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Un Paese flessibile come il bambù che vive nel culto della fragilità

di Lanfranco Vaccari - 17/03/2011

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Composti di fronte alla Natura, non sanno come reagire all’ignoto. Una lunga serpentina disegnata con il gesso sul campo di calcio sterrato, ricavato nel cortile di una scuola di Sendai. Curve a gomito prima più ravvicinate, poi più larghe man mano che ci si avvicina alla casetta, nell’angolo opposto all’edificio principale, dove viene distribuita acqua minerale in bottiglie di plastica.
Una fila di persone che aspetta il suo turno, rispettando i segni per terra, come sono abituate a fare in una giornata normale. Un giorno qualsiasi? Non proprio. Questo è il terzo dopo il più potente terremoto mai registrato nella storia del Giappone, e il quarto a pari merito in quella del mondo, da quando si è cominciato a misurarli. L’energia liberata dal movimento delle placche convergenti su cui è appoggiato l’arcipelago equivale a 31,6 miliardi di tonnellate di tritolo (tanto per dare un’idea, la bomba sganciata su Hiroshima equivaleva a qualcosa fra le 13 e le 16 mila tonnellate di tritolo). La scossa, con tre epicentri, si è portata dietro un’onda di tsunami alta fino a 10 metri, che si muoveva a una cinquantina di chilometri l’ora. Ci sono fotografie che raccontano una storia e questa (pubblicata lunedì dal Corriere della Sera a pagina 2) cattura la straordinaria determinazione dei giapponesi, la capacità di reagire senza panico né isteria anche di fronte alla più obliterante devastazione, l’abitudine a contrastare con metodo e disciplina una natura che si configura come ostile, e che da sempre li costringe a ricominciare daccapo almeno un paio di volte per generazione. È una memoria collettiva che ha plasmato il carattere, dando agli individui la consapevolezza di essere in balia della capricciosa volubilità degli elementi, togliendo ogni valore assoluto alla loro esistenza singola e rovesciandolo quindi sulla sopravvivenza della comunità, si declini essa nella famiglia, nello shugo del costume feudale, nell’azienda o nella Nazione, così come si è definita dopo che le quattro «navi nere» del commodoro Matthew C. Perry gettarono l’ancora nella baia di Tokyo l’ 8 luglio 1853. Con il disastro di continuo imminente e immanente, la cultura giapponese coltiva ciò che è fragile, temporaneo, fugace. Trova un fatale parallelo fra la vita e la fioritura dei ciliegi: il sakura è uno dei momenti che segnano l’anno, una settimana insieme perfetta ed effimera, di sublime bellezza e di subitanea caducità, un simbolismo potente e una metafora inevitabile. Non è un terremoto, per quanto potente, che può vincere il Giappone, cui la tradizione zen insegna come sia la flessibilità a dare al bambù la speciale prerogativa di ondeggiare e piegarsi, senza spezzarsi. Non c’è Paese, nei limiti che è ragionevole porsi, meglio preparato per affrontare una catastrofe naturale. Nonostante il sisma abbia sprigionato un’energia mille volte superiore a quello che rase al suolo l’anno scorso Haiti, il numero dei morti dovrebbe essere alla fine meno di un ventesimo (circa 10 mila contro 224 mila); nonostante la densità della popolazione nella regione del Kanto, la più vicina all’epicentro, sia quattro volte maggiore di quella nell’isola caraibica, il tasso di mortalità dovrebbe fissarsi attorno all’ 1,5 per cento di quello haitiano. È il risultato di un assioma che Roger Bilham, geologo all’Università del Colorado, esprime così: «Sostanzialmente, succede questo. Quando c’è un terremoto in un Paese in via di sviluppo, la gente muore. In un Paese sviluppato, la gente paga» . Non succede dappertutto, ma in Giappone sì. Dopo il Grande Hanshin, che con una magnitudo di 7,3 nel 1995 ha ucciso a Kobe 6.500 persone e provocato danni per 100 miliardi di dollari, le normative di costruzione e di riadattamento degli edifici sono diventate ancora più rigide. La settimana scorsa a Sendai, la grande città più vicina agli epicentri, non un solo edificio è crollato. Nelle cinque prefetture interessate (Miyagi, Fukushima, Iwate, Ibaraki e Tochigi), sono rimasti pienamente operativi 145 ospedali attrezzati per l’emergenza su 170, oltre a 2.050 centri di evacuazione. Non sono mezzo milione di sfollati, 4,4 milioni di case senza elettricità e 1,4 senz’acqua, le infrastrutture spazzate via e le linee di comunicazione interrotte che possono affondare un Paese la cui capitale è stata totalmente rasa al suolo due volte nel giro di vent’anni. Prima, nel 1923, con il Grande Kanto, il terremoto di magnitudo 7 che uccise 145 mila persone, quasi un terzo delle quali incenerite dal «dragone serpeggiante» , un tornado di fuoco che si abbattè sui quartieri lungo il fiume Sumida. Poi, nel 1945, quando i B-29 effettuarono il più esteso bombardamento incendiario sul fronte del Pacifico, provocando 100 mila morti. Per quanto rovinose, le perdite in uomini e cose appartengono, per così dire, a una contabilità razionale. Dopo qualche ora, qualche giorno o qualche settimana hanno riscontri oggettivi. Si sa esattamente che cosa le ha provocate e perché. Rimane il dolore, che le categorie della logica formale non leniscono certo, ma almeno incasellano. Terremoto, tsunami (parola giapponese, che combina «porto» e «onda» ): si sa cosa sono, nel loro modo sinistro appartengono a un’esperienza condivisa, a un ricordo ben impresso e comune. La prova più difficile, per il Giappone, non consiste nel fronteggiare i demoni della natura; quelli sono funesti ma riconoscibili. È invece quella che si è affacciata quando ormai le scosse si andavano placando e l’onda si era ritirata. Nasce dagli impalpabili scarichi che escono dalla centrale di Fukushima Daiichi. È alimentata da incerte notizie sull’integrità dei contenitori del nocciolo di tre reattori. Aumenta con il rincorrersi, nel circuito mediatico, di emozioni inversamente proporzionali alla conoscenza di cosa sta davvero succedendo, di quali sono i meccanismi di un incidente nucleare, di cosa significa un’esplosione dovuta all’instabilità dell’idrogeno rilasciato che apre una breccia sui muri perimetrali, dello stato in cui si trovano le barre combustibili dismesse e ammucchiate in piscine esterne. È l’ignoto a provocare il panico. È ciò che non si sa o non si in grado di ricondurre nella sfera dell’esperienza a scatenare reazioni irrazionali. È la perdita del controllo, una caratteristica molto poco giapponese, a mettere in crisi il Giappone.