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Geocapitalismo: la felicità dell’attimo e la giustizia della comunità

di Lorenzo Chialastri - 29/01/2011

      

 
Il Financial Time apre l’anno avvisando che il decennio appena iniziato di questo terzo millennio sarà fondamentale per la globalizzazione in quanto dovrà confrontarsi su quattro punti: politico, economico, tecnologico e Asia.
Leggendo in chiaro e sinteticamente: Per il nodo politico, qualunque politica è da incoraggiare e sostenere purché accetti il primato dell’economia. L’economia deve essere unica e sull’indiscutibile piano del libero mercato. La tecnologia, da non confondere con la scienza, prevede zone ad alta produttività, con delocalizzazioni e accentramento logistico, da attribuirsi in base ai costi e alle maggiori libertà organizzative. Ultimo punto l’Asia, la globalizzazione dovrà gestire il fenomeno Russia (considerato corpo asiatico in quanto non occidentale), India e Cina, in modo adeguato al fine che non diventino poli concorrenziali dominanti (problema geopolitico e geoeconomico).
Esiste un grande proposito, supportato da un enorme sforzo, da parte dell’egemonia dominante, quello di un controllo totale sulla terra, che in termini correnti prende per l’appunto il nome di globalizzazione. Certo è che se visto dalla prospettiva di un potere unico, e quindi assoluto, qualche dubbio di democraticità e d’inquietudine potrebbe sollevarlo, ma se sorretto da un messaggio ideologico assume un aspetto quasi messianico talmente potente da nascondere il risvolto criminale.
Gli organi mondiali del capitalismo globale e finanziarizzato, il Wto, la Banca Mondiale, il Fmi, si fanno perciò carico della crescita e dello sviluppo integrato, sostenibile, essi sono i portatori dei diritti umani, per una libertà senza frontiere. Posto in questi termini lo sforzo oltre a passare trova persino chi è pronto a sostenerlo in armi.
Per questo, quando si scopre la povertà nel mondo sì è pronti a credere che essa sia dovuta alla mancanza in loco di uno sviluppo pari al nostro, in altre parole la loro arretratezza (?) è causa del loro stesso male, quindi dovere umanitario è salvarli. Convinti di ciò, della superiorità del “nostro” modello, invochiamo la liberazione di quei popoli, invadendoli magari, e sostenendo a gran voce maturo il momento di un governo mondiale, che senza necessitare di sottotitoli sarebbe ovviamente a guida americana. La tendenza in questa direzione reca in s’è un processo consapevole di auto soppressione nazionale, un picco dazio da pagare in visione di un glorioso, disinteressato, grande progetto:
dare alla terra un controllo unico. Stesse regole, stesso sistema economico, stessa moneta, stessa banca, unico potere, medesima polizia.
Questa condizione fisiologicamente porta seco un semplicissimo rapporto di proporzionalità che non sembra impensierire alcuno: più il mondo si globalizza, tanto più impoverisce la politica, e si disintegra l’uomo. La compressione spazio-tempo del progetto unico d’economia universale, svolge un’operazione restringente, asfissiante, in quelli che fino a ieri sono stati i normali rapporti sociali e aggregativi dell’animale politico uomo. L’uso della tecnologia non implica una corrispondente conoscenza scientifica. Anzi il suo possesso, in termini consumistici e di mercato, ci allontana dall’apprendere le cognizioni scientifiche che la hanno prodotta. La tecnologia così usufruita ci rende soltanto maggiormente vulnerabili e ignoranti. Lo sviluppo tecnologico facilita l’atomizzazione sociale a svantaggio di una condivisione più umana e carnale dei rapporti.
Allo stesso tempo si diluisce l’autonomia degli stati nazionali, aggregandoli in mega regioni di influenza. Il progetto, come è stato mirabilmente scritto, è piuttosto una malattia: chi la contrae, come l’Aids, perde il proprio sistema di difesa immunitario. Svuotato di contenuti lo stato, come l’uomo, smarrisce la sua capacità sostantiva e politica, e resta alla mercé del privato. Il privato assume la forma di tutto e del tutto, pure la tirannia è privata, come la morte e il proprio destino.
Le necessità di controllo nel mondo, del nuovo sistema autoritario geocapitalistico, non sono finalizzate all’accumulo di ricchezze per pochi, non solo rivisitazioni degli sfarzi del passato, non per forzieri e ori, ma mirano alla padronanza capillare sui singoli ridotti in condizione di non nuocere. Nella grande democrazia globale, paradossalmente la stragrande maggioranza degli uomini è posta nella condizione di non decidere, sia per volontà oramai fiaccata che per mancanza di mezzi, la moltitudine fa parte, come sostiene Gianfranco La Grassa, alla grande schiera dei non-decisori. Questi sono in una condizione d’interferenza reciproca, bassa bellicosità, ma senza mai sfondare il piano del potere.
 
L’uomo è solo, costretto a godere dell’attimo, di un piacere che può tentare soltanto di dilatare o replicare. Ma questo è un attimo atemporale, non ha passato e non contiene il seme del futuro. Un equilibrio precario. L’uomo così usufruisce da utente di questo attimo senza partecipare a qualcosa che gli sopravviva. Ciò che fa e consuma non appartiene a un’idea condivisa in una comunità, il suo uso non l’emancipa dalla morte, non ha memoria. L’idea d’appartenenza a un organismo più grande, ci liberava dalla paura di perdere il nostro corpo, ci si guadagnava l’immortalità in quanto la fine individuale non metteva in discussione la fine del tutto. Nella soggettività moderna, individualismo capitalistico, il nostro tutto ha il confine di noi stessi. Mentre la globalizzazione crea il villaggio totale, l’uomo si ripiega sempre più in se stesso, confortato soltanto dalla sua solitudine. Questa società che aliena l’uomo in tutta la sua vita attraverso il precariato, gli regala il terrore al pensiero della fine dei suoi giorni. Per ogni individuo la propria morte coincide con la fine del mondo. Ci accontentiamo di vivere in momenti, il loro consumo viene scambiato per la felicità, per la vita stessa. Il potere privatizzato si assume, coerentemente con la propria natura e aspirazione, il compito di distribuire questi momenti. La felicità difatti rientra nella sfera personale, per l’appunto privata. Questo potere non si occupa di giustizia, essa rientra nella sfera collettiva in via di disintegrazione, il capitalismo si occupa soltanto del privato.
La scelta di scendere dall’alto fino al piano della felicità, svolge una funzione diluente nei rapporti umani, partendo dalla famiglia, passando negli ambenti di lavoro, in quelli scolastici, ovunque. E’ una forbice che con dovizia, verticalmente, taglia il reticolo sociale in tante strisce vicine ma disgiunte. Una società micro-ridotta perde il naturale contenuto politico, e diventa impensabile l’idea stessa di stato in senso proprio. Tutto questo non è un effetto, o danno collaterale, non una ricaduta di questo sistema di potere, ma coincide con la sua precisa aspettativa, il dominio del mercato può essere sempre più invasivo senza incorrere in alcuna forma di resistenza singola o organizzata.
Nella società ridotta, frantumata in individui soli, disconnessi, ogni residua posizione culturale, politica, religiosa, è vista con sospetto quando non incanalata sotto l’ossequioso impotente silenzio, come la nullità circostante comanda.
Si matura un diffuso senso di perdita di responsabilità nei confronti della società e d’indifferenza, confuso spesso con libertà, e pertanto non colto come forma degenerativa della democrazia, ovvero negativamente, ma come condizione sostanziale della stessa. Neanche la diminuzione della partecipazione formale a questa democrazia preoccupa qualcuno. Questa incapacità e l’impossibilità partecipativa aumentano l’ininfluenza dei più.
Il fine di una società è per i liberisti quello di contenere individui. La società è soltanto uno spazio geometrico dove gli uomini si muovono guidati dalla ricerca del proprio interesse privato, felicità individuale come godimento dell’attimo, la somma dei singoli non fa neanche il totale. I fini individuali non aspirano a un bene comune, ma favoriscono soltanto una sfilacciatura del tessuto sociale perdendone la trama orizzontale.
In un sommario sentimentalismo bonario e pacifista annega la giustizia, nell’indifferenza dell’egoismo galleggia una vana libertà. Alla giustizia e alla libertà vengono cancellati i presupposti che si consacrano nell’ambito collettivo, cardine della res-pubblica.
La democrazia occidentale è solo il cappello ideologico della dittatura dei privati, fautrice dell’economia liberista.
 
L’uomo del terzo mondo è solo di fronte allo sfacelo del suo villaggio e alla sua economia tradizionale che da sempre gli aveva garantito la vita. Ora tutto è scomparso, tutto è, ed ha preso il nome di sottosviluppo. I dettami del Fmi sono gli unici comandamenti da rispettare. Non gli rimane d’attendere l’attimo, che nel suo caso si chiama carità, oppure tentare un viaggio della speranza, che non sarà mai della salvezza. Il dirimpettaio di quest’uomo, quello chiamato occidentale, e quindi per definizione evoluto, perchè già padrone dei benefici del progresso globalizzato, rimane anche lui appeso a qualche desiderio, spesso ricattato, in bilico come il funambolo. Tutti vittime dello stesso padrone che li affama e li separa, e che sempre li rende debitori.
Entrambi hanno imparato a fare l’elemosina, a nessuno viene più in mente di gridare: giustizia! Non si può invocare un’idea quando s’è smarrito il suo significato.
Su tutti un’unica volontà di dominio, la stessa che vuole cancellare la fierezza degli Ogoni, preferendoli ciondolare attorno a qualche semaforo di una metropoli, la stessa che uccide Ken Saro Wiwa, o che impone la privatizzazione dell’Ufficio veterinario in Africa, la medesima che non conosce Pomigliano e Mirafiori, ma ne detta le regole, straccia i contratti collettivi, se ne frega dello statuto dei lavoratori, si pone sopra le leggi dello Stato perché sa di essere l’unica vera autorità indiscussa.
Sotto un certo punto di vista non è vero che il mondo che stanno costruendo con la globalizzazione è deregolamentato. Visto da un’altra prospettiva è pieno di regole. Micidiali leggi, stringenti vincoli, tali al punto da stabilire la vita e la morte di migliaia di uomini quand’anche d’interi popoli. Quindi i codici da rispettare ci sono eccome, sono quelli scritti da un nuovo potere legislativo, quello del Wto, del Fmi, della Banca Mondiale e dell’usura, a cui appartengono allo stesso tempo il potere esecutivo e giudiziario. Un potere costituito interamente da privati istituti e privati individui, sui quali il cittadino, suddito, della democrazia globale, non ha alcun controllo e peso, né giuridico né morale. Mentre annullano ogni residua presenza pubblica, e si arde la sovranità, s’impongono le leggi del mercato.
In nome dell’uomo libero si privatizza il mondo, ma i benefici non hanno alcuna validità sociale se non quella di isolare ulteriormente l’uomo. Si produce una ricchezza a chiazze, ad alta differenza di usufruibilità economica, dove i sostenitori del mercato saltano da un’isola dorata all’altra senza mai sfiorare la povertà altrui.
Come scrive Jean Ziegler i potenti detengono le briglie dei “Quattro cavalieri dell’Apocalisse”, quelli dello sviluppo, della fame, della sete e della guerra.
In “La privatizzazione del mondo”, lo studioso svizzero, scrive che il Killercapitalismis è responsabile del decesso, in modo diretto o indiretto, di circa sessanta milioni di vittime l’anno. Si tratta, senza ombra di dubbio, di omicidio colposo, più spesso ancora d’omicidio volontario. Un numero di decessi simile a quello causato dalla seconda guerra mondiale, da tutti i contendenti, in sei anni.
E’ questo il mondo liberato dai totalitarismi al quale hanno dato la democrazia?
Chi stringe le briglie dei “Quattro cavalli dell’Apocalisse” sono i messi di quel sistema di potere che si struttura attraverso gli istituti privati del Fmi e della Banca Mondiale, fondati guarda caso alla vigilia della vittoria della seconda guerra mondiale, con gli accordi di Bretton Woods (il Wto nascerà dopo cinquanta anni).
I paladini del liberismo hanno avuto sempre una visione, per così dire, giusto per rimanere in tema, libera del loro libero mercato. In questo approccio si svela la vera natura di questi signori. Se da una parte la necessità di allargare il benessere, e quindi la felicità dell’uomo, implica un’estensione ad ogni costo dell’economia capitalistica che non ammette ostacoli, d’altro canto palesa l’intenzione prettamente egemonica di questo disegno. Libero mercato sì, ma con regole unidirezionali, finalizzate a salvaguardare e rafforzare soltanto la propria condizione di predonomia.
Le tesi liberoscambiste già hanno avuto dei precedenti in termini di arroganza nel secolo XIX, basti pensare alla scuola classica dell’impero britannico. L’economia doveva essere di tipo anglo-centrica, quindi l’Inghilterra si specializzava in manufatti industriali, mentre gli altri paesi potevano soltanto ruotargli intorno, dedicandosi ad una attività agricola e di miniera, per provvedere al mantenimento di “sua maestà”. Si creava uno squilibrio industriale spaventoso, ma la supremazia inglese, aiutata dalla flotta commerciale e militare, era garantita. Il tempo della perfida Albione è tramontato, lasciando il posto ai degni cugini americani, quindi si è passati ad una visione di tipo americano-centrica, dove ovviamente per americano s’intende statunitense. Intere regioni, basti pensare a tutto il centro-sud America, furono destinate al ruolo di pascoli, di piantagioni, di miniere. Mentre aumentava la produzione vertiginosa di carne per quei paesi diminuiva il consumo procapite. Così come del rame estratto quasi nulla rimaneva in loco. Tutto era esportato per le tavole yankee, o per le loro multinazionali. Le popolazioni locali potevano pure morire di stenti, quando non erano massacrate da qualche dittatura militare diligentemente protetta e formata sotto il controllo “stelle e strisce”. Questo modello ha funzionato grossomodo fino alla caduta del muro di Berlino, dopo di che le pretese del capitalismo con il provvidenziale 11 settembre, si sono globalizzate ulteriormente. Si universalizza la pretesa egemonica, mantenendo identiche le condizioni di unilateralità di cui prima. Restano le protezioni dei brevetti sui farmaci (diritti di proprietà intellettuale legati al commercio) e il divieto di mantenere una quota parte per gli agricoltori di semi per il prossimo raccolto (basti pensare alle tecnobiologie della Monsanto). Tutto garantito e controllato dai soliti organi Wto e Fmi. Così come resta la presunzione di superiorità di quel modello, che se sul piano economico prende il nome di sviluppo, su quello politico militare si ammanta dello scontro di civiltà, quando anche di difesa della cristianità, che in fondo, ma non troppo, nasconde l’antica spinta puritana della ricerca della nuova Gerusalemme, con la variante geografica che in questo caso coincide con tutta la terra.
 
Come contrastare questa egemonia? Senz’altro bisogna partire dal fatto che il potere, questo potere, ha come spina dorsale il capitalismo, certo è che opporsi significa senza dubbio sviluppare un modello completamente contrario, antitetico, senza avere la debolezza, né la speranza, di riformare quello vigente. Quindi una prima presa di posizione politica è di tipo anticapitalistica e avversa al liberismo. Questa strada parte da un presupposto sociale che trae ragione dal rapporto tra sfruttati e sfruttatori, quindi dal conflitto non risolto tra lavoro e capitale. Bisognerà prendere atto che il sistema capitalistico nel corso degli anni, specialmente negli ultimi decenni, ha operato una forma di evoluzione straordinaria, questo ci deve far riflettere di come sia necessario allargare anche i nostri orizzonti per non rimanere schiacciati sul confronto scontro, borghesia-proletariato. E’ necessario avere la lucidità di non incanalarsi su posizioni cristallizzate di lotta, modelli precedenti e immobili, al fine di non essere anacronistici e perdere ogni speranza d’efficacia.
Marx sviluppo un modello critico nei confronti del capitalismo che per molti aspetti è tuttora insuperato. Però bisogna essere coscienti che questo sistema d’idee nasceva pensando ad un capitalismo, quello inglese, che secondo il filosofo di Treviri era arrivato ad una sua forma già classica. Certo è che il capitalismo ne ha fatta di strada, si è completamente rivoluzionato, dimostrando una grande capacità adattativa e fagocitante straordinaria. Mentre la classe operaia non rappresentava allora, figuriamoci oggi, la classe per eccellenza che avrebbe dovuto portare la locomotiva verso la stazione del comunismo.
Ai nostri tempi l’insieme operaio non è neanche più classificabile come classe, numericamente ridotto, non presenta avere alcuna attitudine o coscienza rivoluzionaria, rimane succube come tutti di quel grande potere che ha sfilacciato il tessuto sociale. L’operaio come l’uomo è rimasto solo. Gli operai appartengono quindi a quella categoria ben più ampia che Gianfranco La Grassa, in “Potere e finanza”, chiama gruppo dei non decisori o dei dominati.
Lo stesso studioso denuncia, partendo dalla sua posizione e formazione marxista, che il marxismo definito teoria di “fase”, ovvero concepito e valido per un certo periodo, è stato scambiato per una dottrina generale, valida per ogni tempo e per ogni capitalismo.
Oggi come oggi la classe operaia è sempre più lontana da una coscienza, non ha neanche più un’idea e tantomeno un partito di riferimento. Si frantuma come tutto in tanti atomi, singoli che magari combattono, ma solo per una propria sopravvivenza. Tutto su uno scenario che è ben lontano dall’aver risolto il problema tra sfruttati e sfruttatori, anzi.
Pensare il contrario significa arrendersi e lasciare l’attuale egemonia riposare in sogni tranquilli. Non è un caso che nelle lotte sociali o di affermazione popolare, non è la classe operai a dirigere l’evento, ma piuttosto una comunità, una nazione intera che si rivolta in armi. Si pensi alla rivoluzione cubana, all’esempio di Guevara, all’esperienza del socialismo bolivariano, o alla lotta di liberazione del popolo palestinese o di resistenza di quello afghano o irakeno.
Prima conclusione, ovvia per alcuni da anni, non ancora tuttora digerita da altri: si può essere anticapitalisti, e aspirare ad una società socialista, senza essere comunisti. Il rifiuto di cui sopra non è assolutamente dettato da becero anticomunismo, l’anticomunismo non ha senso, ma solo dal realismo fattivo, recuperando magari parte dello stesso Marx, di cui oggi possiamo criticare il mezzo, la lotta di classe, perché sbagliata e inadeguata, ma non significa azzerare il fine, che comunque è comunitario e socialista.
In un cotesto cosi globalizzato, tra capitale e finanza, non si può non considerare che i principali contrasti, così come le nuove situazioni che ne potranno venire, avvengono su uno scorrimento e scontro geopolitico, dove la tradizionale lotta di classe non è proprio contemplata. La storia insegna, e Lenin capì, che la rivoluzione s’afferma non dov’è più forte, ma bensì dove l’egemonia è in crisi, e si sta passando da una fase all’altra, da un sistema monocentrico a uno policentrico, o viceversa.
Ancora G. La Grassa, in “Finanza e potere”, mette in luce che su tutto esistono questi grandi scontri, mentre i dominati, i non decisori, sono utilizzati come carne da macello in un’opposizione deviante e sterile, che riflette soltanto le aspettative della egemonia in affermazione o in declino. La stessa competizione tra lavoratori dipendenti, salariati-operai, contro quelli autonomi, rappresenta un conflitto inutile e forviante, in quanto avente luogo tra due parti entrambi appartenenti alla fanteria dei non decisori. A questo esempio possiamo aggiungere, di uguale inutilità ma di forma più tragicomica, quello in atto permanentemente, tra comunisti e neofascisti. Come nel precedente caso i contendenti appartengono alla categoria dei non decisosi, ma con l’aggravante di stare pure nel sottoinsieme degli sconfitti, i primi battuti militarmente 65 anni fa, i secondi in rotta per mancanza di idee.
Seconda conclusione: la globalizzazione include un contrasto mondiale per il controllo egemonico, capitalistico finanziario, del mondo, il combatterla implica un’assunzione di coscienza tale che ci liberi da forme di lotta inutili e logoranti.
La teoria che supporta la globalizzazione, non è una scienza, ma un’ideologia venduta per tale, assoluta e monoteistica. Il suo abbattimento non passerà attraverso alcun processo deterministico, il capitalismo non porta seco il socialismo.
La domanda che si pone J. Zigler è quella di come può l’uomo preservare se stesso, salvare l’istinto di giustizia e di solidarietà? L’autore di “La privatizzazione del mondo” sostiene che: “La violenza del capitale ha ampiamente intaccato la capacità normativa dello Stato. Da una civiltà repubblicana, siamo passati all’era della giungla”. Contro i predatori bisogna ricostruire la repubblica, combattere l’impero attraverso la nazione. Nello stesso testo di cui sopra viene riportato di Jurger Habermas: “La sfida consiste nel preservare le grandi conquiste democratiche degli Stati Nazionali”, e ciò passa attraverso la via obbligata della comunità.
La solitudine dell’uomo è la prova della sua attuale incapacità nel riconoscersi in un’identità condivisa, collettiva. L’uomo può ritrovare il suo coraggio, la sua completa umanità e universalità, chiedere giustizia e non mendica elemosina, quando sorretto da un tessuto sociale che ha trame non solo verticali ma anche orizzontali. Questa implicazione richiede l’appartenere a una comunità che, quando non è ubriacata da localismi miopi (autonomismo, etnicismo, l’altro aspetto della globalizzazione, mai critico completamente con il liberismo), anela a un respiro più grande e s’incontra con la nazione e un popolo tutto.
Così sintetizza Costanzo Preve: “L’eredità di Marx è al di là dell’opposizione astratta fra idealismo e materialismo. L’eredità di Marx è umanistica. L’eredità di Marx è comunitaria, ivi compresa la comunità nazionale”.
La critica al sistema capitalistico non può che spingerci verso un punto di rottura e di nuova sintesi. Alla soggettività moderna, o post moderna, si dovrà contrapporre la comunità. Quale?
La comunità si fonda su un mito e su un teleos, essi rappresentano e soddisfano le due componenti che inevitabilmente, e simultaneamente, vivono nell’uomo, vale a dire l’anima irrazionale e quella razionale.
Il nostro mito è il “mito sociale”, il telos, la meta, da perseguire è la giustizia sociale, che in questo caso sta nel socialismo.
Nel grande gelo della società di atomi soli e precari, una nave rompighiaccio chiamata comunità è in arrivo.