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FIAT: dalla nascita di Mirafiori al boom economico degli anni `60 (PARTE IV)

di Mario Consoli - 16/01/2011


     

 
Negli anni Trenta, soprattutto con la guerra d’Etiopia, riprendono respiro le commesse militari, che però furono assai criticate perché la Fiat, invece di produrre veicoli adatti ai territori africani e alle particolari esigenze belliche del momento, si era limitata ad assemblare pezzi di veicoli civili già esistenti: autotelaio del tipo 508 Balilla inserito in camioncini della portata di 400 kg e autovetture civili di grossa cilindrata camuffati con una mise coloniale. Nonostante le sanzioni economiche varate dalla Società delle Nazioni, le truppe italiane furono costrette ad arrivare ad Adula, Azuma e Malvale più su automezzi Ford che Fiat. L’azienda americana fornì per l’occasione 3.000 camion.
Solo successivamente da Torino cominciarono ad arrivare autoveicoli di tipo nuovo, con l’applicazione di tecnologie più avanzate e mirate alle esigenze militari. Analoghi deludenti risultati si ebbero per gli armamenti: le cinquemila mitragliatrici ordinate alla Fiat arrivarono in ritardo e di una qualità inadatta all’impiego richiesto; il raffreddamento ad acqua di cui erano dotate, di superata concezione, si dimostrò infatti particolarmente problematico in terra d’Africa, dove l’acqua notoriamente scarseggia. Ciò nonostante, gli affari continuarono a portare ad Agnelli utili ragguardevoli.
Lo stabilimento del Lingotto si era fatto troppo stretto per le produzioni previste e, dopo il 1934, nasceva il progetto di una nuova megastruttura industriale finanziata proprio dagli utili ottenuti con la guerra di Etiopia: più di 600 milioni di lire. Fu scelta un’area di oltre un milione di metri quadrati, dove era sorta in passato la scuderia di Guarino, sulla strada di Stupinigi, località nota per il casino di caccia dei Savoia, nel territorio a sud di Torino. Nasceva la Fiat Mirafiori.
Nuovo contrasto col fascismo. Mussolini, visto il progetto, manifestò tutta la propria contrarietà. Avrebbe preferito uno stabilimento decentrato, dove già esisteva manodopera disponibile – per evidenti questioni di ordine sociale – evitando inoltre concentramenti industriali pericolosi per motivi militari. Agnelli dimostrando ancora una volta di essere un forte uomo di potere e che il Fascismo non fu una ferrea dittatura – non sentì ragioni e dette inizio ai lavori, chiamando a Torino oltre 5.000 lavoratori, che reclutò nel Veneto e in Sicilia. Come “contentino” al Regime, promise di costruire una piccola fabbrica sotterranea per la produzione d’aerei nei dintorni di Firenze e di ampliare il centro di distribuzione di Ancona. Nel 1937, grazie al successo dei modelli Topolino e 1100, la Fiat arriva al ritmo produttivo annuo di 66.000 autoveicoli. Anche la guerra di Spagna fu occasione di grandi utili; le importanti commesse di camion e aerei per i franchisti furono finanziariamente coperte dal governo italiano. Inoltre Giovanni Agnelli aveva ritenuto opportuno, per l’occasione, rinfrescare lo status di senatore, ottenendo così di far parte di due strategiche Commissioni parlamentari: quella per la legislazione doganale e gli scambi commerciali e quella per gli affari esteri.
Nel frattempo l’IFI era arrivato a controllare parecchie decine di aziende operanti nei più diversi settori produttivi, tra cui l’Unione Cementi Marchino, Ferrania, Italedile, Cinzano, Manifattura Pellami e Calzature, Microtecnica, Industria Italiana Vernici e un folto gruppo di immobiliari operanti in Piemonte, Liguria e Lombardia. Siamo nel 1939. A maggio Germania e Italia firmano il Patto d’Acciaio. Il 3 settembre Francia e Inghilterra dichiarano guerra al Terzo Reich. Come nulla fosse successo, Agnelli in ottobre stipula con il governo francese un contratto per la fornitura di 2.200 autocarri, specificando che questa sarebbe stata la prima di una serie di consegne. Contemporaneamente continua a inviare motori di aviazione in Inghilterra e bombardieri in Persia, caccia in Ungheria e in Spagna, aerei e automezzi in Paraguay, Venezuela, Jugoslavia e Finlandia.
Nonostante l’Italia stesse per dichiarare guerra a fianco della Germania, nell’aprile 1940, il fiduciario della Banca Morgan, a nome di Agnelli, si recò a Londra per comunicare al governo inglese la disponibilità della Fiat a continuare a fornire aerei e motori d’aviazione. Allo stesso tempo Valletta faceva cadere sul governo di Roma, a pioggia, richieste di agevolazioni, esenzioni fiscali e contratti privilegiati. In considerazione del fatto che la Fiat era stata “fortemente danneggiata dai provvedimenti d’embargo degli Stati Uniti” Agnelli chiese di “vincolare il rilievo della SIAP [la struttura della Standard Oil in Italia] al proprio settore petrolifero”.
Le forniture militari richieste alla Fiat marciarono con ingiustificabili ritardi: il livello delle consegne previsto per il 1940 fu raggiunto solamente alla fine del 1942. Qualcuno cominciò a parlare di sabotaggio e alcuni gerarchi minacciarono il commissariamento.
Le crescenti pretese del presidente dell’industria piemontese e di tutti gli altri industriali, che peraltro stavano profittando di una crescente liquidità generata dagli ingenti guadagni “di guerra”, provocarono un irrigidimento da parte del governo. Mussolini, in un Consiglio di ministri del 1941, in uno scatto d’ira, minacciò: “Nessuno pensi che la tessera annonaria sarà abolita alla fine della guerra. Essa durerà finché esisterò. Perché così i vari Agnelli e Donegani mangeranno come il loro ultimo operaio”.
Ma, a far finire la cuccagna dei profitti, ci pensarono il precipitare degli eventi bellici e i bombardamenti su Torino della fine 1942. Trentasei bombe da 500 libbre ridussero gran parte della Mirafiori in macerie.
D’altronde i grandi industriali italiani – Agnelli, Donegani, Pirelli e Volpi – già nel novembre 1942 – ve ne è testimonianza nel diario di Ciano – avevano deciso di sganciarsi dal Regime fascista e organizzarsi per il “dopo” sotto altre bandiere. Agnelli e Valletta impegnarono tutti i propri sforzi per ricrearsi una “verginità” politica, collaborando col nascente Comitato di Liberazione e largheggiando in finanziamenti ai partigiani. Saranno loro stessi a documentare questa attività quando, a guerra finita, dovettero difendersi dall’accusa di collusione con il Regime fascista e collaborazionismo con i tedeschi. 
Valletta agì secondo quella che lui stesso, presso i suoi collaboratori, definiva la “tattica del camaleonte”. Cercava di mostrarsi amico di tedeschi e fascisti repubblicani, ma contemporaneamente cercava contatti con i comandi anglo-americani ed elargiva finanziamenti e aiuti di ogni genere al Comitato di Liberazione e ai gruppi partigiani. Quando, dopo, si parlò di “doppio gioco” della Fiat, intervenne Giorgio Bocca specificando: “anche triplo e quadruplo gioco”. 
D’altronde c’era chi se n’era accorto; Giuseppe Solaro, federale di Torino del PFR, riferendosi ai massimi dirigenti Fiat chiarì: “si sono messi apparentemente nelle mani germaniche, lavorando poi di abilità sotto sotto, per rendere la ‘protezione’ economico-militare un alibi alla concreta opera di sabotaggio e di ostruzionismo”. Giorgio Pini, che è considerato, tra i fascisti, uno dei più pacati e che nella sua ultraventennale carriera di redattore capo de il Popolo d’Italia, direttore del Resto del Carlino e nella RSI sottosegretario all’Interno – aveva espresso solo giudizi ispirati da grande equilibrio, dopo una missione in Piemonte, scrisse di aver trovato a Torino “una borghesia che ordisce la congiura antifascista nel Comitato di Liberazione con tendenza conservatrice e reazionaria [...] Tipico il caso dell’ing. Valletta e dei suoi collaboratori che si appoggiano alternativamente ai tedeschi e alle masse, naturalmente a loro danno”.
Durante il processo a Rodolfo Graziani, Valletta, ascoltato come testimone, confermò in maniera circostanziata ciò che avevano intuito i fascisti: “Abbiamo fatto in modo che il lavoro non fosse produttivo; e per non produrre abbiamo concertato degli attacchi aerei da parte dell’aviazione alleata [...] in modo che vi fosse la scusa di trasportare altrove il macchinario, di smontarlo e rimontarlo e quindi un lavoro che impegnava sempre tutto il personale, ma permetteva di non concludere nulla. E in tutto questo abbiamo avuto l’appoggio incondizionato dei partigiani, i quali si sono fatti in quattro, certe volte, per rendere sempre più difficili le operazioni di spostamento. [...] Qualche volta il materiale veniva sequestrato dai partigiani che poi ce lo restituivano”.
E non si trattò certo di una tattica improvvisata e circoscritta a situazioni contingenti e locali. Anzi, Agnelli aveva mandato il nipote Gianni al Sud, a mettersi a disposizione del governo Badoglio e collaborare nella costituzione dei primi reparti del Corpo italiano di Liberazione. Mentre Valletta si recava a Salò per dichiararsi “riconoscente” per la legge sulla socializzazione (1) e rassicurare Mussolini sulla disponibilità ad applicarla subito e ottenere, in cambio, la nomina di uno dei suoi uomini, l’ingegner Corrado Orazi, a direttore del Comitato per la motorizzazione della Repubblica, Agnelli dislocava nella Roma occupata due suoi dirigenti, il barone Schmidt di Friedberg e l’ingegner Giulio Foglia – che affiancarono il conte Giuseppe Perotti, già residente nella Capitale per curare i rapporti tra l’azienda torinese e i ministeri, e il marchese Giovanni Visconti Venosta, consigliere d’amministrazione della Fiat, rimasto appositamente a Roma – per mantenere i collegamenti con i comandi anglo-americani.
“Foglia – riferisce Castronovo – giunto a Roma il 10 settembre, era entrato in relazione con il generale Armellini, uomo di fiducia di Badoglio, assurto nel gennaio 1944 a comandante militare clandestino di Roma. [...] Dai primi di ottobre l’emissario di Agnelli aveva incominciato a intrattenere relazioni stabili con l’Office of Strategic Services”. Contemporaneamente Agnelli e il presidente dell’Unione industriali di Torino, Giancarlo Camerana, entravano in rapporto con il tenente colonnello Giuseppe Bertone, comandante del gruppo militare clandestino “B” e ufficiale di collegamento dell’VIII Armata britannica.
Tramite un funzionario di secondo piano della Fiat, Benedetto Rognetta, e il socialista Piero Passoni, Agnelli e Valletta fecero arrivare cospicue somme al movimento partigiano. Nel 1944, 30 milioni in unica tranche e 26 milioni in più versamenti. Successivamente, oltre 36 milioni furono fatti recapitare ai comandi della Resistenza tramite Annibale Vola, amministratore dell’IFI. Inoltre furono forniti gratuitamente – come testimoniò lo stesso Valletta – “mezzi di trasporto, carburanti e materiali a bande patriottiche per un importo valutato intorno ai 500 milioni”. Il presidente della Commissione economica del CLN di Torino, Guglielmone, dichiarò che durante la lotta clandestina “importantissimi aiuti in denaro e diverse decine di milioni furono versati con fondi personalmente forniti dal sen. Agnelli (la Fiat, sorvegliatissima, non poteva sborsare fondi) al CLN del Piemonte (versamenti che furono effettuati in modo continuativo, anche quando furono sospesi da altri finanziatori)”.
Nella concitazione della fine d’aprile del 1945 e delle settimane che seguirono – nella provincia di Torino si contarono circa 5.000 assassinii di fascisti o presunti tali – anche per le alte dirigenze Fiat ci furono momenti di grande tensione, ma tutti risolti velocemente e senza particolari danni. Giovanni Agnelli fu arrestato e portato in carcere alle Nuove, ma passò in cella una sola notte. La mattina successiva fu liberato “con tante scuse”.
L’Unità esce con un articolo di fuoco, “Pietà l’è morta”, a firma di Giorgio Amendola, ed è lo stesso dirigente comunista che in un comizio nella sala mensa di Mirafiori comunica la condanna a morte – poi smentita dai comandi CNL – di Vittorio Valletta. “A lu piuma ades? - lo prendiamo adesso?” urlano i partigiani presenti. Ma le protezioni di cui gode il dirigente Fiat sono tutte operative ed efficaci. Valletta è fatto riparare prima nella Prefettura di Torino, poi in una casa in collina, infine in una villa nel Monferrato presidiata dai militari inglesi. Quando i partigiani comunisti arrivano, viene esibito loro un documento che pone il ricercato sotto protezione delle Forze Armate inglesi “per benemerenze recate alla causa alleata”. Nel frattempo la Fiat viene affidata, temporaneamente, dai comandi partigiani a un Comitato composto da quattro personaggi – Aurelio Peccei, Arnoldo Fogagnolo, Gaudenzio Bono e Battista Santhià – tre dei quali fidatissimi uomini di Valletta, da lui stesso indicati a chi si stava occupando di insediare il nuovo organismo gestionale. Questi retroscena si conobbero solamente molto dopo, a seguito della pubblicazione dei rapporti dell’epoca dei servizi segreti americani.
Poi, le accuse a carico di Agnelli e Valletta di “aver partecipato alla vita politica del fascismo con notorie pubbliche manifestazioni di apologia degli atti di governo e di partito e avere notoriamente lucrato grandi incrementi patrimoniali con vantaggio economico ingentissimo” si sgonfiarono tutte col proscioglimento in istruttoria. La notizia raggiunse il settantanovenne senatore nella sua casa di Torino dove, il 16 dicembre 1945, morì. Al suo funerale, racconterà il nipote Gianni, “eravamo poche decine di persone”.
L’impero finanziario e industriale degli Agnelli fu allora preso in mano da Vittorio Valletta che lo diresse fino al 1966. Dopo la guerra gli affari erano ripresi come prima, con la disinvoltura di sempre: facili licenziamenti e pagamento “ridotto” delle fatture dei fornitori. Un “autoscontro” d’autorità che – come documentato da Mario Giovana – mandò in rovina centinaia di aziende nel torinese. Si riprese con la ricostruzione degli stabilimenti distrutti dai bombardamenti, con l’ottenimento di grandi commesse – dall’Italia e dall’estero –, con la produzione di nuovi modelli di autovetture di successo, con la rincorsa a tutti i contributi, i finanziamenti e gli incentivi possibili. Si cominciò coi prestiti previsti dal Piano Marshall, assorbiti dalla Fiat nella misura del 26% del totale assegnato all’Italia, provocando vive proteste da parte di tutti gli altri industriali. Gli immobilizzi necessari per mettere in produzione le prime forniture estere furono poi coperti dal fondo per il finanziamento dell’industria meccanica istituito nel 1947.
Nel 1950 la produzione di auto raggiunse la quota di 115.000 esemplari annui. Alla fine degli anni Cinquanta, con una struttura che dava lavoro a 65.000 operai, il fatturato della Fiat raggiungeva una cifra pari al 14% delle entrate complessive dello Stato.
I nuovi programmi di espansione imposero l’apertura di altri stabilimenti e da quel momento la Fiat cominciò a produrre anche all’estero. Francia, Spagna e Argentina furono le sedi delle nuove officine. Nel 1965 fu la volta dell’Unione Sovietica dove, a Togliattigrad, fu realizzata una vera e propria “città dell’automobile”.
L’anno successivo fu realizzato un ulteriore complesso alle porte di Torino – Rivalta – che provocò l’afflusso di altri 60.000 operai, quasi tutti del Sud Italia. Nel 1967 si ha l’assorbimento della OM e dell’Autobianchi e l’acquisto del 50% della Ferrari; nel 1969 è acquisita la Lancia.
È di questo periodo l’apertura di nuovi stabilimenti in Italia, di minori dimensioni rispetto a quelli torinesi, costruiti soprattutto in zone dove era più facile ottenere contributi ed esenzioni fiscali. La Fiat compare così, inaspettatamente, anche a Bari, Cassino, Lecce, Vasto, Sulmona e Termini Imerese.
Lo sviluppo della Fiat continua a procedere in corsia preferenziale sia per ciò che riguarda i contributi statali a fondo perduto, sia per i finanziamenti agevolati. Anche nei confronti della concorrenza è sempre operativa la longa manus dell’azienda torinese cui è spudoratamente consentito di bloccare quei progetti e quelle iniziative non compatibili coi propri interessi.
Qualche esempio. Nel 1954, nello stabilimento Alfa di Pomigliano – azienda IRI – è realizzato il prototipo di una vettura con cilindrata inferiore ai 500 cc. che anticipa in modo sorprendente sia la Mini Morris dell’inglese Leyland che la Bianchina dell’Autobianchi. Inaspettatamente il governo boccia il progetto, che prima finisce sulla scrivania del presidente del comitato dei ministri per il Mezzogiorno, il democristiano Pietro Campilli, poi – come riferirà Giuseppe Luraghi, direttore generale di Finmeccanica – su quella di Vittorio Valletta (!). Nel 1957 la Fiat lancia la Cinquecento e si impadronisce dell’ampia fetta di mercato adatta all’utilizzo di questo tipo di cilindrata.
Sempre negli anni Cinquanta Giorgio Valerio, titolare della SAIE, un’azienda milanese che rappresenta la General Motors, offrendo una grande struttura di vendita e di assistenza, affida all’ingegner Enrico Benzing – allievo del professor Mario Speluzzi del Politecnico, progettista dell’Isetta, una microvettura prodotta nel 1953 dalla ISO e nel 1955 dalla BMW – un progetto all’avanguardia che anticipa decenni di problematiche legate all’inquinamento e alle fonti energetiche: un veicolo ibrido, con motore a scoppio e motore elettrico. Già allora lo smog era d’attualità e il mercato che si offriva alla nuova macchina era enorme. Valerio si collega con la Edison – che si dimostra entusiasta – e mette in concorrenza General Motors e Volkswagen per la veloce realizzazione, nel Nord Italia, di una grande struttura di produzione. Alla Bridgestone giapponese è già ordinata una prima consistente fornitura di pneumatici.
Poi, improvvisamente e inspiegabilmente, l’Edison comincia a frenare, trova pretesti per contraddittori rinvii, fino a bloccare tutto. Si scusano parlando di “manovre ad alto livello”. Successivamente, il presidente dell’ENI Eugenio Cefis spiegò cos’era effettivamente avvenuto: “C’era stato il veto della Fiat”.
All’inizio degli anni Settanta fu varata un’iniziativa rivoluzionaria nel settore del trasporto merci. Si voleva eliminare gran parte del traffico su gomma dal Nord al Centro-sud, potenziando e ristrutturando quello su rotaia. Le merci provenienti dalle regioni settentrionali dovevano essere inserite in container – da 20 o 40 piedi, secondo le esigenze – e trasportate con appositi camion dal punto di carico al più vicino scalo ferroviario. Tutti i container convergevano, via rotaia, allo scalo di Pomezia e di lì smistati, caricati su altri camion e consegnati in tutto il Centro-sud. Il centro di Pomezia era stato adeguatamente strutturato: un enorme piazzale movimentazione con adeguate gru, trattori e personale specializzato nel traffico merci e nello spostamento degli speciali vagoni porta-container.
Le merci spedite la sera dal Nord, la mattina erano smistate a Pomezia e in giornata venivano consegnate nelle località del Centro-Sud; praticamente lo stesso tempo che occorreva con un trasporto effettuato tutto su gomma. I vantaggi erano grandi e molteplici: diminuzione dei costi, risparmio energetico con conseguente riduzione dell’inquinamento e, soprattutto, drastico ridimensionamento del traffico autostradale. Non più file negli snodi e nei passi appenninici, meno incidenti, più scorrevolezza. La categoria dei camionisti era ugualmente impiegata – per la distribuzione e la consegna dei container – ma con un lavoro meno massacrante e pericoloso. Però si sarebbero venduti meno camion e quelli in circolazione sarebbero durati più a lungo. Ancora una volta da Torino arrivò una forte opposizione; il centro container di Pomezia, già attrezzato e operativo, fu ridimensionato; le nostre autostrade continuarono ad essere piene di traffico e incidenti, l’Italia dei trasporti rimase stretta, lunga e complicata. Ma il paese di chi fabbrica e vende camion rimase un bengodi.
Quando, negli anni Trenta, dalla Fiat erano giunti al governo insistenti richieste per favorire l’aumento della produzione di camion, Mussolini aveva risposto: “La motorizzazione non può essere spinta oltre un certo limite sotto pena di comprometterne i vantaggi”. Ma quelli erano altri tempi.
Nel febbraio 1964 si verifica qualcosa in controtendenza. Il governo Moro, il primo con la partecipazione diretta dei socialisti, adotta misure anticongiunturali che frenano la corsa ai consumi e penalizzano i pagamenti rateali. La Fiat si sente danneggiata. Valletta è furibondo: “malgrado nostra specifica richiesta, non siamo stati sentiti prima dell’annuncio ufficiale dei provvedimenti. [...] Come possiamo essere governati da gente così? Come è possibile?”. E reagisce, come è sempre solita fare la Fiat in casi del genere, con la mannaia: riduce la settimana lavorativa da 48 a 44 ore. Commenterà Pietro Nenni: “un provvedimento provocatorio”.
Ma il governo Moro passò, mentre la Fiat e i suoi “buoni” rapporti con ministri e apparati dello Stato rimasero. Per trovare ancora un sussulto di dignità della politica nei confronti dell’azienda torinese, si dovrà attendere Bettino Craxi che, in più occasioni, denunciò il lavoro di logorio del potere pubblico espletato dalla Fiat attraverso le leve del condizionamento economico e il controllo della stampa: “uno stato nello Stato”, “una monarchia nella Repubblica”.
Ma Craxi, come Moro, passò in fretta e tutto tornò sotto controllo. Fece, poi, epoca il comportamento di Romano Prodi quando nel 1996, da capo del governo, prima affermò: “Non lucideremo le maniglie di casa Agnelli”, poi si precipitò a firmare il decreto sulla rottamazione delle auto.