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Perché ci rifugiamo nel Duce

di Alessandro Campi - 08/03/2011

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Un paese dal futuro incerto e dal presente ballerino, qual è l’Italia odierna, è normale che si rifugi nel passato. E dovendo scegliere a quale passato appigliarsi è altresì normale che si vada su un intramontabile classico: il testone lucente del duce, l’unico protagonista della nostra storia recente capace di mettere d’accordo e appagare – beninteso per opposte ragioni – tutte le tifoserie.

A destra, il Giornale ha deciso di regalare ai propri lettori il testamento di Mussolini, seguito a ruota da Libero, che ha invece optato per i diari “veri o presunti” (in realtà semplicemente falsi, diciamo apocrifi per delicatezza) del medesimo. Una scelta meramente documentale, senza concessioni apparenti al nostalgismo, giustificata dal desiderio degli italiani – così hanno argomento all’unisono Alessandro Sallusti e Maurizio Belpietro – di saperne di più di sulla vita di quest’uomo. E se la motivazione non convince, visto che del capo del fascismo si conosce ormai da anni ogni più infimo particolare, resta l’argomento economico: Mussolini editorialmente tira e fa vendere. E tanto sembrerebbe bastare, anche se andrebbero spiegate le ragioni di una fortuna commerciale tanto persistente.

A sinistra, MicroMega ha scelto la strada, culturalmente più impervia e si ritiene scientificamente più rigorosa, della comparazione storica, che prelude tuttavia alla chiamata alle armi in nome dell’etica e di un antifascismo che non demorde. Non si tratta, in questo caso, di titillare l’inconscio fascistoide degli italioti, o di fare cassetta in modo facile come nel caso della stampa destrorsa, ma di far capire al mondo e a quella fetta di popolo ancora non obnubilato dalla pubblicità quanto il dittatore del passato somigli all’autocrate odierno: stesso sprezzo per la democrazia parlamentare, analogo istrionismo da teatrante, medesimo culto di sé. Al diavolo se i confronti storici sono spesso fallaci, quel che importa è la forza evocativa di un paragone capace di alimentare le residue certezze e il senso di superiorità di una sinistra politicamente allo sbando.

Il fascismo dovrebbe essere un capitolo lontano – ampiamente metabolizzato – della nostra storia. Ma evidentemente torna utile come metafora di una nazione smarrita e avvitatasi su se stessa, che ha bisogno del precedente eclatante ed esemplare per dare un senso ai suoi movimenti scomposti odierni. E dunque la sconfitta dell’odiato avversario è  sempre un 25 aprile o una simbolica Piazzale Loreto, il conflitto tra istituzioni un perenno 8 settembre, un cambio traumatico di governo una riedizione del 25 luglio. Un Paese che ha perso l’immaginazione e la capacità di cambiare, ricorre fatalmente all’unico immaginario che abbia drammaticamente inciso sul suo cammino, modificandone il corso in profondità. Non si tratta, evidentemente, del rischio che il passato ritorni in forme rinnovate, ma dell’incapacità a liberarsene e a guardare avanti come collettività.

Quanto al duce, non passa mai di moda, a destra e a sinistra, per la semplice ragione che la prima ne ha coltivato un’immagine bonaria e superficiale, da romanzo d’appendice, per non assumersi la responsabilità di averne sostenuto l’avventurismo politico, mentre la seconda ne ha fatto, contro ogni evidenza storica, un’icona del male e l’epitome del servilismo italico, nella convinzione – maliziosa e strumentale – che perpetuarne il fantasma minaccioso e incombente possa tornare sempre utile nella lotta politica per distinguere i buoni dai cattivi.

In entrambi i casi si è finito per piegare il giudizio storico al sentimentalismo da rotocalco, al pregiudizio ideologico e all’interesse contingente, con gli esiti parossistici e finanche comici che oggi vediamo. A destra ci si compiace di leggere Mussolini in una luce crepuscolare e intimistica, secondo l’estetica del bel tempo andato, sorvolando sul fatto che si sia trattato di un dittatore e che abbia condotto l’Italia ad una guerra rovinosa. A sinistra, che smesso l’armamentario marxista legge ormai la storia in una chiave teologica, come perpetua ripetizione degli stessi errori e di un male originario, se ne ritrovano periodicamente le sembianze, astratte dal loro contesto storico effettuale, nel nemico oggettivo di turno: ieri Craxi, oggi il Cavaliere, domani chissà chi.

L’effetto complessivo è quello di un Paese smarrito e indeciso, sull’oggi e sul domani, sostanzialmente immobile, proprio perché incapace di fare i conti con la propria storia e di guardare oltre, aduso ad utilizzare il passato non come riserva d’esperienze collettive, da meditare per non ricadere nei medesimi inconvenienti, ma come accumulo disordinato di memorie individuali e parziali, come armamentario polemico a disposizione dei contendenti politici d’ogni colore.

Non è vero – come si dice – che Mussolini tocchi corde profonde e sensibili, il che lo renderebbe una presenza nostro malgrado ingombrante a dispetto dei quasi settant’anni trascorsi dalla sua morte. Il fatto che ancora se ne parli, come il protagonista di un feuilleton o come un tiranno sanguinario, non essendo stato né l’uno né l’altra cosa, dipende solo dalla nostra superficialità e da un residuo di malafede intellettuale che tocca tutte le espressioni della cultura e della politica italiane. In una nazione seria Mussolini sarebbe da un pezzo materia esclusiva dei libri di storia. In quest’Italia rissosa e inconcludente siamo invece riusciti a farne l’oggetto di una contesa insensata che ci inchioda drammaticamente al passato.