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Quando l’Occidente terminava in Giappone. L'etnia Ainu

di Gianluca Padovan - 14/02/2011

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Il Pensiero Occidentale deve essere consapevole nonché reale. Ma per fare questo deve innanzitutto sapere chi noi siamo e conseguentemente chi noi siamo stati. Se è vero che le radici sono importanti per la massima parte dei vegetali, perché non lo devono essere per gli esseri umani? E l’andare a ricercare le nostre radici e il vedere fin dove esse sono giunte, ci porta necessariamente a compiere anche studi di linguistica, di antropologia e di archeologia.
Vi sono lingue considerate isolate, ovvero che non si sa da dove derivino, o da dove provengano, come il basco, il coreano e il giapponese. Per quest’ultima occorre dire che i giapponesi non considerano affatto la loro lingua isolata, ma derivante dall’indoeuropeo, o meglio dall’europeo. Essi sostengono uno stanziamento nel loro arcipelago di genti con caratteristiche europee. A questo ha fatto seguito una seconda invasione, proveniente dalla Corea, di gente con caratteri tipicamente cinesi e quindi con pelle gialla, capelli lisci neri e faccia che presenta prognatismo, la quale ha spinto i precedenti isolani verso le isole del nord. Tali isolani sono oggi conosciuti come etnia Ainu, aventi connotati europoidi.
Secondo alcuni antropologi gli Ainu conservano caratteri preeuropoidi e per altri solo europoidi delle più antiche popolazioni paleo siberiane. È presente fin dal neolitico una stirpe che oggi viene indicata con il nome di Civiltà Jomon (che vuol dire “decorazione a corda”) e da cui gli Ainu discenderebbero. Tale civiltà ha lasciato ovunque testimonianze sulle isole giapponesi a partire dal VI-V millennio, ma i cui “sviluppi più cospicui si profilano solo tra il III e il I millennio” (Tamburello A., Popoli e civiltà dell’Estremo Oriente, in Biassuti R, Le razze e i popoli della terra, vol. secondo, UTET 1967, p. 642).
I “giapponesi” cominciano a giungere nell’VIII sec. a. e a poco a poco occupano le isole meridionali dell’arcipelago costringendo gli Ainu a ritirarsi nelle superiori. Le guerre di conquista, a cui fanno seguito le confische di territori e le deportazioni, proseguono fino al XIX sec. Questo non ha vietato nel tempo la fusione di elementi giapponesi con gli Ainu. Ecco un breve spaccato di storia del primo millennio estratta dalle cronache, che ci mostra Giappone e giapponesi in altre tinte: “Gli Ainu insorgono per la prima volta nel 709. Ci riprovano nel 720, ma grandi masse di Ainu vengono deportate nel sud-ovest del Giappone. I Giapponesi cominciano a fortificare la linea di frontiera e nel 758 distribuiscono terre e sementi a 1690 Ainu. Nel 759 però, 2000 coloni giapponesi si insediano nel territorio Ainu e quindi annullano l’operato dell’anno precedente. Nuova sfortunata rivolta nel 774. Nel 776 invece, riescono a distruggere alcune città e ne conquistano altre. Nel 789 i Giapponesi allestiscono un esercito di ben 52.000 soldati armati di tutto punto: vengono gravemente sconfitti dagli Ainu presso il fiume Koroma. I successi degli Ainu, oltre che alla loro abilità con l’arco, ed alla grande mobilità (“si radunavano come formiche e si disperdevano come uccelli”), erano dovuti a una organizzazione migliore che in passato” (Di Jorio E., Gli Ainu nella storia giapponese, in Mondo Archeologico, n. 4, Tedeschi Editore, Firenze 1976, p. 58).
Nella loro lingua ainu significa uomo: “Nelle Isole Curili essi si chiamano aino; e i Giapponesi li chiamarono in principio ebisu, emisu, emishi, parole che significano barbari. Come dimostrano alcuni nomi di località e di montagne, come pure i mucchi di conchiglie e di strumenti di pietra e simili, gli Ainu, prima della immigrazione dei Giapponesi, abitarono l’intero arcipelago, dal nord sino alla provincia di Satsuma nel sud dell’isola di Kyûshû, spingendosi sino alle isole Ryûkyû” (Schilling D. P., Il contributo dei missionari cattolici nei secoli XVI e XVII alla conoscenza dell’isola di Ezo e degli Ainu, in Costantini G. et alii, Le missioni cattoliche e la cultura dell’Oriente, Istituto Italiano per il Medio Oriente, Roma 1943, p. 139). Tendenzialmente cacciatori, pescatori e raccoglitori, gli Ainu vivono in villaggi e le loro capanne hanno il fondo scavato e sono a pianta sia circolare sia rettangolare. Sono provvisti di una corposa tradizione orale, rituale e figurativa, con un particolare culto dell’orso utilizzato per ingraziarsi o per comunicare con le divinità. La stirpe è composta oggi da poche migliaia d’individui dislocati nell’isola di Hokkaidō in Giappone, nella vicina e contesa Sachalin, oggi rientrante nel territorio russo, e nelle Isole Curili sottratte al Giappone dalla Russia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per molti studiosi la lingua parlata presenta somiglianze con l’indoeuropeo e, ovviamente, per altri assolutamente no: “Gli odierni Ainu mostrano un’unità razziale assai maggiore a quella della popolazione giapponese vera e propria, razzialmente mista. Sono di media statura e di corporatura generalmente robusta, hanno la pelle chiara e - almeno gli uomini - chiome abbondanti” (Watson W., Chi erano gli antichi Ainu? Il Giappone neolitico e l’attuale razza bianca, in Bacon E. (a cura di), Le civiltà del mistero. Popoli dimenticati del mondo antico, Mondadori Editore, Milano 1963, p. 95).
I caratteri somatici distintivi degli Ainu sono i seguenti: 1) Pelle bianca abbronzata, più scura negli uomini; 2) Sistema pilifero assai sviluppato; 3) Capelli abbondanti, neri e ondulati (leggermente meno nelle donne); 4) Occhi scuri (un po’ più scuri nelle donne); Occhi infossati con arcate sopracciliari marcate e munite di folte sopracciglia; 6) Assenza di plica mongolica [ripiegatura falciforme della palpebra superiore, che ricopre l’angolo interno dell’occhio]; 7) Mesorrinia con ampie oscillazioni [naso regolare come tra le popolazioni europoidi]; 8) Profilo nasale da concavo, a diritto, a leggermente aquilino; 9) mancanza di prognatismo [prominenza obliqua in avanti della faccia, spesso limitata alla bocca, come si può osservare tra genti cinesi e africane]; 10) faccia di tipo europeo, fra la Came e la Mesoprosopia [ovvero caratteri che stanno tra la tipica testa bassa e un valore intermedio tra la faccia lunga e stretta e la faccia larga; caratteri tipici dell’Europa Media e Orientale e dell’Asia Centrale e Orientale]; 11) Moderata dolicocefalia [conformazione del cranio caratterizzata da una accentuata prevalenza del diametro e della lunghezza su quello della larghezza]; 12) Statura bassa; 13) Corporatura tozza e grande apertura delle braccia maggiore della statura (105 %)» (Di Jorio E., Gli Ainu di Okkaidō, in Mondo Archeologico, n. 3, Tedeschi Editore, Firenze 1976, p. 55).
Nel testo di Schilling sono riportate anche notizie risalenti a secoli passati ed ecco quanto emerge da una testimonianza scritta da Padre Nicola Lancillotto nel XVI sec., che parla di genti bianche e guerriere che provengono da sud del Giappone: Avanti che il primo Missionario europeo ponesse piede sul suolo giapponese, il gesuita Nicola Lancillotto di Urbino compilò nell’India Orientale l’anno 1548 o seguente la prima relazione sopra Ezo e gli Ainu e la mandò in Occidente. Come riferisce lo stesso P. Lancillotto, egli doveva quelle notizie a un giapponese venuto in India. Questi era Yajirô da Kagoshima arrivato al collegio di San Paolo in Goa ai primi di marzo 1548. Nella pentecoste di quello stesso anno (20 maggio) Yajirô ricevette il battesimo dalle mani del Vescovo francescano Giovanni di Albuquerque nella cattedrale di Goa insieme con due altri suoi compagni giapponesi. La relazione del Lancillotto dice: “Al di sotto della Cina e del Giappone verso nord-est trovasi una vasta terra che ha il nome di Gsoo [Esoo]. Gli abitanti di questo paese vengono nel Giappone con grandi navi e piccole per far la guerra ai Giapponesi.
Non si accampano a terra, ma sono come pirati di marte che saccheggiano lungo la costa e fuggono. Oltre all’arco e alle frecce e una spada assai corta non hanno altra arma. Il colore di questo popolo è bianco. Hanno lunga barba e i capelli tagliati [sul davanti]. Sono di grande corporatura, combattono coraggiosamente e non temono la morte. In guerra uno di loro può stare a petto di cento nemici, come usano fare i tedeschi” (Schilling D. P., op. cit., pp. 142-144).