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In corsa per una nuova vita tra i ricordi del colonialismo

di Federico Fubini - 16/03/2011





Percorrendo le strade di Addiss Abeba, capitale etiope, Federico Fubini racconta la storia tormentata di questo paese e analizza la sua situazione attuale.
L’Etiopia perse la sua indipendenza negli anni trenta, quando Mussolini lanciò la spedizione militare che fece diventare il paese africano una colonia italiana. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Etiopia fu liberata ma un colpo di Stato impose un regime totalitario di stampo socialista, che durò fino agli anni novanta. Oggi l’Etiopia è una giovane democrazia con forti problemi economici e sociali. Nella cultura popolare etiope i grandi eroi non sono personaggi storici, bensì i leggendari corridori che hanno contribuito a diffondere la fama di questo Paese nel mondo.

Addis Abeba prima dell’alba affonda in un buio indecifrabile ma pieno di promesse. L’illuminazione stradale è minima quando alle cinque e mezzo Abii si presenta puntuale secondo gli accordi: stamattina l’obiettivo è la fabbrica dei maratoneti. Andranno scovati uno a uno, a fari accesi, lungo i viali e sotto gli eucalipti di periferia. Abii, intabarrato e incappucciato, garantisce il successo senza traccia di esitazione apparente: sa lui dov’è che bisogna andare a frugare a 2.400 metri d’altitudine, dietro gli angoli e ai margini di questa città addormentata. Addis Abeba deserta a quest’ora indossa la sua storia come una sequenza di aggiunte, suture e cicatrici sull’impianto di una città imperiale. L’occupazione italiana, il lungo regno del Negus, il Terrore Rosso di Mengistu, ciascuno dei passaggi del ‘900 lascia tracce più o meno invisibili mentre si scende nel buio lungo il Bole, il viale dell’aeroporto, verso piazza Meskal. A quest’ora i cani randagi dormono adagiati in mezzo alla strada e solo ogni tanto si notano qua e là donne in cammino avvolte in enormi scialli bianchi, dalla testa ai piedi. Vanno in chiesa, o arrancano verso i limiti della città a raccogliere sterpi, per caricarseli sulla testa, tornare a casa e cucinare qualcosa. Il cuore di Addis, piazza Meskal, è una sorta di autostrada a otto corsie affiancata da un colossale, basso anfiteatro e una muraglia vagamente medievale. Questo slargo fino a pochi anni fa era dominato da stelle rosse e falci e martello. Qui Mengistu faceva la sue adunate. Ma i primi bagliori del mattino di piazza Meskal ora rivelano a mezz’aria sul muro un programma diverso. È un cartellone pubblicitario, alto una decina di metri, largo forse quindici. Lassù Haile Gebreselassie corre letteralmente fra le nuvole in cielo, la falcata potente, eretta, accanto a un aereo della Ethiopian Airlines. Da vent’anni Haile Gebreselassie è più celebre in Etiopia di quanto non sia mai stato il viceré generale Rodolfo Graziani, plenipotenziario del Duce. Per gli etiopi, ventisette record del mondo e (per ora) due ori olimpici fanno di Gebreselassie il fondista più grande della storia. Ne fanno un esempio magnetico per questo popolo di bambini. Uno su due in Etiopia ha oggi meno di quattordici anni, frutto di un’ondata incontenibile di nascite e di vite che l’Aids o la malnutrizione contribuiscono a falcidiare. Ora che la notte finalmente si alza su piazza Meskal, Abii punta con un sorrisetto come a dire «tu non ci credevi, ma io te l’avevo detto». Lungo l’anfiteatro, laggiù sotto a quel muro intimidatorio, appaiono torme di ragazzi impegnati a saltare, balzare, allungare. Scattano, cronometrano, ripartono per un altro giro. Corrono tutti in modo paurosamente serio. Ciascuno di loro aspira a diventare il prossimo Haile Gebreselassie, il ragazzo che ogni giorno andava a scuola di corsa a 15 chilometri dal suo tugurio e ora gestisce una catena di alberghi sparsi in ogni città dell’Etiopia. Questa è l’ora dei primi bagliori in cui le squadre di Mengistu una generazione fa giravano nei loro camion. La sera avevano sequestrato e massacrato gli oppositori, o anche solo chi veniva sfiorato dall’ombra del sospetto. All’alba Mengistu faceva scaricare i cadaveri per strada dove ora riposano i cani, e ce li teneva almeno un paio d’ore perché tutti li vedessero uscendo di casa al mattino. Adesso, a quest’ora, si aggira soltanto questo nugolo di ragazzi che corrono ossessivamente in cerca di un futuro. Quelli che possono sperare di più vanno di solito nella parte alta della città, la stessa dove l’Italia ha lasciato le sue tracce più visibili. Nella salita di Churchill Road, diretti a un posto che tutti chiamano semplicemente in italiano «Piazza» (ma non lo è), la vecchia Ford bianca e blu di Abii scricchiola e arranca. Lui con calma spiega qualcosa che dimostra oltre ogni ragionevole dubbio il passaggio dell’Italia da qui. Abii parla di «cerchioni» (traballano), «testine», «cambio» e via elencando tutto ciò che non va: le auto quasi non esistevano prima che il generale Badoglio nel 1936 prendesse il comando della capitale, poi i nomi della meccanica sono stati assorbiti dalla lingua di Dante. Anche un po’ di ingegneria («tunnel», pronunciato con la «u» maccheronica: scavati dagli italiani i soli che esistono) e di sartoria si sono infiltrati dalle rive d’Arno nell’amarico, la lingua franca etiopica: qui si parla comunemente di calze, camicie, borse (localmente intese per «portafogli»). Nel frattempo, nel giro fra i resti dell’Italia «imperiale», Abii passa dalle case Incis (così note in amarico), begli edifici razionali in stile Latina o Sabaudia pensati per i funzionari italiani del Duce e ora ben fusi nell’insieme grazie al loro aspetto scrostato e fatiscente. Presto Abii approda in University Square, meglio nota come piazza del Sesto Chilo. Sporadici giovani aspiranti campioni passano elastici sulle gambe davanti a un obelisco nel chiarore delle sei. Quel monumento sta lì eretto dal ‘53, quando il maresciallo Tito regalò al Negus un’opera che ricordasse i crimini di guerra italiani in Etiopia. In un altorilievo di bronzo, un energumeno barbuto è ritratto nel gesto di infilzare e impiccare selvaggiamente, immagine di gusto staliniano delle ritorsioni e delle migliaia di morti dopo l’attentato a Graziani del novembre 1937. Ma bisogna salire ancora di più per trovare quelli davvero promettenti. All’uscita da Addis, dove finiscono gli slum di fango e lamiera, i ragazzi fanno l’autostop ai Tir che passano diretti verso Entotto, fra i boschi d’eucalipto lungo il fianco della montagna. Quassù si allenava Haile Gebreselassie quando era solo un teenager sconosciuto al mondo: lo ha detto lui stesso. Dunque i maratoneti migliori vengono qui. Prendono un passaggio, poi a quasi 3.000 metri si buttano fra gli alberi e corrono due o tre ore prima di andare al lavoro. […]
C’è un sarto di 26 anni, Todele Mekonne, che ha un primato personale di 29 minuti sui diecimila e di un’ora e sei sulla mezza maratona. Nel suo mestiere diurno guadagna meno di due euro al giorno, ammette di aver corrotto un allenatore per iscriversi a un club e entrare nelle gare. «Aspetto la mia opportunità», ripete anche lui. Ma Todele, Bikla, Rahel a questo punto scalpitano. Si sta facendo giorno, vogliono buttarsi nel bosco a correre. Tra poco Addis Abeba non sarà più solo per loro e i cani di strada. Tornerà a essere una megalopoli stressante, caotica, emersa dal feudalesimo e dallo stalinismo per diventare un grumo di tensione capitalistica nel cuore di un Paese di bambini. Per quel momento, i maratoneti dell’alba vogliono farsi trovare già in forma.