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Il naturalismo di Telesio è alle radici della scienza moderna, materialista e meccanicista

di Francesco Lamendola - 04/04/2011




Bernardino Telesio rappresenta, nella storia della filosofia occidentale, il momento del passaggio da una visione della natura di tipo metafisico ad una di tipo immanentistico, anche se non ancora di tipo razionalistico e matematico, come avverrà con Cartesio e con Galilei, né di tipo puramente materialistico e utilitaristico, come stava per avvenire con Francesco Bacone.
Nel suo «De rerum natura iuxta propria principia», egli si propone di spiegare la natura e i suoi fenomeni, così come dichiara il titolo, con i suoi stessi principî, senza cioè fare ricorso ad alcun principio sovrannaturale; il suo grande avversario ideale, perciò, è Aristotele, che, attraverso la concezione del Motore Immobile ed altri fattori metafisici, pretende di spiegare i fenomeni naturali, desumendoli deduttivamente da principi generali.
L’indagine dei fenomeni naturali deve procedere «non ratione, sed sensu»; e il senso rivela che essi non derivano da cause finali, ma da “forze”, intese come cause puramente meccaniche: e questa è l’origine di tutte le filosofie meccanicistiche che, per spiegare la natura esclusivamente con i fattori naturali, finiscono per estromettere ogni principio di trascendenza e, quindi, per aprire la strada ad una visione non solo laica, ma atea del reale.
Per studiare la natura, dunque, bisogna servirsi dei principî che da essa derivano: e cioè il caldo, che dilatata e che dà origine al movimento; il freddo, che restringe e che provoca l’immobilità; e la massa corporea (o terra), di per sé fredda, che, posta al centro dell’universo (eliocentrismo), riscaldata dal calore del Sole dà origine a tutti gli esseri “animati”.
Al contrario di Aristotele, Telesio ritiene che tutto ciò che è caldo sia suscettibile di movimento e non abbia bisogno, per muoversi, di un agente esterno; il calore, a sua volta, è sensibilità e quindi vita: l’intero mondo della natura è dunque il luogo di una lotta perenne fra il principio del caldo, che è vita, e quello del freddo, che è morte.
Telesio, poi, attenua la distinzione fra i corpi organici e quelli inorganici; nei primi è presente l’anima, lo “spiritus”, che non è localizzata in alcun punto preciso dell’organismo (nell’uomo, ad esempio, non è nel cuore, come affermava Aristotele), ma è diffusa in tutto corpo e che, essendo anch’essa di natura materiale, muore con esso. Però fra i corpi organici e quelli inorganici la differenza consiste essenzialmente nella quantità di calore e di movimento che in essi sono presenti, e non in un principio soprannaturale (ad eccezione, come vedremo, dell’uomo). Il calore, magari in grado minimo, è presente in tutti i corpi e, con esso, lo “spirito”, ovvero la capacità di sentire, di avvertire i propri mutamenti e di tendere alla propria conservazione. Vi è, dunque un sentire di più e un sentire di meno, ma tutti i corpi sono capaci di sensazione.
L’anima, perciò, è presente in tutti i corpi organici, siano essi di vegetali, di animali o di esseri umani, ma anche nei corpi che sembrano inorganici: la natura delle loro differenze non è di qualità, ma soltanto di grado: tutto ciò che vive ed esiste è dotato di anima (panpsichismo) e la materia possiede una forza dinamica propria, che non necessita di alcun intervento esterno per attuarsi (ilozoismo).
Anche l’intelligenza è di natura materiale e anch’essa appartiene non solo all’uomo, ma a tutti gli esseri viventi, dal momento che consiste nell’accumularsi della memoria delle percezioni via via registrate nel corso dell’esistenza.
L’etica di Telesio discende direttamente dal suo naturalismo e dal suo immanentismo: per il pensatore cosentino, il fine cui tende l’uomo è la propria conservazione e, pertanto, egli ritiene buono tutto ciò che favorisce tale scopo, e cattivo tutto ciò che lo ostacola. Bene, dunque, è ciò che suscita piacere; male, ciò che provoca dolore. E qui siamo decisamente sulla strada che, prendendo le mosse da Bruno e Campanella, porterà a Bentham, a Spencer, a Nietzsche: l’egoismo diviene non il risultato di una scelta morale, ma di una disposizione naturale.
Telesio, comunque, ammette nell’uomo l‘esistenza anche di una sostanza “altra”, ossia un’anima soprannaturale (super-addita) infusa direttamente da Dio e che è testimoniata non solo dalle Scritture, ma anche dall’innato bisogno del divino presente nell’uomo e dalla sua sete di giustizia e di immortalità; dottrina, questa, che, se si concilia perfettamente con il Cristianesimo e anche con il Platonismo rinascimentale, sembra avere poco a che fare con le premesse naturalistiche di tutta la filosofia del Nostro, ma ha piuttosto l’apparenza di una concessione alle verità rivelate della religione, con le quali - come farà Cartesio, e a differenza dei suoi discepoli Bruno e Campanella - Telesio non vuole mettersi in urto.
Che il concetto dell’anima super-addita sia una mera concessione alla teologia cristiana non è una supposizione maliziosa, ma appare chiaro da tutta la costruzione della gnoseologia e dell’etica telesiana.
Precorrendo il sensismo del XVIII secolo, Telesio sostiene che sentire e ragionare sono una sola e medesima cosa; e, precorrendo l’empirismo, e specialmente quello di Locke, Berkeley e Hume, afferma che all’origine del sentire vi è il contatto immediato con la cosa (da cui l’importanza fondamentale del tatto all’interno dei cinque sensi); la memoria e il ragionamento, che procedono per similitudini, derivano entrambi dalla sensazione.
Sensismo ed edonismo rinascimentale sono anche all’origine della morale di Telesio, poiché, come abbiamo visto, il contatto che genere piacere si identifica con il bene, quello che produce dolore, con il male: il principio dell’autoconservazione dell’individuo è il motore di tutta l’etica, cui concorre la virtù, che non è un principio autonomo ma l’intelligente valutazione del modo in cui tale principio si possa meglio realizzare (ciò che fa venire in mente la “virtù” come la intende Machiavelli, ossia in senso extra-morale).
Telesio ammette bensì che un uomo possa rifiutare un bene presente, ma solo in vista di un bene futuro più grande e più perfetto: nessuno sceglie volontariamente il male, nessuno va contro il principio di autoconservazione del proprio organismo. Si tratta, dunque, di una morale prettamente utilitaristica, in cui il libero arbitrio scompare, sopraffatto dalle esigenze di un istinto naturale originario, che non sente ragioni all’infuori di se medesimo.
Sia la vita sociale, sia l’idea che la virtù generi il bene ed il vizio produca il male, traggono origine da tale utilitarismo: Telesio, infatti, non parla tanto della giustizia soprannaturale, ma della convinzione secondo la quale la virtù e il vizio producono i loro effetti nella vita stessa, come “premio” e come “punizione” che le azioni dell’uomo preparano a se stesse.
Ed ora torniamo alla distinzione telesina fra “anima” e “corpo”, punto centrale della sua dottrina, dalle evidenti implicazioni materialistiche.
Così Nicola Abbagnano riassume la concezione telesiana del rapporto fra anima e corpo (in: N. Abbagnano, «Telesio», Milano, Fratelli Bocca Editori, 1941, pp. 130-32, 135-37):

«L’ANIMA NON È LA FORMA DEL CORPO. Questa conclusione è direttamente contraria alla dottrina di Aristotele, che l’anima sia la forma del corpo. Quello che Telesio soprattutto impugna in questa dottrina è il suo significato metafisico, che egli cerca di riportare e di combattere su di un piano fisico. La forma sembra a Telesio un’unità tale da escludere qualsiasi composizione, mentre all’opposto è evidente che l’animale è un tutto composto che perciò esclude l’unità semplice della forma. In verità, egli dice,  né l’intera anima, né l’intero corpo dell’animale, né alcuna parte di esso, può sembrare una forma. Come si potrebbe dire infatti di un ente che consta di cose diverse e difformi sia unico e costituito e formato da una sola sostanza? Se è vero il principio che tutto ciò che gli enti sono ed operano, sono ed operano in virtù della loro forma, non si può dubitare che quegli enti che hanno specie, disposizioni e forze diverse sono provvisti di forme diverse e costituiti da diverse nature. L’animale che è composto di elementi non solo numerosissimi e diversissimi ma anche opposti, perché alcuni sono mobili e sensibili, altri immobili ed insensibili, non può ritenersi costituito e formato da una sostanza unica (“De rer. nat.”, V, 34).
Quando cose diverse si uniscono insieme e si unificano in un certo modo, ognuna di esse si conserva nella propria natura - a meno che non siano tutte ridotte ad un ente unico fornito della stessa specie e della stessa forza - e agiscono tutte ed ognuna. Ora l’animale nel rispetto del’anima prodotta dal seme si può ritenere un unico ente solo nel senso in cui lo è una nave che è composta di molte cose, le quali unite tra loro con chiodi e funi sembrano trasformate in un solo corpo ed in un solo ente. E l’animale veramente è molto simile ad una nave piena di marinai; e se non si considerano i marinai, può sembrare un animale molto sensibile e molto mobile, poiché, proprio come fa l’animale, evita il male vicino e muove verso il bene lontano (V, 34).
L’anima prodotta dal seme è distinta dalle parti del corpo. Tuttavia dev’essere presente a tutte le parti del corpo, perché non vi parte che non si nutrisca e non senta e può nutrirsi e sentire soltanto per l’azione dell’anima. La presenza dell’anima in tutte le parti del corpo è rivelata dalla presenza  in queste del sistema nervoso.  La cute che ricopre tutto il corpo è certamente fornita di nervi   un po’ meno della carne; ma il sangue  che subito erompe da qualsiasi parte del corpo venga ferita, dimostra che vi sono dappertutto piccole vene. L’anima dunque è in tutte le parti del corpo e in tutte  porta la materia con la quale esso può nutrirsi  e ristorarsi, e appunto per la sua presenza tutto il corpo è fornito di sensibilità.  Con l’abbandono dell’anima, tutto il corpo si corrompe, perché viene a mancare chi gli somministri la sostanza dalla quale esso ricava nutrimento e ristoro.  E anche qui è facile vedere come l’anima non possa essere considerata il nutrimento del corpo.  Se così fosse, per l’abbandono dell’anima il corpo dovrebbe istantaneamente corrompersi; mentre si vede che ciò non accade ed anzi accade talvolta, per esempio quando fa freddo e quando si tratta di corpi compatti, che esso si conservi a lungo, anche dopo la morte, in tutto simile a quello che era in vita tranne che nell’esser privo d vita e di movimento: cose che evidentemente non appartengono al corpo, ma allo spirito che vi è dentro (V,  34).
TUTTE LE FUNZIONI DELL’ANIMA PRESUPPONGONO LA SUA CORPOREITÀ. La riduzione naturalistica della vita animale assume dunque in Telesio  la forma dell’affermazione energica della corporeità  dell’anima prodotta dal seme. […]
IL CORPO COME ORGANO DELL’ANIMA. Così come appare, diviso in tante parti diverse, ognuna delle quali è destinata ad una diversa operazione,  il corpo è l’ORGANO dell’anima. Il fatto che esso talora impedisca o ritardi le operazioni dell’anima non contrasta a questa sua natura. Lo spirito è stato infatti generato n un ambiente estraneo  e tra cose contrarie, dalle quali, se non fosse ben difeso e protetto, sarebbe subito estinto. Per esser conservato doveva quindi essere necessariamente incluso in qualcosa di caldo, di denso e di corpulento, qual è appunto il corpo e doveva pure essere fornito di molti organi mediante i quali trasformare secondo la propria natura le cose di cui nutrirsi e vincere con le proprie forze le altre, esso che per suo conto è piccolo e tenuissimo (V, 41).
E come organo il corpo è proprio quale doveva essere. Gli animali sono costituiti nel modo migliore possibile. A nessuno di essi manca nulla che sia necessario ed utile per le proprie funzioni e per la propria conservazione; e in nessuno di essi c’è alcunché di superfluo (VI, 22). Telesio arriva a questa conclusione dopo aver analizzato la costituzione fisiologica degli animali ed aver mostrato in concreto come tute le loro parti sono mirabilmente adatte a disimpegnare le funzioni alle quali sono chiamate (VI, 21). Gli animali sono la dimostrazione migliore della infinita sapienza di Dio. Tutto in essi è adatto a render possibile la funzione dell’anima cioè dello spirito animale. La materia corporea  è stata preparata da un calore blando moderato continuo, uniforme. Un calore un opoco più intenso avrebbe liquefatto le parti più molli del corpo trasformandole in aria e cacciandone senza fallo lo spirito, mentre un calore minore avrebbe abbandonato al freddo il corpo e lo spirito e li avrebbe perduti (VI, 23). Nella costituzione degli animali tutto dunque è stato disposto nel miglior modo possibile per rendere possibile e duratura la loro nascita, la loro conservazione, le loro molteplici funzioni.»

La concezione della natura retta da forze puramente immanenti non costituisce una novità, perché, oltre ai filosofi greci presocratici, gli esponenti della cosiddetta scuola ionica (il cui pensiero è però, sotto questo rispetto, fortemente controverso, essendo affidato a semplici frammenti), presenta evidenti analogie con quello di Pietro Pomponazzi, che, come Telesio, aveva studiato a Padova.
Come per Pomponazzi, anche per Telesio la natura si regge da sé medesima, senza bisogno di un Dio che ne guidi il disegno e, dunque, senza che il “filosofo naturale” - tale era allora la definizione dello scienziato della natura - avesse alcun bisogno di ricorrere, per spiegarne i fenomeni, ad un elemento ad essa sovrastante, ossia a Dio.
Inoltre, interpretando Aristotele sulla linea di Alessandro di Afrodisia, Pomponazzi aveva negato l’immortalità dell’anima individuale, e sia pure con lo specioso argomento della limitatezza e della fallibilità della ragione umana, incapace di dimostrare un tale principio.
Intanto, però, il dado era gettato, tanto più che Pomponazzi se l’era presa apertamente con l’ignoranza e la superstizione dei frati: a partire dal suo «Tractatus de immortalitate animae», del 1516, aveva incominciato a diffondersi l’idea, in se stessa filosoficamente tutt’altro che dimostrata, che, se nella natura nulla indica un diretto intervento divino, e se la scienza della natura è il solo ambito in cui la ragione umana può stabilire delle verità certe, allora tanto vale eliminare la prospettiva del divino dall’indagine razionale, o fare come se tale problema non avesse rilevanza ai fini pratici del sapere.
Da quel momento, la scienza occidentale ha incominciato ad imboccare la via quantitativa e presuntuosa del sensismo, del materialismo, del meccanicismo e del riduzionismo; la via che sta seguendo ancora oggi, dopo aver relegato nella soffitta delle cose inutili quella che era stata la “domina” delle scienze filosofiche, la teologia, e la filosofia stessa, a meno che quest’ultima si adatti ad autolimitarsi alla logica ed, eventualmente, alla filosofia del linguaggio.
Che cos’altro sono l’inaccessibilità del “noumeno” kantiano ed il rifiuto della metafisica da parte del criticismo, se non l’autocastrazione del pensiero moderno, che, per aver identificato la dimensione materiale della natura con la totalità del reale, rinuncia ad ogni altra indagine sulla “cosa in sé”, sull’Essere, contentandosi di classificare e catalogare fenomeni e riducendosi, così, al livello di una scienza puramente descrittiva?
Il guaio è che questa scienza descrittiva, materialista e riduzionista, ha sviluppato al massimo la dimensione della Téchne, dell’agire, della manipolazione sulle cose, raggiungendo un grado di dominio sulla natura, quale mai si era neppure immaginata, tranne nei sogni più sfrenati di Francesco Bacone, anticipatore della creazione di animali “costruiti” in laboratorio. Per cui la stessa scienza che ignora il problema del fine e che si disinteressa del problema metafisico, possiede però un elevatissimo livello di capacità manipolatoria ed è in condizioni di decidere della sopravvivenza o meno della natura stessa, o almeno della vita terrestre: come un cieco che possieda una forza fisica smisurata e che la utilizzi selvaggiamente, senza sapere dove, né perché.
Telesio, invero, è ancora ben lontano da siffatti esiti, se non altro per la sua convinzione che la scienza della natura debba basarsi sui “sensi” e non sulla matematica, la via che verrà intrapresa, invece, da Galilei, da Cartesio e da Newton; per Telesio, la matematica è una astrazione simbolica di quelle operazioni che i sensi riconoscono nella esperienza diretta dei fenomeni naturali: egli, dunque, non intuisce le enormi potenzialità predittive e applicative della matematica e non presente la forza straordinaria del binomio scienza-tecnica.
Peraltro, tale sua posizione pre-galileiana, e, dunque, pre-moderna, non discende da un residuo di spiritualismo metafisico, come era stato, ad esempio, per i filosofi neoplatonici dell’Umanesimo. Telesio, infatti, per fare un esempio, ammette che solo l’esatta determinazione quantitativa del calore necessario a produrre una trasformazione naturale potrebbe offrire all’uomo non solo la conoscenza piena della natura, ma anche la capacità di esercitare un dominio su di essa: e, non che dolersi di una tale eventualità, la ritiene altamente desiderabile, solo che confessa di non esserne in grado e si limita, pertanto, ad auspicare che altri vi si cimenti e vi riesca.
E, con ciò, la strada alla scienza aggressiva e brutale di Francesco Bacone, del tutto indifferente ai fini, tranne quello dell’utilità dell’uomo, è segnata ed aperta.
D’altra parte, laddove Telesio sostiene che ogni pianta ed ogni animale sono stati dotati da Dio di tutto ciò che è loro necessario per svilupparsi ed autoconservarsi, sembra aprire uno spiraglio su un altro modello di scienza, che riservi alla dimensione soprannaturale una maggiore considerazione e che precorra, in un certo senso, l’idea ottimistica e leibniziana del “migliore dei mondi possibili”.
Ma è uno spiraglio che subito si richiude, perché il pensiero di Telesio, imbrigliato dalle sue stesse premesse rigidamente naturalistiche e immanentistiche, di fatto non esce mai dall’ambito di una visione del reale rigorosamente materialista, che culmina nella coincidenza dell’anima con lo spirito animale e quindi nella sua corporeità e mortalità e che esclude, di fatto, la presenza provvidenziale di Dio nella realtà terrena.
In un certo senso, Telesio ha percorso a ritroso la strada di Nicola Cusano, per il quale i molteplici enti finiti rimandano all’Uno infinito, che ne è la causa e, al tempo stesso, la sintesi armoniosa delle loro opposizioni (la «coincidentia oppositorum»); mentre Telesio “legge” la realtà naturale come il luogo dell’autosufficienza e, quindi, di una armonia tutta immanente, che non ha veramente “bisogno” di alcuna causa o presenza soprannaturale, fatto salvo l’omaggio formale alla teologia cristiana e, quindi, all’idea di un Dio creatore.
In conclusione, la concezione di Telesio dell’anima come corporea e del corpo come suo organo, precorre quella della scienza galileiana, non nel senso della matematizzazione,  ma in quello della radicale esclusione dell’elemento spirituale dalla sua prospettiva.
Il risultato è stato quello che sappiamo: una scienza “moderna” senz’anima, senza compassione, senza occhi per vedere la bellezza del mondo, per stupirsene e per ringraziare.
Una scienza, come avrebbe detto Pascal, che possedeva, e possiede tuttora, un formidabile “esprit de geomètrie”, ma neanche l’ombra di un “esprit de finesse”: una scienza fatta solo di ragione fredda, spietata, disumana, che ignora completamente le ragioni del cuore.