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Deliziosa delizia (e incanto)

di Marco Iacona - 08/03/2011

Fonte: scandalizzareeundiritto


 
«Eccomi là. Cioè Alex e i miei tre “drughi”. Cioè Pete, Georgie e Dim. Ed eravamo seduti nel Korova Milk Bar, arrovellandoci il “gulliver” per sapere cosa fare della serata. Il Korova Milk Bar vende “lattepiù”, cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quel che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto, e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza». Impossibile non riconoscere questi “versi”. È l’inizio diArancia Meccanica il film del 1971 (quarant’anni adesso) di Stanley Kubrick che ha spiegato a due generazioni di giovani che, almeno per i nostri tempi, la violenza è una componente “basilare” dell’esistenza (lo è dell’uomo ed ènell’uomo), e non c’entra nulla né col bene e né col male.
La violenza per Kubrick può essere ironica, pesante, leggera, fresca, comica; può essere insomma qualsiasi cosa. È ambigua per definizione. La si combatte, ma la si può eliminare – in modo artificiale, tramite tecniche di condizionamento – solo a patto che gli uomini diventino dei robot, e siano incapaci così di vivere con pienezza il proprio tempo. La violenza può essere facilmente gestita da chi ha confidenza col potere; e in questo come in altri casi, diventa essenziale il ruolo di chi detiene i fili del destino altrui...
Robetta un po’ forte, naturalmente, che qui o lì può ricordare Hobbes o il nostro Jünger o qualche romanziere da “stato di natura” come il Nobel dell’83 William Golding. Ad alcuni la figura del protagonista ricorda perfino il mito della caverna di Platone, ma con un percorso esattamente opposto. Probabilmente però il film del ’71 è solo il lato più esposto di un Novecento che ha visto cadere, una ad una (o mescolarsi l’una all’altra), le categorie filosofiche sulle quali, bene o male, il mondo si è retto fino al XX secolo. Arancia meccanica è così un grande affresco del nichilismo contemporaneo, la cui cornice è rappresentata da splendide immagini pop, abiti, arredamenti e comuni copertine dei dischi dei Pink Floyd o dei Beatles, accessori del tutto naturali per l’universo giovanile… Non per niente, al pari di un’opera di Jünger (pensiamo a Nelle tempeste d’acciaio) per criticareArancia meccanica verranno utilizzati termini come “estetica della violenza” o “tappa finale dei valori”.
Il film è tratto dal romanzo in parte biografico di Anthony Burgess (scrittore inglese morto nel 1993), Un’arancia a orologeria del 1962 edito da Einaudi, ed è, comunque la si pensi, fra le pellicola più importanti del panorama internazionale della “settima arte”. Un film che si è guadagnato quattro nomination all’Oscar nel 1972, ma molto meno del suo reale valore.
Straordinaria l’interpretazione di Malcolm McDowell nel ruolo dell’adolescente Alex DeLarge, protagonista assoluto della pellicola, il capetto di una banda di bulli (i quattro “drughi” appunto), indescrivibilmente violento ma allo stesso tempo beethoveniano e pazzo per la Nona sinfonia (la “Corale”) del genio di Bonn. Ma l’interpretazione di McDowell - che in seguito lavorerà col nostro Tinto Brass - perfettamente a suo agio nei panni (e nella divisa) del teppista inglese, ha qualcosa di eroico e di creativo: di sostanziale insomma. Chi ha visto il film ricorderà oltre alle “comuni” scene di violenza (pestaggi e punizioni), anche la scena fondamentale nella quale sottoposto a una singolare terapia riabilitativa (singolarmente nominata “Ludovico”), Alex subisce un trattamento col dilatatore oculare, uno strumento “infernale” (e impressionante), che causerà delle vere e proprie ferire agli occhi del ventisettenne McDowell.
Il momento creativo dell’interpretazione è posto invece all’inizio del film, durante lo stupro a casa dello scrittore Frank Alexander. Nella scena è lo stesso McDowell a “inventarsi” il motivetto “Singin’ in the rain” su invito di Kubrick che aveva chiesto all’attore di canticchiare una canzone a suo piacere. Un vero colpo di genio. Una genialata (peraltro assai criticata dall’autore della canzone), che evidenzia il contrasto solo apparente di cui vive Arancia meccanica. La violenza non è figlia né dell’ignoranza né dell’insensibilità, come comunemente si pensa. Ma è una variabile del tutto “indipendente”, e non ha madri o padri che possano fare da capri espiatori.Arancia meccanica dà insomma pochi punti di riferimento: la società va governata, i fenomeni spiacevoli come la violenza non sono estirpabili, vanno semplicemente guidati entro le aree cosiddette istituzionalizzate a tutto vantaggio del potere. L’arte, la conoscenza e perfino la buona educazione ricevuta in famiglia non rendono un uomo migliore di quello che è destinato a essere. E allora? Sembra un circolo vizioso, il circolo vizioso del nichilismo contemporaneo.
Spieghiamoci meglio: secondo una vecchia iconologia, la musica cosiddetta classica va in tandem quasi esclusivamente col professore seduto in poltrona (meglio se vecchio e con la pipa in mano), con le immagini sacre (chiese o luoghi della memoria) o con le elegantissime sale da concerto; la musica dei grandi maestri del Sette-Ottocento veicola altra cultura insomma, è un anello di una lunga catena, un riflesso condizionato che presuppone la visione di immagini altrettanto nobili. Se ci si ciba di grande musica, se si possiede una spiccata sensibilità all’arte (come Alex), non si può essere dei delinquenti. È una tipica visione ottocentesca, da manuale della devianza, una visione positivista che, in parte, conquista anche adesso la nostra fantasia.
Kubrick, grande osservatore/anticipatore o interprete delle anticipazioni, capovolge questa convinzione. Spezza la catena che lega espressioni artistico-musicali a immagini “stereotipe” e in maniera del tutto naturale (come avverrà in quasi tutti i suoi film, si pensi al più celebre 2001: odissea nello spazio), utilizza le note del grande Rossini come colonna sonora per le malefatte dei quattro “drughi”; anzi perfino i “pianissimi” e i “fortissimi” orchestrali possono rappresentare la fonte di ispirazione per le violenze consumate a colpi di lame e bastoni. È una rivoluzione estetica di straordinaria portata, sulla quale, forse, non si è mai riflettuto a sufficienza… All’interno del film, alla musica d’autore, come ulteriore nota di ambiguità, il compositore donna Wendy Carlos (nato Walter, cioè uomo), abbina i suoi arrangiamenti elettronici col mitico “Moog”, creando degli effetti suggestivi di vera contaminazione, giocati sul peso tempo e sulle trasformazioni dovute all’immancabile progresso.
Una rivoluzione estetica che fa del linguaggio utilizzato inArancia meccanica, uno strumento di comunicazione diverso, un monitor acceso sulle ambiguità e i cambiamenti intervenuti nel XX secolo e in particolare negli anni Sessanta.
Ovviamente non si può parlare solo del legame fra arte e sensibilità individuale. Ma possiamo dire anche del linguaggio utilizzato da Alex e dalla sua banda, un linguaggio anch’esso artificiale, ambiguo perché di triplice derivazione (inglese, russo e gergale), inventato da Burgess: il cosiddetto Nadsat (“gulliver” per esempio sta per “testa”, “devocka” sta per “ragazza” e “Bog” per Dio), che simboleggia un universo “nuovo”, esclusivo, fatto dai giovani e per i giovani. Quasi necessario in quel “mondo a sé” che nei Sessanta – quando viene pubblicato il romanzo – è il mondo giovanile in piena emersione, e ancor più necessario in quel “girone a sé” rappresentato dall’ampia “categoria” dei violenti. In questo caso, sicuramente ancor di più che nella rivoluzione per l’utilizzo della musica, Kubrick ha saputo anticipare tempi nei quali un linguaggio “cifrato” caratterizza l’appartenenza a un gruppo.
Nel 2007 dopo ben 36 anni dalla prima uscita, Arancia meccanica è stato finalmente trasmesso per la prima volta da una televisione italiana in seconda serata (su La7), grazie alla decisione di abbassare il divieto ai minori di 14 anni (prima invece lo era ai minori di 18). Da qualche anno, dunque, il capolavoro kubrickiano ha guadagnato nuovi spettatori, cioè le leve sempre nuove alle quali il film-capolavoro sembra dedicato. È bene però, a tal proposito, non dimenticare una lezione elementare: l’estetizzazione della violenza, l’iper-realtà con la quale essa viene rappresentata, non è un “invito” a esercitarla ma al contrario è di per sé un “appello” alla condanna. A un grande regista non serve strillare insomma. Esso si comporta come il grande saggio: indica direttamente e silenziosamente la luna. Tutto ciò che rimane è solo responsabilità nostra...