuol credere si
accomodi. C’è infatti di peggio. Lasci però perdere la dialettica moderna e soprattutto il
moderno sottoscritto. Nel secondo caso (il mito della finalità’necessaria prefissata) la
dialettica filosofica viene messa al servizio (come badante senza diritti e senza libretto di
lavoro) del concetto di “legge scientifica”, per di più concepita in senso positivistico e
quindi rigorosamente deterministico. Questo concetto di legge scientifica è previsionale, e
su questa base, ad esempio, si possono solo prevedere le eclissi di sole e di luna ed il
ritorno delle comete in modo sorprendentemente esatto. Ma se il futuro “naturale” è
astronomicamente prevedibile (non sempre, peraltro), il futuro storico non è mai
prevedibile in via di principio, perché comprende l’imprevedibile prassi individuale e
collettiva degli esseri umani, che nessuna estrapolazione economica o sociologica potrà
mai “prevedere” se non in forma dilettantesca, quasi sempre soltanto analogica e
ricavata, “pescando” nel passato storico, luogo di inevitabili pittoreschi equivoci.
Eliminate queste due patologie, entrambe di origine religiosa e per di più fortemente
collegate, al punto costituire un’urica e sola patologia, si può ristabilire una concezione
sobria e non ubriaca di dialettica storico-filosofica. La dialettica riconosce la permanenza
delle contraddizioni dell’essere sociale (se ci siano anche contraddizioni nell’essere
naturale lasciamolo ai benemeriti seguaci della religione di Engels, il materialismo
dialettico, ma si interdice di prevederne le specifiche forme di esistenza nel futuro (che è
poi esattamente quello che Hegel dice quando afferma che la nottola di Minerva, l’uccello
consacrato alla consapevolezza storica dell ‘autocoscienza umana, si alza in volo soltanto
al crepuscolo).
E qui giungiamo al punto che ti assilla. In passato certamente la dialettica c’è stata, ma nel
presente sembra non esserci più, da cui si potrebbe razionalmente ipotizzare che anche
nel prossimo futuro potrebbe non esserci più. Ma cerchiamo di vedere meglio le cose.
Certo, oggi come oggi è certo che l’Europa sembra essere provvisoriamente fuoriuscita
dalla storia, e basti pensare a come gli arroganti diplomatici USA nei files di Wikileaks
descrivono i miserabili fantocci europei, schiavi soddisfatti di sé ed incapaci di dignità e
ribellione. Ma nel resto del mondo la storia non si è fermata almeno per ora. Nella mia
prima risposta ho fatto notare che le tre principali forme di coscienza politica novecentesca
inerziale sono ormai prigioniere di una gabbia ideologica (pensiero liberale, pensiero
fascista, e pensiero comunista) e sono quindi del tutto paralizzate ed impotenti. Ma le
passibilità del futuro non sono contenute nella prigione provvisoria del presente. E’ invece
del tutto esatto che nella nuova fase speculativa del capitalismo (economicamente
globalizzata, politicamente oligarchica, filosoficamente individualista e postmoderna) la
dialettica per ora non può essere ristabilita nella forma delle soggettività collettive
configgenti dotate di identità classistiche relativamente stabili. Ma il fatto che la dialettica
non passa essere riproposta come prima non significa che essa non esista più. Significa
soltanto che non può più essere riproposta nelle forme storiche e sociali precedenti.
Faccio qui l’analogia con la teoria dell’evoluzione. Tutti i biologi evoluzionisti concordano
sul fatto che essa è imprevedibile (paradossalmente è questo l’unico elemento su cui
concordano anche i biologi creazionisti del cosiddetto “disegno intelligente”, in cui
l’imprevedibilità è ricondotta a voleri imperscutabili di Dio onnipotente). Bene, anche la
storia futura è del tutto imprevedibile. Per questo è indispensabile sostituire al mito del
Destino della Tecnica (non importa se nella variante hard della differenza ontologica di
Heidegger o nella variante soft della dialettica negativa di Adorno-una più cialtrona
dell’altra) il nuovo concetto di Dittatura dell’Economia, o più esattamente di dittatura
oligarchica dell’economia. La differenza è essenziale. Se siamo ormai in un’epoca post
(non importa se postmoderna, postmetafisica, eccetera, io proporrei di punire tutti i post
con una innocua ma fastidiosa scossetta elettrica nel sedere), allora anche la soggettività
umana incorporata in una fatalità tecnica in trascendibile (da qui il successo dei vari
Emanuele Severino ed Umberto Galimberti negli organi della grande manipolazione
mediatica delle oligarchie della globalizzazione). La conclusione e allora il refrain: non c’è
più nulla da fare/è stato bello sognare. Se invece il problema non sta nel presunto Destino
della Tecnica ma nel più concreto Dispotismo dell’economia Feticizzata, allora qursta
dittatura è un nemico ben indicabile (rimando qui alla mia terza risposta), e per di più un
ostacolo in via di principio toglibile.
Le nuove forme della contraddizione dialettica nell’epoca del capitalismo speculativo,
oligarchico e globalizzato, non possono ancora essere descritte. C’è già la lista dei nemici
principali (de Benoist, ma anche Preve), ma non c’è ancora la lista degli amici e dei
collaboratori. Questa lista crescerà in cammino. Per ora basti partire dalla convinzione per
cui essa è ontologicamente possibile. E se è ontologicamente possibile, e non siamo in
preda al Destino della Tecnica o della dialettica negativa (una vera oscenità), allora sarà
anche socialmente possibile, politicamente possibile, e quindi storicamente possibile