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Ecate: divinità infernale o celestiale? Una analisi simbolica

di Roberta Astori* - 01/06/2006




Imagini de li dei de gl'antichi di Vincenzo Cartari Reggiano (Venetia 1556), immagine di Ecate Triforme

 

In queste pagine si cercherà di analizzare secondo una prospettiva simbolica la figura della dea Ecate, tentando di riabilitarne l’immagine, spesso relegata erroneamente al solo dominio infernale. E’ pertanto necessaria  una preliminare, anche se sommaria, descrizione iconografica di questa divinità. Ecate viene quasi sempre rappresentata in forma triplice, tanto che l’appellativo che più spesso accompagna il suo nome è quello di  Triformis. Questo triplice aspetto la caratterizza come nume tutelare dei crocevia, ossia dei punti d’incrocio di tre strade dirette in opposti versi. La formazione triadica è tipica del mondo ideale dell’antichità e spesso si applica alle divinità femminili potenti. Essa si associa all’idea del ciclo e dell’evoluzione – sia in termini temporali, come passato-presente-futuro (si pensi, infatti, che anticamente la divisione del mense era tripartita, e  le tre fasi lunari del mese erano proprio rappresentati dalla Ecate lunare) che di evoluzione coscienziale, come cammino dallo stadio caotico-uroborico a quello celeste. Ecate, pertanto, può assumere sia il volto di una fanciulla, che quello di donna e di vecchia, oppure, arricchita di attributi simbolici ulteriori, essa appare spesso in forma ferina: con le sembianze di cane, serpente, cavallo o leone, a seconda delle tradizioni. La sua iconografia si completa di altre variabili: in mano può portare delle torce accese, un ramoscello d’ulivo, una chiave o la cosiddetta “trottola magica”. Ai piedi calza dei sandali dorati. Nella sua forma celeste indossa delle vesti bianche, mentre l’aspetto infernale è caratterizzato da un abbigliamento di colore nero. Spesso è accompagnata de un segugio o da una schiera di cani ululanti.

 

 

Origini e fonti testuali

Ecate potrebbe essere fatta derivare dalla divinità egiziana Heket, che a sua volta si è evoluta in Heq, matriarca dell’Egitto  predinastico. In Grecia, essa era una divinità pre-olimpica, poi assorbita dal pantheon ellenico. Dalla Teogonia di Esiodo  (411-413) sappiamo che la sua genealogia deriva dai Titani Phoibe e Koios, i quali ebbero due figlie: Leto, madre di  Apollo ed Artemis, e Asteria, la quale dall’unione con Perses, diede alla luce  Hecate:

êd' hupokusamenê Hekatn teke, tên peri pantôn

Zeus Kronidês timêse: poren de hoi aglaa dôra,

moiran echein gaiês te kai atrugetoio thalassês (1).

Una tradizione più tarda la fa figlia di Zeus ed Era, riducendo la sua sfera d’azione al mondo ctonio (2) .

Tuttavia, le sue origini sono incerte: la maggioranza degli studiosi è concorde nell’affermare che questa figura nasca nell’Asia Minore occidentale e precisamente nella regione della Caria. Dalle scarse testimonianze in nostro possesso, possiamo arguire che si trattasse di una divinità connessa ai passaggi attraverso zone liminali: per questo motivo Thomas Kraus, in una monografia dedicata alla dea, (3) la associa ad Apollo che, nella mitologia greca, con l’epiteto di Agyieus, aveva un’analoga funzione di guardiano delle porte e delle strade. Molti studiosi, invece, la assimilano alla Grande Madre anatolica: sebbene probabilmente ci sia una certa dose di verità in quest’ipotesi, essa non ha molta rilevanza ai fini delle origini di Ecate stessa, dal momento che virtualmente, tutte le divinità femminili – e in particolar modo quelle orientali – sono legate alla figura della Grande Madre (4) .

La prima testimonianza letteraria in cui Ecate fa la sua comparsa da protagonista è la Teogonia di Esiodo (vv. 411-452): si tratta del noto inno a lei dedicato, la cui interpretazione da parte degli studiosi ha generato nel tempo numerose controversie nel tentativo di spiegare l’esaltazione della dea al di sopra di qualsiasi altra divinità, Zeus compreso, il quale “la favorì più di tutti gli altri dei” (5) . La giustificazione – come suggerisce J. S. Clay nel suo saggio The Ekate of the Teogony (6) - risiede nel suo peculiare carattere di intermediaria  fra gli esseri immortali e quelli terrestri: un aspetto che la rende virtualmente partecipe –  o meglio fautrice - di qualsiasi rapporto o connessione fra umano e divino. Inoltre, Ecate appartiene alla schiera di divinità femminili panelleniche cui è stato attribuito l’epiteto culturale di megas, “grandi”: Artemis, Aphrodite, Demeter-Kore, Nemesis, Nike e Tyche.

La seconda apparizione di Ecate nella letteratura greca è l’omerico Inno di Demetra, sulla cui autenticità gli studiosi non sono del tutto concordi, considerandolo per la maggior parte un’interpolazione successiva. In ogni caso, il brano va certamente interpretato come la prima esplicita allusione alla dea nel suo ruolo di guida nei luoghi e nei momenti di passaggio o transizione. In 1.24 abbiamo infatti il racconto del ratto di Persefone da parte di Hades, a cui Ecate assiste come testimone, assieme al dio Helios. Successivamente, in II. 51-59, diviene una sorta di messaggera per Demetra,  per rientrare in scena in I. 438,  immediatamente dopo il ritorno di Persefone sulla terra. Da quel momento, come recita l’inno, “la regina Ecate divenne colei che precedeva (propoloz) e seguiva (opawn) Persefone”: pertanto, è sia una guida che una protettrice. Il testo lascia sottintendere, quindi, che Ecate accompagni fisicamente Persefone nel suo itinerario di discesa agli inferi e in quello della successiva ascesa in terra. Dal momento del ratto, il viaggio si ripeterà ogni anno, e per ogni anno Ecate farà da scorta alla figlia di Proserpina. In tal modo, essa acquisisce una nuova caratterizzazione e il ruolo più ampio e generalizzato di traghettatrice delle anime dei defunti.

Ecate appartiene anche ai testi di Sofocle, dove viene menzionata con l’epiteto di Enodia, appellativo applicato anche ad altre divinità che svolgono la medesima funzione protettiva delle aree liminali (porte e crocicchi), come ad esempio Hermes.  Nella Teogonia esiodea, in XXV.4. Ecate Enodia (7) è quindi la figura numinosa (8) e tutelare delle strade, in particolare nei punti dove esse si incrociano. A Roma sarà Trivia: come suggerisce l’etimo del termine, essa prende nome e forma proprio da questa sua connessione con il trivium stesso, la zona di incontro di tre vie. Pertanto, essa deriverà l’appellativo e la caratterizzazione di triforme, che la rappresenterà, nell’iconografia tradizionale, come figura luminosa dal triplice aspetto e dal triplice volto: umano nella sua forma terrestre, equino nella sua veste lunare e canino nel suo habitus infernale (9). Nei paragrafi successivi, si analizzerà nel dettaglio il ruolo simbolico del tre e i differenti aspetti che questa triplicità fa assumere alla divinità in questione. Qui basti fare ancora un breve accenno alla sua connessione con un’altra divinità collegata alle zone liminali, ossia quella di Giano, rappresentato tradizionalmente come bifronte.

Giano viene menzionato assieme ad Ecate nel  sesto inno di Proclo, in cui il poeta invoca le due divinità a soccorso e a protezione del proprio cammino esistenziale, proprio in qualità di custodi delle porte, quindi – simbolicamente – delle regioni e dei momenti iniziatici della vita. Ecate qui viene appellata come proquraia, ”custode delle porte”, appunto (10).

Ancora in relazione a Giano viene citata da Arnobio nel suo Adversus Nationes, in 3.29 (fine del III sec. d.C.), dove si elabora una genealogia in cui il nume bifronte risulta essere figlio di Ecate e del Cielo.

Inoltre, le due divinità sono accomunate dal medesimo appellativo di amfiprwspoz, "dalla doppia faccia”, epiteto che esprime la facoltà di guardare in due direzioni, applicato in Proclo (11) ad Ecate e in Plutarco a Giano (12) . L’aggettivo può riferirsi anche all’abilità di interagire con due differenti realtà: caratteristica peculiare della Ecate esaltata nel sistema caldaico, di cui si parlerà più avanti. Si noti bene che nei testi appena citati si  parla di una Ecate bipartita e non tripartita, così come viene tradizionalmente descritta. Forse ciò si deve ancora al fatto che , nel sistema caldaico la funzione principale di Ecate era proprio quella della mediazione tra i due regni intelleggibile e sensibile, tra i quali essa si pone come anima cosmica.

Altri documenti letterari a testimonianza del ruolo apotropaico assunto da Ecate in epoca ellenistica si ritrovano in Eschilo e Aristofane: in entrambi i casi, la dea viene menzionata come nume tutelare di porte e accessi, con l’epiteto di Propylaia: pare che le fosse consacrato un culto sull’Acropoli di Atene e in particolare al suo ingresso, i Propilei appunto, dov’era collocata a protezione della rocca una statua della dea.

Anche Pausania (13) fa cenno a questa tradizione, citando una Hekate epipurgdia, la cui rappresentazione nel suo aspetto triforme veniva venerata sull’Acropoli accanto al tempio di Nike. Con ogni probabilità si tratta della stessa Ekate Propulaia citata da Eschilo.  Ecate assume il ruolo di guida e di protettrice dei passaggi non solo fisici ma anche temporali. E’ così che essa diviene anche la divinità che presiede alla nascita e alla morte venendo invocata – non a caso – in momenti astrologici di particolare pregnanza simbolica, come ad esempio il plenilunio. In questa circostanza – come testimonia lo scoliasta di Aristotele Apollodoro (III sec. d.C.) – ad Ecate venivano offerti dei banchetti rituali, denominati hekataia. In particolare, qui si menziona il sacrificio rituale del pesce triglh, sacro alla dea. Anche Plutarco (14) fa cenno a questi sacri convivi.

In Senocrate (15) troviamo per la prima volta il nome di Ecate in esplicita associazione alla Luna, in relazione alla teoria platonica secondo cui l’astro notturno avrebbe una funzione di intermediazione tra il mondo sensibile e quello intelleggibile. La sua natura di tramite è collocata da Senocrate all’interno di un sistema tripartito, dove il sole e le stelle occupano la parte, per così dire superiore (o la prima pukna, come lui stesso la definisce), la terra e le acque quella inferiore e la luna quella mediana. Questa concezione rimanda anche alla teoria medica di Ippocrate, che assimila la Luna al diaframma, ossia alla zona mediana del corpo umano. Ma la luna non è solamente un’intermediaria, essa segna e definisce un limite tra due zone ben distinte; anzi è di per sé stessa un limite, un confine tra quei due mondi.

E’ proprio in questi termini che ne parla Plutarco (16), descrivendola come una barriera che divide il mondo fisico da quello spirituale. Inoltre, essa viene descritta come l’agente di una mediazione - e pertanto di una trasmissione - del principio vitale stesso. Ciò non è in contrasto con la natura bi-sessuata (17) di Ecate, che possiede in sé entrambi i principi della generazione, il maschile e il femminile.

Già Porfirio (18) ed Eusebio stesso si erano riferiti ad Ecate chiamandola “Luna”; lo stesso accade nei papiri magici, dove il nome della dea diviene intercambiabile con quello di Selene. Precedentemente, la stessa assimilazione con la Luna era spettata ad Artemide, divinità con cui Ecate verrà a sua volta identificata e di conseguenza confusa.

Già con gli Stoici (II sec. a.C.) si tenta di tracciare un parallelo tra Apollo/Sole e la sue sorella gemella Artemide, che diviene transitivamente, “Luna”. Dai tempi di Plutarco, l’associazione di Artemide con la luna è ormai un topos.

“Eccomi, una vergine con varie forme, che vaga nei cieli,

Un frammento di Porfirio (19) ci presenta un vero e proprio ritratto di Ecate, nel suo aspetto sincretico: la divinità viene qui descritta in alcuni suoi attributi come Selene, come Eleithya e come Artemide:

“con volto di cane, tre teste, inesorabile, con dardi dorati ... ”

Altre prove della corrispondenza tra Ecate e la Luna si ritrovano in Seneca (20) e nel già citato Plutarco.

Entrambi gli autori erano fortemente influenzati dalle correnti mistico-filosofiche che si andavano diffondendo con sempre maggior forza già dal primo secolo d.C. Queste fonti attribuivano alla luna una funzione e una natura intermediaria, oltre che di guida delle anime dei defunti – meglio chiamate daemones – sul limite che separa le sfere terrestri da quelle celestiali. Un ruolo, questo, analogo a quello attribuito ad Ecate e pertanto funzionale all’identificazione delle due entità.

Ecate assolve, quindi, a una funzione escatologica, ossia di salvazione. La salvazione consiste, in questo caso, proprio con il passaggio, e quindi con l’evoluzione e il perfezionamento dell’anima. Tale  escatologica di Ecate – mediata dalle teorie mistico filosofiche del medio platonismo – si inserisce all’interno di un sistema cosmologico che Senocrate descrive come una struttura triangolare in cui i demoni e la Luna partecipano sia della natura terrena che di quella ultraterrena. Nell’antichità post-classica, questo carattere di compartecipazione alla natura celeste e terrestre viene trasferita ad Ecate che diviene, di conseguenza, la patrona dei demoni, tanto da essere spesso definita la loro “regina” (21), a differenza di quanto accadeva invece in epoca classica, quando essa era piuttosto la dominatrice dei fantasmi. Allora si credeva che queste creature, non ben identificate né definibili proprio per la loro condizione di fatale ed eterna transitorietà, vagassero senza posa come anime in pena in una sorta di Limbo, dopo una morte prematura o violenta. Si credeva inoltre che queste infestassero quei sepolcri e crocicchi (22) che come si diceva erano consacrati ed Ecate ed erano il teatro delle sue invocazioni. Questi esseri senza pace assunsero una connotazione decisamente negativa e terrifica che, come vedremo, si mitigherà solo successivamente grazie all’influsso delle teorie medio platoniche che vedevano i daemones  semplicemente come un medium tra il regno umano e quello superno. Il senso di orrore che circondava nella classicità queste figure spettrali venne quindi a caratterizzare quello della loro domina.

Si accennava poc’anzi alle teorie medio platoniche che riabilitarono il ruolo dei demoni e, di conseguenza, anche quello di Ecate loro regina. Appartengono a questa corrente gli Oracula Chaldaica (23), formulazioni di tipo profetico composte nell’epoca del secondo ellenismo, in cui compare di sovente il nome di Ecate in associazione al già citato ruolo di guida attraverso le zone liminali.  Ma non solo: alla dea viene attribuita anche una funzione cosmologica, ossia quella di intermediaria delle idee e per ciò stesso di strutturatrice del mondo fisico. Nel tardo pensiero mistico-filosofico diverrà molto diffuso e popolare il concetto di triadizzazione  di entità e sostanze. Nel sistema caldaico la triade cosmologica è formata da un cosiddetto “Primo Intelletto”, fautore delle Idee, un “Secondo Intelletto” che le fenomenizza portandole alla sostanza (entità, quest’ultima, identificabile con il Demiurgo del Timeo  platonico a cui la corrente caldaica si rifà in larga misura) e un’entità mediana (assimilabile all’Anima Cosmica) che ha la funzione di trasmettere e trasportare queste idee dal mondo spirituale a quello fisico. Ecate è assimilabile a quest’Anima Cosmica. In particolare, una delle funzioni della triade caldaica è quella della misurazione, ossia della divisione della sostanza fisica in proporzioni significanti: dall’idea si passa alla materia, dal caos primordiale a una strutturazione armonica. In sostanza, Ecate è l’entità mediana e il tramite tra questi due estremi, oltre ad essere in un certo senso anch’essa creatrice, o meglio “madre” delle anime individuali. Infatti, uno degli attributi ecatei più spesso citati negli oracoli caldaici, è proprio il suo “ventre” (colpoi), rappresentazione simbolica dell’organo di trasmissione delle idee e, quindi, di generazione e materializzazione delle sostanze fisiche. Questo ventre viene impregnato da tuoni e lampi, emanazioni del Primo Intelletto (altrimenti detto Primo Fuoco) e simboli delle Forme o Idee platoniche, e dopo aver dato loro nutrimento le rilascia nel mondo fisico.

In un altro oracolo caldaico (Frag. 52) Ecate è definita come la fonte dell’acqua dell’anima cosmica: simbolicamente, quindi, essa  è la fonte della vita (24). Nel Frag. 51 essa anche sorgente della luce, del fuoco, dell’aria e dell’etere; in sostanza ad Ecate si attribuisce il potere vitale su tutti gli elementi: essa è il ventre del cosmo. Questa facoltà di animare con la vita ogni cosa le dà anche la possibilità di rianimare i morti, come sostiene Psello in Hyp. Keph. 74.10 K.

La mediazione, nel sistema caldaico, è un atto schiettamente vitale e pertanto la mediatrice per eccellenza di tutti i processi vitali non può che essere la madre del mondo. Per riassumere brevemente, si può dire che, col Medio-Platonismo, Ecate cominci ad essere sincretizzata con altre divinità e la sua figura inizi a includere nuovi tratti: nel tardo misticismo, il suo ruolo tradizionale di guida e guardiano viene modificato e ampliato, in funzione di un crescente interesse per le entità mediatrici, ritratte e considerate come trascendenti, staccate dal mondo umano.

Questa nuova interpretazione è in contrasto con quella più sensazionalistica della dea-strega che è cara alla divulgazione tradizionale , e di cu itroviamo traccia in molta letteratura della latinità classica: dalle Metamorfosi di Ovidio (25), dove Ecate è chiamata in causa dalla maga Medea assieme ad altre entità del mondo ctonio per invocare il ritorno di Giasone dall’Ade, a Seneca, che nell’Oedipus (26) fa recitare a un veggente, intento a invocare le ombre del Tartaro, le seguenti parole:

“Il cieco Chaos si sta spalancando, e al popolo di Dite si apre una strada verso il regno superno!”, non appena sente l’ululato dei cani infernali che fanno sempre da scorta a Ecate. La dea, quindi, apre il passaggio al corteo delle anime defunte. Al contrario, essa può anche impedire il loro ritorno: è in questi termini che la menzionano Apuleio (27) e Luciano (28), che descrive la dea mentre dalla Terra ridiscende nelle dimore infernali accompagnata dal suo corteggio di anime. Anche la Sibilla di virgiliana memoria invoca Ecate “potente in Terra e in Cielo”, prima ancora di Persefone, la Notte e la Terra, e le offre un sacrificio affinché le dia accesso alle terre dell’Ade (29).

Nel Bellum Civile di Lucano (30) assistiamo a una scena ambientata in una grotta descritta come un luogo “a metà tra il mondo supero e quello infero”, dove Ericto tenta di rianimare un cadavere con l’invocazione di Ecate, nume che le permette di entrare in contatto col morto. In relazione a questo aspetto  magico-stregonesco, è necessario menzionare quelle entità demoniache denominate negli oracoli “cani” e ritenute tradizionalmente far da scorta ad Ecate nelle sue epifanie. Si tratta di creature divoratrici di anime, esseri menzogneri e malvagi  che si approfittano della debolezza umana per ingannare e terrorizzare i mortali, allo scopo di far loro deviare il cammino verso la purificazione. Il cane è spesso nominato ed associato, quindi, al lato più oscuro di Ecate.

Ne parla Orazio nella ottava Satira (31), quando descrive il rituale di evocazione negromantica officiato dalle due megere Sagana e Canidia: mentre esse performano l’orrenda cerimonia, che prevede il sacrificio di  un’agnella nera, i cani infernali (infernae canes) di Ecate ululano in lontananza.

Anche Virgilio (32) nomina questi cani ululanti che accompagnano l’arrivo della dea; così come Apollonio di Rodi (33) che li descrive mentre abbaiano raucamente, quando un’Ecate terrificante, la chioma formata da orribili serpenti, emerge dalla terra. Licrofone (34) fa dire a Cassandra come sua madre Ecuba spaventerà i mortali col suo abbaiare sinistro, accodandosi alla schiera dei cani che accompagnano Ecate nelle sue scorribande notturne. Questi demoni-cani sono paragonabili, quindi, ai fantasmi notturni che si credeva accompagnassero la dea durante le sue apparizioni e potevano portare l’uomo alla pazzia. La loro funzione era quella di esaudire le invocazioni e le maledizioni pronunciate dal mago nel corso delle cerimonie negromantiche, in cui non si mancava mai di pronunciare il nome di Ecate. Essa, in virtù della sua natura intermediaria non può che essere la dominatrice di queste essenze a loro volta intermedie, siano esse positive o negative “buone” o “cattive”. Ciò non è in contrasto con quanto detto finora riguardo all’immagine salvifica che emerge dall’analisi della letteratura oracolare caldaica operata dalle correnti medioplatoniche a cavallo tra il II e il III sec. d.C. Tuttavia, va detto che nella letteratura classica greca e latina, così come nei papiri magici prevale decisamente il suo aspetto ctonio ed infernale.

D’altronde, anche nella dottrina neoplatonica, identificata con l’Anima Cosmica/Physis, rimane comunque un’entità tentatrice, dal momento che così come può elevare le anime individuali, allo stesso modo, complici i demoni che le fanno corteggio, può attrarle inesorabilmente verso il basso.

Questa connessione con il magico, quindi, pare non aver perso mai del tutto la sua forza suggestiva: anche nel sistema neoplatonico Ecate è una divinità oracolare, in grado di dare informazioni al teurgo sulle modalità di utilizzo dei mezzi magici, in modo da riuscire a oltrepassare i limiti del mondo fisico. Il tramite tra il teurgo e la divinità è la cosiddetta simpatia cosmica, resa attiva da Ecate. Questa corrispondenza simpatica si attiva grazie all’utilizzo di simboli, emblemi o mezzi magici, come la cosiddetta “trottola di Ecate”, descritta da Psello (35) come una “ […] sfera dorata costruita attorno a uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio, con sopra dei caratteri incisi. Facendola girare (il teurgo) era solito operare delle invocazioni. Ed essi solevano chiamare questo strumento iugx,  che fosse sferico, triangolare, o di altra forma. Girandolo, produceva dei suoni particolari, imitando il verso di una bestia, ridendo o facendo piangere l’aria. (L’oracolo) insegna che il movimento della trottola, con il suo potere ineffabile, portava a termine il rito. E’ chiamata “Trottola di Ecate” poiché è consacrate a Ecate.” Questo strumento, altrimenti detto “cerchio magico” è in grado di ispirare visioni profetiche. In tal senso essa rimanda all’aspetto lunare di Ecate, chiamata anche Antea, ossia “colei che invia le visioni”. L’ispirazione lunare spesso si confonde con la pazzia: “il tipo di comprensione o ispirazione che la luna dà non è un pensiero razionale, è più simile alla intuizione artistica del sognatore o del veggente”. (36)

Per quanto riguarda l’uso della trottola nelle cerimonie magiche, esso è documentato già dall’antichità. Essa viene utilizzata nei rituali di envoûtement per il suo potere di provocare l’amore, nelle cerimonie tempestarie per la facoltà di chiamare i temporali e nelle evocazioni per il suo potere di determinare l’apparizione della divinità. Anche in questo caso la potenza dello strumento risiede nel fatto che esso produce dei suoni incantatori; suoni che si credeva avessero un effetto propedeutico nell’aiutare la simpatia tra gli elementi del cosmo, armonizzandoli tra loro. Il movimento armonico delle sfere rotanti, infatti, determinava mimeticamente, per analogia, quello delle sfere celesti e, perciò, degli esseri cosmici. Come si diceva poc’anzi, il loro suono aveva un ruolo fondamentale in questo processo, così come ogni altro espediente che fosse in grado di attivare il processo simpatetico: erbe, pietre, conchiglie ed animali. Tornando ad Ecate, essa ha un ruolo fondamentale nell’attivazione di questa simpatia ed armonia cosmica, poiché presiede al funzionamento degli iugx, che nella dottrina caldaica, poi mediata dal neoplatonismo, vengono identificati con i simboli che rimandano alle Idee: ritorna di nuovo il carattere di intermediazione proprio e peculiare della divinità. Spesso, questi simboli coincidono con delle parole magiche e segrete, pronunciate dall’officiante nel corso della cerimonia teurgica. Questi incantesimi provocano l’apparizione di Ecate,  descritta in tre frammenti degli Oracula (37) sotto forma di fuoco, luce o nell’aspetto di un cavallo bianco. Il suo arrivo è preannunciato dall’oscurarsi del cielo, dallo spaventoso tremore della terra e dalla materializzazione di un fuoco parlante che dà responsi. Le manifestazioni fisiche abnormi che sempre accompagnano l’avvento di un’entità numinosa si devono al fatto che ciò rappresenta la rottura di un limite, il passaggio dalla sfera immortale a quella mortale. La visione dell’universo equivale a quella di una struttura divisa in zone gerarchicamente separate: l’Olimpo abitato dagli dei, la Luna regno delle anime, la Terra per gli uomini. Il rovesciamento di questa gerarchia provoca quindi un momentaneo disturbo dell’ordine cosmico, che si palesa con eventi catastrofici o eclatanti. Per quanto riguarda invece l’apparizione di un fuoco parlante, che rappresenta fisicamente la voce di Ecate, va sottolineato come spesso – e non solo nel sistema caldeo – la luce ed il fuoco si associno al divino: appare simbolicamente evidente come questi elementi rappresentino il raggiungimento della conoscenza e il contatto con una dimensione superiore. Basti  pensare alle loro caratteristiche di luminosità e al loro simbolismo ascensionale che le mette in relazione alla dimensione celeste. In questo caso la visione non è spaventosa né terrificante, ma è sinonimo di bellezza: questa ambiguità nella connotazione dell’aspetto di Ecate diventerà un suo carattere peculiare. La dea può risultare orribile così come splendida: qui compare sicuramente in una forma celestiale. Negli stessi frammenti presi in considerazione essa viene descritta anche sotto forma equina: in realtà, sono poche le esplicite associazioni della dea con il cavallo, e comunque sono successive a quella che ritroviamo nei frammenti considerati. Piuttosto, è più corretto considerare quello equino come uno dei tre volti di Ecate nella sua forma triadica, di cui si è già accennato. In ogni caso, qui preme sottolineare come anche la sua apparenza fisica, tradizionalmente associata all’oscurità e all’orrore, possa essere invece considerata sotto un aspetto luminoso e splendente.

 


Ecate - Parigi - Cabinet des Medailles
 

 

Analisi simbolica: Il tre

Secondo la filosofia pitagorica, ogni forma è esprimibile numericamente e i numeri stessi sono archetipi divini, creando con le loro relazioni l’armonia del cosmo. Essi sono pertanto l’archè, il principio di ogni cosa. Dio, l’originario, è l’Uno, che si manifesta nella dualità. Da tesi e antitesi scaturisce, infine, la sintesi della Trinità, che rappresenta l’integrazione degli opposti e, quindi, la perfezione. Nell’antichità, la forma triadica era associata prevalentemente alle figure femminili: le Grazie (Gratiae e Charites), dee della bellezza al seguito di Venere/Afrodite: Aglaia, Eufrosine e Talia, figlie di Zeno ed Eurinome; le Ore, personificazione delle stagioni secondo un’originaria tripartizione calendariale dell’anno: Tallo (la fioritura), Auxo (la crescita) e Carpo (il frutto), figlie di Zeus e Temi. C’erano poi le Parche (o Moire, o Fate), figlie della notte, che avevano il compito di assegnare agli uomini il loro destino. Venivano rappresentate nell’atto della filatura, col fuso tra le mani:

 

Loto tesseva la trama della vita, Lachesi la conservava e Atropo, inesorabilmente, la tagliava. Altra triade femminile è quella delle Gorgoni: Stimo, Euriale e Medusa, esseri terrificanti dotati di ali e capigliatura serpentina. Sorelle delle Gorgoni, le Graie Enio, Pefredo e Dino: le “Vecchie” dalle “belle guance”, possedevano un occhio e un dente in comune. Altre divinità spaventose, le Erinni o  Furie, dee della vendetta. nate dal sangue di Urano, Aletto, Tisifone e Megera erano rappresentate con ali e capelli di serpente, tra le mani fruste e fiaccole. Nella loro connotazione, in veste di  protettrici dell’ordine morale, erano chiamate Eumenidi. Si  pensi, infine, alle Muse, che originariamente dovevano essere tre e solo  in seguito vennero aumentate alla seconda potenza, in numero di nove. Anche nella latinità classica ritroviamo diverse divinità femminili a struttura ternaria, chiamate genericamente Matronae.

Lo stesso accade in altre tradizioni e culture, anche in tempi  più recenti: si pensi Alle Tre Beth di area alpina (Ainbeth, Wilbeth e Warbeth, altrimenti dette Caterina, Barbara e Lucia), a cui corrispondono le tre Norne di area germanica, la Trimurti della tradizione induista (Brama, Shiva e Vishnu), assimilabile e sua volta alla Trinità cristiana, rappresentazione dell’unità della natura divina nelle tre espressioni personali di Padre, Figlio e Spirito Santo. Inoltre, nella dottrina alchemica, così come nella tradizione caldea a cui si è accennato nel paragrafo precedente, è il mondo stesso ad essere tripartito in corpo, anima e spirito.

Seguendo questa lunga e nutrita tradizione, anche Ecate si  presenta in forma triadica. Ecco cosa possiamo leggere in uno dei noti Papyri magici (38):

Accostati a me, divina signora, Selene dai tre volti […]

regina che porti la luce a noi mortali,

tu che chiami dalla notte, faccia di toro, amante della solitudine […]

dea dei crocicchi […]

Sii pietosa con me che t’invoco,

ascolta gentile le mie preghiere,

tu che regni di notte sovra il mondo intero”

 

E ancora, nel Paradiso di Dante (39):

Quale ne’ pleniluni sereni

Trivia ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni”

 

Come risulta evidente, Ecate è stata interpretata come figura triadica in relazione alla Luna e, in particolare, al ciclo delle sue fasi (nascente, crescente e calante), oppure, similmente, nella sua rappresentazione antropomorfa, come fanciulla, donna e vecchia.  Si consideri come essa venga sempre al concetto della metamorfosi o trasformazione riguardo al trascorrere del tempo o meglio ancora in relazione al compiersi di un percorso circolare, che dalla nascita porta alla morte e viceversa, attraverso la rigenerazione e la resurrezione.

Oppure, Ecate triadica è Trivia, nume tutelare di  porte e crocevia, quindi divinità mediatrice e guida nei passaggi. La sua funzione, tuttavia, è analoga, se non la medesima. In ogni caso, infatti, il ruolo della dea è quello di aiutare e favorire il compiersi di un percorso che presenta delle tappe intermedie.

Per quanto riguarda questo ruolo di mediatrice, esso verrà approfondito nelle sue valenze simboliche nel paragrafo dedicato ad “Ecate intermediaria”, mentre il simbolismo lunare verrà discusso nel paragrafo seguente.

Per concludere il discorso su Ecate triforme, procediamo ad un’analisi degli elementi simbolici più frequentemente descritti come suoi attributi tipici nella veste triadica.

1.  Il cane

Ecate, nella sua veste infernale si presenta – come già evidenziato in precedenza - sotto forma canina. Il cane è un animale associato al mondo ctonio, basti pensare al già citato Cerbero, guardiano dei cancelli dell’oltretomba. Poiché lo si considera una guida fedele durante la vita terrena, il cane veniva sacrificato ai defunti per accompagnarli nel viaggio ultramondano: così accadeva anche nelle culture precolombiane, dove l’animale veniva utilizzato nei culti funerari  sempre con la medesima funzione. Anche le divinità associate alla morte si   presentavano in forma canina nella veste di psicopompi: così il dio Xolot dell’antico Messico, il quale scortava i morti nel loro cammino verso l’aldilà e l’egizio Anubi, rappresentato in forma di sciacallo. In relazione al mondo dei morti nella sua connotazione terrifica, il cane viene associato ai demoni infernali e quindi al dominio diabolico e stregonesco. Ricordiamo a tal proposito i cani-demoni che fanno da corteggio a Ecate nelle sue apparizioni: latravit hecates turba, testimonia Seneca in Oedipus, 568. Questi cani sono infallibilmente neri, altro colore associato alla notte, alla morte, al mondo infernale e ad Ecate, spesso identificata e nominata come Luna nera.

2.  Il cavallo

Nonostante rappresenti la forza e la vitalità, anche questo animale viene posto in relazione col regno dei defunti. Esso è caricato di una forte ambiguità simbolica: è emblema solare se traina il carro di Apollo, ma evoca la morte come cavalcatura dei cavalieri dell’Apocalisse. Viene associato anche alla magia e gli si attribuiscono facoltà divinatorie e profetiche, soprattutto in epoca medievale. In ogni caso, esso è collegato all’idea di ascesi in particolare nella sua rappresentazione alata (Pegaso), quindi ben si adatta all’aspetto celeste della dea triforme.

3.      Il Leone, Il Serpente

Come si è già accennato, alcune fonti tradizionali attribuiscono alla forma terrestre di Ecate un aspetto di leone o di serpente.

Il leone si associa al sole e alla forza. Al di là della sua tradizionale connotazione simbolica, qui basti sottolineare che esso viene spesso rappresentato come figura tutelare delle porte: così in Giappone, sotto forma di cane-leone (karashish), all’ingresso delle aree templari.

Il Serpente si collega, invece, alla morte e al mondo infernale per la sua abitudine a nascondersi in luoghi sotterranei; d’altronde esso può avere una connotazione positiva in associazione alla vita, ma soprattutto alla resurrezione. Si consideri, infatti, la sua capacità di rigenerarsi dopo la muta. Pertanto, esso rappresenta la fede nella rinascita che, come abbiamo detto, è uno degli attributi simbolici più forti e pregnanti della Ecate triforme terrestre. Inoltre, si pensi alla figura dell’uroboros, il proverbiale “serpente che si morde la coda”, simbolo del trascorrere ciclico del tempo in un eterno ritorno. Nella simbologia alchemica, inoltre, esso è anche legato all’idea di raffinazione e perfezionamento delle sostanze: a un processo di purificazione che, di nuovo, ci riporta all’idea di ascesi, che appartiene al contesto simbolico dell’Ecate celeste.

 

4.  I dardi dorati,  le torce accese

Così come la nostra Ecate, anche altre divinità a lei assimilabili o associate (Apollo, Artemide/Diana ed Eros) erano dotate di frecce, le quali rappresentavano un’arma offensiva e un tratto distintivo allo stesso tempo. La freccia, per le sue caratteristiche di velocità folgorante e aggressività distruttiva, può essere associata al fulmine, simbolo dell’illuminazione divina e dell’energia vitale. Essere colpiti dal fulmine (così come dal dardo di eros, ad es.) corrisponde a un cambiamento di status, o significa ricevere una segnatura divina, un segno di elezione. Pertanto, i dardi dorati di Ecate, anche per il colore e la luminosità, possono essere associati simbolicamente alle torce accese che essa tiene in mano e, quindi,  a quel suo aspetto celeste che si cercherà di evidenziare meglio nelle pagine successive.

Nel fondamentale sistema dualistico che contrappone luce e tenebre, Ecate riveste senz’altro entrambi i ruoli, ma rappresenta, fondamentalmente, colei che illumina, seppur nelle tenebre. Ecate lunare, infatti, simboleggia l’illuminazione ottenuta attraverso la speculazione, tramite un ciclo che dal principio originario (oscuro, indistinto) porta all’armonia spirituale (simbolicamente connessa alla luce in diverse tradizioni) attraverso un’evoluzione ascensionale.


La Luna - carta dei tarocchi detti di Carlo VI
 

 

1.    Il ramoscello d’ulivo
L’ulivo è universalmente noto come simbolo di vittoria e trionfo e, conseguentemente, di   pace. Esso rappresenta comunque l’elezione, in relazione al sacro. Il crisma, ossia l’olio d’oliva viene spesso utilizzato nei riti di purificazione e nelle cerimonie iniziatiche (alle quali Ecate presiede per definizione): basti pensare, ad es., al battesimo cristiano. Lo stesso Cristo è l’“Unto del Signore”, ossia colui che è segnato dal Crisma, appunto.
 

2.      Il papavero, il cesto di frumento

Entrambi questi elementi richiamano senz’altro la figura di Demeter-Kore/Ceres/Cibele, divinità sincretica dal nome diverso a seconda dell’origine (greca, romana, anatolica), con cui Ecate è collegata dal mitico racconto omerico cui si è già accennato in precedenza, in relazione al ratto di Proserpina, figlia di Demetra, di cui la dea notturna è testimone.

Ceres/Cibele, identificata con la greca Demeter, figlia di Saturno e madre di Proserpina, è una divinità femminile e materna associata alla terra e alla fertilità. La sua era una funzione principalmente tutelare, di protezione dei raccolti e delle terre coltivate, specialmente a grano. Era anche la dea della nascita: tutti i fiori, la frutta e le cose viventi erano ritenuti suoi doni. L’iconografia tradizionale la ritrae con uno scettro, un cesto di fiori (tra cui il papavero), frutta e una ghirlanda fatta di spighe di grano. Nella mitologia, il papavero è indissolubilmente legato al concetto di fecondità, oltre ad avere delle valenze magiche per le sue proprietà ipnotiche, note fin dall’antichità. Per queste caratteristiche il fiore si associa anche alla sfera semantica del sogno e del sonno e quindi, metonimicamente, della notte a cui spesso Ecate viene collegata, tanto che persino Sheakespeare  nel suo King Lear (Atto I, Scena I), offre simbolicamente i sogni ai “misteri di Ecate”. Per le sue facoltà profetiche e oracolari, date dalla sua natura triplice, che le permette di guardare in ogni direzione - passata, presente e futura - Ecate viene collegata anche all’interpretazione e alla lettura dei sogni. Tornando al papavero e ai suoi derivati, queste sostanze venivano utilizzate dapprima a scopo puramente medicinale, successivamente ingerite a scopo voluttuario o allucinogeno, trovando largo impiego anche nel sabba. Spesso, infatti, i partecipanti al rito sabbatico assumevano delle sostanze psicotrope che li aiutavano a intraprendere il loro viaggio onirico. Non è improbabile che il sabba stesso e le azioni che vi si svolgevano – voli notturni, amplessi col demonio, metamorfosi animali, ecc.- fossero il frutto di un’allucinazione derivata proprio dall’ingestione di sostanze stupefacenti.

Ma quello che qui conta nuovamente rilevare è la fonte ispiratrice del mito, legato all’attività agraria e alla fecondità; l’a