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La Patria con il punto interrogativo

di Alessio Mannino - 17/03/2011



Il baraccone è pronto e va in scena domani. Ma alla vigilia del 17 marzo la vera domanda da porsi è che cosa intendiamo per Italia e per identità nazionale. E che cosa ne rimane nel mondo globalizzato di matrice statunitense

Domani si festeggia il 150esimo anno dell’unità d’Italia. A festeggiare sono tutti, a destra e a sinistra, tranne i leghisti che speculano sulla ricorrenza per tenere in vita una posticcia immagine anti-sistema della Lega, compromessa da dieci anni di servilismo berlusconiano e corsa sfrenata a poltrone e affari.

Furbi, questi padani: sanno benissimo che ostentare indifferenza e disprezzo per l’italianità è un’operazione simbolica e propagandistica senza alcun effetto pratico sui posti a cui sono incollati nel governo centrale e in centinaia di amministrazioni locali.

Accendono il fuoco di una contestazione in cui non rischiano di bruciarsi le manine avide. E all’opposizione non sembra vero di sfruttare a sua volta la buffoneria leghista per strumentalizzare un evento in funzione della polemica politica contingente, gridando al bau bau secessionista di un Carroccio che invece è da mo’ che si è stabilmente inserito nel gioco di potere romano. 

Senza analizzare la questione in maniera approfondita (per questo rimandiamo al prossimo numero del mensile), oggi ci limitiamo a porre l’interrogativo che, secondo chi scrive, deve costituirne il punto di partenza. Che cosa vuol dire “patria” oggi? Non ieri, non durante il periodo risorgimentale, non nel Novecento, non nella Prima Repubblica: oggi, adesso. Proviamo a capirlo andando per esclusione. 

Sotto il profilo etimologico, la parola “patria” indica la terra dei padri. Evoca uno spazio (la terra), definito e delimitato da una memoria, una tradizione, una discendenza di sangue (i padri). Se non fosse che l’espressione rimanda a uno slogan nazista, si dovrebbe correttamente parlare di “sangue e suolo”. In ogni caso, più italianamente e cattolicamente, il significato si collega ad un carattere fondamentale delle genti della penisola: la famiglia come legame ancestrale e prioritario nell’esistenza individuale, ancorata ad un luogo con la sua storia. Ora, c’è forse qualcuno che possa affermare con sicurezza e sincerità che nell’Italia odierna il micro-cosmo familiare rispetti una qualche fedeltà di retaggio ad una heimat tradizionale, ad una particolare e unica collocazione territoriale? E’ ancora presente una “casa del padre”, sia come punto fisico che soprattutto come abitazione dell’anima? Resiste forse, sul piano collettivo, una concezione di eterno ritorno alle origini, una venerazione o quanto meno una conoscenza dell’albero genealogico, un richiamo interiore verso i propri avi e il mondo in cui vissero? 

A essere franchi, non mi pare. Si è liquefatto l’universo di valori per cui il singolo non era mai solo, proteso com’è oggi alla realizzazione personale e incentrato esclusivamente su di sé, ma uno dei rami di una pianta con solide radici in un paesaggio e in una comunità locale. Il legame famiglia-luogo-storia è stato spazzato via dall’incessante lavorìo di dissacrazione dello stile di vita moderno, che abolisce confini spaziali e spirituali per far posto alla persona-atomo. Una cellula che vaga e che vede i legami ereditari come una zavorra di cui liberarsi in nome del proprio “io” narciso, volubile, instabile e, appunto, sradicato. Il padre, di sangue e terra, è sepolto, e con lui la patria. 

Ma questa può anche significare, salendo in superficie, la Nazione che si è storicamente data dall’unione dell’identità di lingua, cultura, religione (il Popolo) con l’identità politica organizzata (lo Stato). Guardando sempre al panorama attuale, anno di grazia 2011, vediamo che la lingua italiana si è diffusa e imposta definitivamente soltanto da sessant’anni grazie all’arma decisiva della modernità, la televisione, e corrisponde a un imbastardimento pubblicitario ed esterofilo (anglofono, per l’esattezza) di quella che era un’artificiosa costruzione letteraria, l’italiano dantesco-rinascimentale-manzoniano basato sul dialetto toscano. Come sacche di resistenza vitale brulicano nel quotidiano tutti gli altri dialetti, da alcuni considerati vere e proprie lingue, che la rigidità post-risorgimentale, poi il fascismo livellatore e infine la scuola (in mano alla sinistra dell’Internazionale) hanno negato e conculcato sistematicamente. Diciamo, perciò, che l’italiano corrente è un fatto compiuto, ma ad esso si affianca, come perenne controspinta più aderente all’uso e alla spontaneità, il dialetto regionale a sua volta sfumato in una grande ricchezza di varietà particolari. 

La cultura, intesa come insieme antropologico di tradizioni e costumi, si è diradata sotto i colpi dell’omologazione globale. E non stiamo parlando solo di folklore e sagre paesane. Stiamo dicendo che i tratti che rendevano italiano un italiano, sono stati via via ricoperti da uno strato sempre più pesante di uniformità al modello unico planetario di derivazione americana: l’uomo mondializzato come iperlavoratore che si riconosce nei prodotti che produce e consuma, tutti uguali o tendenti a diventare uguali dappertutto. Così la nostra gastronomia si globalizza nella pizza e nella pasta standard, le nostre bellezze naturali e monumentali si trasformano in brand turistici (le colline toscane, la Venezia degli innamorati, la Roma dei ruderi eccetera), la religiosità carnale e iniziatica di tanti riti medioevali è percepita come bizzarro anacronismo, l’arte è importante non per il valore estetico e filosofico che si porta dentro ma in quanto fonte di crescita del Pil, la miriade di borghi e paesini è una provincia dimenticata e buona solo per sputarvi sopra il complesso di superiorità del cittadino urbanizzato, tecnologico e cablato, il passato è un orpello museale e la proverbiale bonomìa della nostra gente si è distorta in menefreghismo piagnone e arrogante. Non c’è più una cultura italiana come innato senso per l’individualità di genio, per il bello e il piacevole ricercati nell’assoluta unicità (i maestri artigiani coi loro pezzi unici stanno scomparendo), né per le virtù rinascimentali dell’italiano sì fazioso, ma responsabile dei propri atti e con una visione ambiziosa e ricca di umanità. Ci siamo venduti all’american dream e alla barbarie dello sviluppo economico che non ha rispetto per niente e per nessuno. Tanto meno per tradizioni, modi di fare e paesaggi secolari. 

Sulla religione è presto detto: siamo cattolici nel profondo perché la Chiesa con capitale Roma ha forgiato in due millenni la mentalità dei suoi fedeli, che sono la stragrande maggioranza degli italiani. Ma il sentimento religioso è epidermico, svuotato com’è dal vero culto popolare di massa: l’idolatria del denaro, della produzione e del consumo. Ogni domenica il papa col suo angelus parla al vento, e la sua vera forza sta nel consenso sociale e politico garantitogli dalla capillare rete di agenti sul territorio (parrocchie, conventi, istituti scolastici) che non ha eguali fra gli altri poteri forti, eccezion fatta per la ragnatela bancaria. 

In definitiva siamo un popolo che a ben guardare al suo interno ospita vari popoli, e la cui identità complessiva non affonda del tutto poiché le contraddizioni e i dolori causati dalla modernizzazione provocano un naturale aggrapparsi a ciò che rimane delle certezze d’un tempo (l’attaccamento alla famiglia o l’orgoglio regionalistico, per esempio). Non si avverte quell’appartenenza sentita e corale, ben assestata su una memoria condivisa, che dovrebbe essere il fondamento e il mastice dell’unità nazionale. Il patriottismo di questi giorni è una roboante parata di cartapesta. Scartata la confezione retorica, resta in mano ben poco, e questo poco è insufficiente a far parlare dell’Italia come di un’esperienza riuscita di cui andare fieri. 17 marzo 2011: il patriottismo senza patria.