Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Libero scambio, il grande distruttore

Libero scambio, il grande distruttore

di David Morris - 10/03/2011

http://utenti.multimania.it/spada03/cappuccio.jpg

Il libero scambio è la religione del nostro tempo, con il suo paradiso – l’economia mondo – e i suoi fondamenti analitici e filosofici. Per enunciare i suoi teoremi si fa appello alle matematiche superiori, ma, in ultima analisi, il libero scambio è meno una strategia economica che una dottrina morale. Malgrado la sua pretesa di essere esente da giudizi di valore, riposa su di essi, in quanto presuppone che la suprema felicità consista nell’acquistare, che mobilità e cambiamento siano sinonimi di progresso. Il trasporto del capitale, dei materiali, delle merci e delle persone ha priorità sull’autonomia, la sovranità e la cultura delle comunità locali. Invece di favorire e conservare le relazioni sociali che rendono una comunità vivente, la teologia del libero scambio invoca una rigida definizione dell’efficacia come guida della nostra condotta.

I POSTULATI DEL LIBERO SCAMBIO
Dopo tre decenni di lavaggio del cervello, i principi e i pretesi benefici del libero scambio ci sembrano scontati:
•    la concorrenza stimola l’innovazione, aumenta la produttività e abbassa i prezzi;
•    la divisione del lavoro permette la specializzazione, che ugualmente aumenta la produttività e abbassa i prezzi;
•    quanto più importante è la dimensione delle unità di produzione, tanto più grandi sono la divisione del lavoro e la specializzazione, e dunque i loro vantaggi.

Il culto del grande impregna tutto il discorso politico. Il dipartimento del Tesoro preconizza la creazione da cinque a dieci banche americane giganti. “Se vogliamo essere competitivi sul mercato mondiale dei servizi finanziari, dobbiamo modificare le nostre concezioni sulla dimensione delle istituzioni americane", dichiara. Il vice presidente della Citicorp mette in guardia contro “la confortante idea che 14000 banche siano un grande bene per il nostro paese”. La rivista liberale Harper’s condivide pienamente: “Le aziende agricole, come le imprese di quasi tutti gli altri settori, sono cresciute. Lo hanno fatto per trarre vantaggio dalle economie di scala generate dai moderni metodi di produzione”. Lester Thurow, consigliere democratico del presidente americano, stigmatizza le leggi antitrust e le accusa di partecipare di “una vecchia concezione democratica fuori moda”. Egli sostiene che persino l’IBM, il cui volume d’affari è di 50 miliardi di dollari, non è abbastanza importante per il mercato mondiale. “Le grosse società talvolta schiacciano le piccole”, concede Thurow, “ma è meglio che le piccole imprese americane siano schiacciate da grosse imprese nazionali che da ditte straniere”. La rivista In These Times, che si definisce settimanale socialista indipendente, conclude: “Le imprese siderurgiche giapponesi hanno potuto avvantaggiarsi sui loro concorrenti americani costruendo acciaierie di dimensioni più grandi”.
L’infatuazione per le grosse strutture comporta logicamente il seguente postulato: il bisogno di mercati mondiali. Ogni ostacolo all’espansione dei mercati riduce la possibilità di specializzarsi e dunque nuoce alla competitività aumentando i costi.
L’ultimo sostegno del libero scambio è il principio del vantaggio comparativo, che si presenta sotto due forme: assoluta e relativa. La nozione di vantaggio comparativo assoluto è più facile da comprendere: tenuto conto delle loro risorse naturali e dei loro differenti climi, il Guatemala dovrebbe coltivare banane e il Minnesota allevare lucci. Specializzandosi così in ciò che può produrre meglio, ogni regione gode di un vantaggio comparativo in questo ambito. Il vantaggio comparativo relativo è un concetto meno intuitivo, ma in definitiva più fecondo. Nel XIX secolo, David Ricardo, l’economista britannico architetto dell’economia del libero scambio, lo spiega in questo modo: “Supponiamo due uomini che fabbricano ciascuno scarpe e cappelli, uno dei quali supera l’altro nelle due lavorazioni; ma supponiamo che la sua superiorità non sia che di un quinto (20%) nella fabbricazione dei cappelli e di un terzo (33%) nella fabbricazione delle scarpe. Non è forse interesse di entrambi che l’individuo più competitivo si dedichi esclusivamente alla fabbricazione delle scarpe e il meno competitivo alla fabbricazione dei cappelli?”.
Così, anche se una regione è capace di fabbricare tutto più efficacemente di un’altra, ha interesse a specializzarsi negli articoli che produce con maggiore efficacia, in termini relativi, e a scambiarli con gli altri. Ogni regione, e in definitiva ogni nazione, dovrebbe specializzarsi in ciò che fa meglio.
Cosa implicano i principi del libero scambio? Che le regioni e le nazioni abbandonino la loro indipendenza. Che rinuncino alla loro capacità di produrre numerosi articoli per concentrare i loro sforzi solo sulla produzione di alcuni di essi. Che importino ciò di cui hanno bisogno ed esportino ciò che producono.
Più grosso è, meglio è. L’umanità è mossa dall’interesse materiale di ciascuno. La competizione è preferibile alla cooperazione, la dipendenza all’indipendenza. Queste sono le basi del libero scambio. Insomma, barattiamo la sovranità sui nostri affari contro la promessa di più lavoro, di beni e servizi, e di un livello di vita superiore.
Agli occhi dei zelatori del libero scambio, cercare di ostacolare l’evoluzione economica equivale a voler impedire l’evoluzione naturale. Suggerire di scegliere un’altra via di sviluppo è considerato, nel migliore dei casi, come un tentativo di invertire il corso della storia, nel peggiore, come un atto contro natura, se non addirittura un peccato.
Questa forma di determinismo storico ha dei corollari. Non soltanto passiamo da economie semplici ad economie complesse, ma anche da economie integrate ad economie caratterizzate dalla scissione, dove il produttore è separato dal consumatore, il contadino dalla cucina, la centrale dall’apparato elettrico, la discarica dalla pattumiera, il banchiere dal depositante e, inevitabilmente, il governo dal cittadino. In questo processo di sviluppo, dissociamo autorità e responsabilità: coloro che assumono le decisioni non sono quelli che ne subiscono le conseguenze.
Come l’Homo sapiens è considerato il più grande successo della natura, così la società multinazionale o sovranazionale è diventato il nostro animale economico più evoluto. L’economia planetaria esige istituzioni planetarie. Lo stesso Stato-nazione inizia a sparire, tanto come oggetto della nostra affezione ed entità geografica nella quale ci identifichiamo, quanto come importante attore degli affari mondiali.
L’economia planetaria si integra e le nazioni si disintegrano. Yoshitaka Sajima, vice presidente di Mitsui & Company USA, afferma: “Gli Stati Uniti e il Giappone non commerciano più tra loro; fanno parte l’uno dell’altro”. Lamar Alexander, ex governatore repubblicano del Tennessee, esprimeva la stessa idea quando dichiarava che l’obiettivo della sua strategia di sviluppo consisteva nell’“integrare l’economia del Tennessee a quella del Giappone”.
In Europa, il Mercato comune, che negli anni Cinquanta comprendeva sei paesi e dieci negli anni Settanta, oggi ne conta sedici, e le barriere tra queste nazioni sono rapidamente smantellate. Ci sono sempre meno aziende italiane, francesi o tedesche, ma soltanto superaziende europee. I governi degli Stati Uniti, del Canada e del Messico hanno costituito l’ALENA per integrare economicamente i paesi dell’America del Nord.
Stimolare le esportazioni sarebbe indispensabile per il successo di un programma di sviluppo economico.
La globalizzazione mobilita la nostra attenzione e le nostre risorse. Ci si dice che il nostro principale compito è di alimentare, ampliare e gestire i sistemi mondiali emergenti. Tutti discutono di commercio. I dirigenti politici aspirano a creare sistemi stabili propizi ai mercati finanziari mondiali e ai tassi di cambio. Le menti più brillanti di questa generazione fanno appello a tutto il loro ingegno per fissare i principi regolamentari e finanziari che permetteranno di massimizzare un flusso ininterrotto di risorse tra le nazioni.
La globalizzazione modifica i nostri legami e allenta le nostre relazioni di vicinato. “Nel nuovo ordine planetario, nessuna fedeltà lega ai lavoratori, ai prodotti, all’impresa, alla fabbrica, alla comunità e persino alla nazione”, proclama il New York Times. Martin S. Davis, presidente di Gulf and Western, dichiara: “Secondo le nuove regole, ci si può liberare di tutte queste catene. Non possiamo essere affettivamente legati a un particolare fattore di produzione”.
Ormai, siamo tutti fattori di produzione. Gettare alle ortiche i legami di fedeltà non è cosa facile, ma è il prezzo che crediamo di dover pagare per godere dei vantaggi del villaggio planetario. Ogni comunità deve raggiungere il costo di produzione più basso possibile, anche se questo obbliga a rompere ciò che resta del contratto sociale e di secolari tradizioni.
La versione rivista e corretta del sogno americano è chiaramente descritta da Stanley J. Mihelick, vice presidente di Goodyear addetto alla produzione: “Finché non avremo abbassato i salari reali a un livello molto vicino a quelli del Brasile e della Corea, non potremo far godere degli incrementi di produttività i salariati restando competitivi”.
Gli aumenti di salario, la protezione dell’ambiente, il sistema nazionale di assicurazione contro le malattie, le azioni di risarcimento danni, insomma tutto ciò che appesantisce il costo di produzione e rende l’impresa meno competitiva costituisce una minaccia per la nostra economia. Dobbiamo rinunciare a vivere bene per sostenerla. Siamo impegnati in una lotta mondiale per la sopravvivenza, e il libero scambio è divenuto una necessità.

LA DOTTRINA È IN DIFFICOLTÀ
Anche se la dottrina del libero scambio esercita un tale ascendente, le assurdità della globalizzazione diventano palesi. Facciamo l’esempio degli stuzzicadenti e delle bacchette “cinesi”.
Alcuni anni fa, nel ristorante di Saint Paul, nel Minnesota, usai uno stuzzicadenti made in Japan avvolto in della plastica. Il Giappone ha poco legno e niente petrolio. Ciò nonostante, nella nostra economia globalizzata è divenuto abbastanza redditizio trasportarvi piccoli pezzi di legno e barili di petrolio, avvolgere gli uni nei derivati dell’altro e spedire il prodotto finito in Minnesota. Questo stuzzicadenti ha probabilmente percorso più di 80000 chilometri. È vero anche il contrario. Una fabbrica di Hibbing, nel Minnesota, produce ora 1 miliardo di bacchette monouso all’anno, destinate a essere vendute in Giappone. È facile immaginare due mercantili che si incrociano nel nord del Pacifico. Uno trasporta verso il Giappone piccoli pezzi di legno dal Minnesota, l’altro piccoli pezzi di legno dal Giappone verso il Minnesota. Questa è la logica del libero scambio.
La situazione critica nella quale si trovano i paesi del Sud mette molto bene in evidenza la sua assurdità. Sono stati spinti a chiedere prestiti per costruire un’infrastruttura economica allo scopo di specializzarsi nei settori dove hanno maggior successo (in ossequio alla teoria del vantaggio comparativo) e di aumentare così la loro capacità di esportazione. Per rimborsare i loro debiti, i paesi del Terzo Mondo devono incrementare le esportazioni.
Ne è derivato in particolare un vero sconvolgimento della produzione alimentare che, destinata in origine al consumo interno, lo è ora all’esportazione. Così, in Brasile, la produzione di derrate di base (riso, fagioli neri, manioca e patate) per abitante è diminuita del 13% dal 1977 al 1984. Per contro, la produzione a testa di derrate esportabili (soia, arance, cotone, arachidi e tabacco) è aumentata del 15%. Oggi, mentre la metà dei suoi compatrioti soffrono di malnutrizione, un eminente agronomo brasiliano insiste nell’affermare che la crescita delle esportazioni è “una questione di sopravvivenza nazionale”. Nel villaggio planetario, le nazioni sopravvivono affamando le loro popolazioni.
Cosa ne è dei pretesi benefici del libero scambio, in particolare dell’aumento del livello di vita?
Tutto dipende dai criteri presi in considerazione. Le ineguaglianze tra i paesi e, nella maggior parte dei casi, all’interno di essi, si sono approfondite. Due secoli di scambi commerciali hanno accentuato le disparità nei livelli di vita del pianeta. Secondo l’economista Paul Bairoch, nel 1750 il PNL per abitante era approssimativamente lo stesso nei paesi sviluppati e in quelli che non lo erano. Nel 1830, il rapporto era dell’ordine di 1 a 4 in favore dei primi. Oggi, è di 1 a 8. L’ineguaglianza è al contempo la causa e l’effetto della globalizzazione. L’ineguaglianza in un paese accelera la globalizzazione perché riduce il numero di persone con un sufficiente potere d’acquisto; un agricoltore o un industriale deve dunque vendere ai ricchi di diversi paesi per raggiungere la scala di produzione necessaria per ottenere un costo relativamente basso. L’ineguaglianza è anche un effetto della globalizzazione, perché i settori dell’esportazione impiegano pochi lavoratori, che ricevono salari sproporzionatamente più elevati dei loro compatrioti, e perché i paesi sviluppati tendono a far uscire dai paesi del Sud più capitali di quanti ne investono.
Si presumeva che il libero scambio potesse migliorare il nostro livello di vita. Tuttavia, anche negli Stati Uniti, la più sviluppata di tutte le nazioni, ne constatiamo il declino dal 1980. Inoltre, secondo diversi studi, nel 1988 vi si lavorava quasi mezza giornata in più a settimana rispetto al 1970, per un salario reale inferiore. Quanto al tempo libero, chi lavora negli Stati Uniti negli anni Novanta ne ha meno di due secoli prima.

UN NUOVO MODO DI PENSARE
È tempo di rimettere in discussione la validità della dottrina del libero scambio e del suo prodotto, l’economia planetaria. Per questo, dobbiamo cominciare a parlare di valori. Gli uomini sono forse avidi di guadagno e animati da uno spirito di competizione, ma sono anche capaci di cooperare. Diversi studi hanno mostrato che il settore volontario dell’economia è importante e produttivo quanto il settore salariato. Abbiamo trasformato un gran numero di relazioni umane in transazioni commerciali, e ci si può a buon diritto chiedere se questo fosse necessario o positivo.
Non confondiamo cambiamento e progresso. Bertrand Russell ha detto un giorno che il cambiamento era inevitabile e il progresso problematico. Il cambiamento appartiene alla scienza, al progresso, all’etica. Bisogna che decidiamo a quali valori teniamo di più e poi concepire un’economia che li difenda.

I PRESUPPOSTI DEL LIBERO SCAMBIO RIESAMINATI
Poiché si presume che i prezzi ci guidino nei nostri acquisti, le nostre vendite e i nostri investimenti, essi dovrebbero informarci sull’efficacia, che possiamo valutare in funzione delle risorse naturali utilizzate nella fabbricazione dei prodotti e della più o meno grande quantità di rifiuti generati dalla conversione delle materie prime in prodotti intermedi o di consumo. Tradizionalmente, abbiamo misurato l’efficacia in funzione dell’uomo, ossia contando il numero di ore di lavoro necessarie alla fabbricazione di un prodotto. Ma in effetti i prezzi non sono una misura dell’efficacia reale.  A dire il vero, non sono la misura affidabile assolutamente di niente. Nell’economia planetaria, i prezzi delle materie prime, della manodopera, del capitale, dei trasporti e della rimozione dei rifiuti sono tutti abbondantemente sovvenzionati. Così, la distanza tra le remunerazioni di una manodopera dalle qualificazioni comparabili è talvolta di 1 a 30 e riesce a spazzare via la nozione di produttività individuale. Un americano può produrre due volte più di un messicano in un’ora, ma è pagato dieci volte di più.
A Taiwan, ad esempio, gli scioperi sono proibiti. In Corea del Sud non si può costituire un sindacato senza l’autorizzazione del governo. In molti paesi in via di sviluppo non esiste né salario minimo, né orario di lavoro massimo, né una legislazione che protegga l’ambiente. Come nota l’economista Howard Wachtel, “le differenze tra costi di produzione dovute a istituzioni politiche totalitarie o a limitazioni dei diritti economici non riflettono alcun vantaggio naturale, alcuna efficacia superiore dell’impresa. Il libero scambio ignora il fatto che delle istituzioni politiche non siano confrontabili, proteggendo i diritti dell’individuo in un paese, negandoli in un altro”.
I prezzi dei beni e dei servizi nei paesi sviluppati sono grandemente falsati dalle sovvenzioni. Le tasse pagate dagli automezzi pesanti non bastano a coprire i danni che infliggono alla rete stradale. Gli agricoltori della California acquistano l’acqua al 5% del prezzo di mercato (il restante 95% è finanziato da enormi sovvenzioni concesse alle grosse aziende). Negli Stati Uniti, la società nel suo insieme sopporta i costi dell’inquinamento agricolo. Dopo essere così intervenuti in diverse maniere nel processo di produzione, ci accorgiamo che costa meno praticare la coltura vicino al punto vendita.
I prezzi non sono indicatori fedeli all’interno di un paese; non bisogna confonderli con i costi. Il prezzo è pagato dall’individuo, il costo è sopportato dall’insieme della comunità. Nei paesi industrializzati, si constata un’enorme disparità tra il prezzo di un bene o di un servizio pagato dall’acquirente e il costo dello stesso bene o servizio che grava sulla società.
Spesso è difficile quantificare i costi sociali, ma questo tuttavia non significa che sono insignificanti. Prendiamo l’esempio del rinnovamento dei centri delle città negli anni Cinquanta e Sessanta. Interi quartieri sono stati spianati per costruire grattacieli e centri commerciali, le tasse fondiarie sono aumentate e si è creduto di aver fatto un buon lavoro. Poi i sociologi, gli economisti e gli urbanisti hanno scoperto che ciò che era stato distrutto non erano quartieri poveri smembrati, ma comunità etniche unite, dove intere generazioni erano cresciute e avevano lavorato, dove i bambini giocavano e andavano a scuola. Se si potessero quantificare la distruzione delle famiglie, le vite spezzate e le spese dell’assegnazione di un nuovo alloggio e della ricreazione di una vita comunitaria, forse constateremmo che la città ha perso. Se utilizzassimo un sistema contabile prendendo in considerazione l’insieme dei costi, forse non ci lanceremmo mai più in tali imprese.
Il nostro rifiuto di comprendere e contabilizzare i costi sociali di certe forme di sviluppo ha causato danni tanto nelle campagne quanto nelle città. Nel 1944, Walter Goldschmidt, lavorando sotto contratto per il ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, ha paragonato le caratteristiche economiche e sociali di due comunità rurali californiane, simili sotto tutti gli aspetti, tranne uno. Dinuba era circondata da fattorie familiari, Arvin da grosse aziende agricole. Dinuba si è rivelata più stabile, il livello di vita era più alto, le imprese più piccole, il commercio al dettaglio più fiorente, le scuole e altri sefvizi pubblici migliori, la partecipazione dei cittadini agli affari locali più importante. Il ministero dell’Agricoltura invocò una clausola del contratto di Goldschmidt che gli proibiva di divulgare la sua scoperta. Solo dopo circa trent’anni il suo studio fu reso pubblico. Durante questo periodo, il ministero continuò a incoraggiare la trasformazione delle Dinuba del nostro paese in nuove Arvin. La crisi rurale che ora conosciamo ne è la conseguenza.
Gli economisti parlano volentieri di “esternalità”. I costi della dislocazione del mercato del lavoro, dell’aumento della violenza familiare, della disgregazione delle comunità, delle devastazioni ecologiche e della decadenza della cultura sono tutti considerati come “esterni”. Ma esterni a cosa?
La stessa teoria del vantaggio comparativo perde rapidamente la sua credibilità. Ci fu un tempo in cui le tecniche si diffondevano lentamente. Tre secoli fa, nell’Italia del nord, il furto o la divulgazione dei segreti di fabbricazione dei filatoi della seta era un crimine passibile di pena capitale. All’inizio della rivoluzione industriale, la Gran Bretagna proteggeva la sua supremazia nell’industria tessile proibendo sia l’esportazione delle macchine sia l’emigrazione degli uomini che sapevano costruirle e servirsene. Nel 1789, Samuel Slater, un giovane apprendista britannico, importò la rivoluzione industriale negli Stati Uniti emigrandovi dopo aver memorizzato lo schema di un filatoio.
Oggi, i trasferimenti di tecnologie sono semplici. Secondo Dataquest, società specializzata negli studi di mercato, dopo che un nuovo prodotto fabbricato negli Stati Uniti è stato immesso sul mercato, occorrono appena tre settimane perché sia copiato in Asia, fabbricato e spedito in America. Ecco cosa ne è del vantaggio comparativo.

L’EFFICACIA DELLA PICCOLA SCALA
Questo ci porta al problema della scala. Il costo di produzione unitario scende certo in modo spettacolare quando, invece di fabbricare un articolo nella propria cantina, lo si fa in fabbrica. Ma quando quest’ultima moltiplica la sua produzione per cento, il costo unitario non diminuisce proporzionalmente. Il grosso delle diminuzione dei costi si ottiene a un livello di produzione abbastanza modesto.
Nell’ambito agricolo, ad esempio, il ministero dell’Agricoltura americano ha studiato la resa delle aziende agricole e conclude: “Grosso modo, al di sopra di 40000-50000 dollari di vendite, ossia la parte inferiore della forbice delle vendite medie, non ci sono più economie di scala”. Un altro rapporto del ministero conferma: “Le aziende agricole familiari di medie dimensioni hanno una resa analoga alle grandi”.
All’avanguardia delle ricerche in questo campo negli anni Cinquanta, Joseph Bain, professore ad Harvard, ha constatato che fabbriche molto più piccole di quanto si credesse all’inizio erano economicamente concorrenziali. Egli constatò inoltre che si poteva considerevolmente ridurre la loro dimensione senza dover aumentare il prezzo dei prodotti in maniera significativa. In altri termini, è possibile fabbricare scarpe per il mercato regionale quasi allo stesso prezzo unitario del mercato nazionale. Se lo Stato cessasse di sovvenzionare la rete dei trasporti, le scarpe prodotte e commercializzate localmente costerebbero forse meno di quelle importate.
La tecnologia moderna permette a fabbriche più piccole di essere redditizie. Ad esempio, le grandi vetrerie classiche producono tra le 550 e le 600 tonnellate di vetro fluitato al giorno, per un costo annuo di 100 milioni di dollari. Con un investimento di soli 40-50 milioni di dollari, nuove mini-fabbriche sono in grado di produrre 250 tonnellate al giorno per il mercato regionale allo stesso costo unitario delle grandi fabbriche.
L’avvento delle macchine utensili programmabili potrebbe accelerare questa tendenza. Nel 1980, degli ingegneri ne hanno messa a punto una che si può programmare per riprodurre diverse forme: una macchina utensile giapponese è capace di fabbricare quasi cento pezzi di ricambio differenti a partire da uno stesso materiale. Quale conclusione trarne? Erich Bloch, direttore della National Science Foundation, pensa che la fabbricazione “sarà così flessibile che il primo esemplare di un prodotto costerà poco più del millesimo”. “La localizzazione ideale della fabbrica del futuro sarà dunque il mercato dove i suoi prodotti saranno consumati”, dichiara Patrick A. Toole, vice presidente addetto alla fabbricazione presso la IBM. La teoria del “vantaggio comparativo” ha quel che si merita.
Quando rinunciamo alla nostra attitudine a produrre da noi stessi, quando separiamo l’autorità dalla responsabilità, quando coloro che ostentano le nostre decisioni non sono coloro che le prendono, quando il costo e il beneficio della produzione o del processo di sviluppo non entrano nella stessa equazione, quando il prezzo e il costo non vanno più d’accordo, compromettiamo la nostra sicurezza e il nostro avvenire.
Si può argomentare che il libero scambio non è l’unica causa di tutti i nostri mali. Bene. Ma il libero scambio, così com’è predicato oggi, conserva e aggrava molti dei nostri più spinosi problemi. È un’ideologia che incoraggia politiche rovinose. E, quel che è peggio, più andiamo avanti sulla via del gigantismo, della globalizzazione e della dipendenza, più ci è difficile fare marcia indietro e prendere un’altra strada. Se perdiamo le nostre esperienze, la nostra base produttiva, la nostra cultura, le nostre tradizioni, le nostre risorse naturali, se spezziamo i legami di responsabilità personale e familiare, diventerà sempre più difficile ricreare una comunità e rincollare i pezzi.
Ciò vuol dire che dobbiamo agire immediatamente. La mobilità senza ostacoli dei capitali, della manodopera, delle merci e delle materie prime non è il bene sociale supremo. Dobbiamo attaccare frontalmente i postulati del libero scambio, proporre una filosofia differente, adottare una strategia alternativa. Esiste un’altra via. Per seguirla, dobbiamo modificare le regole e rimetterci in discussione. Questo esige non soltanto che mettiamo in dubbio la vuota teoria del libero scambio, ma altresì che avanziamo un’altra idea: quella di un’economia rispettosa della comunità.