Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Trasformando il pianeta in una bidonville (Intervista a Mike Davis)

Trasformando il pianeta in una bidonville (Intervista a Mike Davis)

di Tom Engelhardt - 07/06/2006

 

Uno dei massimi esperti internazionali di teoria urbana, Mike Davis, in questa intervista allo storico e giornalista Tom Engelhardt – autore di The End of Victory Culturex, a history of the collapse of American triumphalism in the Cold War era – solleva la questione dell'immenso e incontrollato, ma ancora poco conosciuto, fenomeno espansionistico che caratterizza le città, soprattutto nel sud del mondo. Si tratta di una questione che continua a coinvolgere sempre più comunità sociali in tutto il mondo e che, alla stessa velocità della sua espansione, sta facendo perdere a milioni di persone il proprio lavoro e altri diritti di base. Oggi forse un miliardo di persone, per lo più giovani abitanti dei quartieri poveri e degradati – i cosiddetti slums –, vive in microcosmi che non conoscono la bencheminima manifestazione di sviluppo economico, in periferie urbane inimmaginabili da chi abbia anche solo una volta sognato il mito della città così come tutti abbiamo imparato a restarne affascinati.

I suoi capelli corti e i suoi baffi sono chiazzati di grigio; tuttavia, mantiene ancora la solida, potente corporatura di un figlio di un macellaio, che una volta (molto tempo fa) trascinava le carcasse degli animali per suo padre, nel sobborgo di El Cajon, a San Diego. Con un poco di preavviso, ti può portare fino alla McMansion, nella periferia di San Diego, oppure giù fino al confine messicano e alla nuova, controversa tripla recinzione appena eretta (dove potrai fare una breve visita alla Polizia di Frontiera). È la guida turistica che hai sempre sognato, un’enciclopedia con gambe e braccia di qualunque stranezza che si possa trovare nella California meridionale. Sembra che non ci sia nulla nel panorama che non meriti un commento, una breve descrizione o un’analisi. Il ponte sull’interstatale che si attraversa fuori città, da qualche parte nel deserto, è il più alto ponte di calcestruzzo dell’intera nazione. Le navi militari di ogni sorta che attraversano il porto di San Diego sono identificate e discusse, compresi i mezzi di sbarco “stealth” delle SEAL (Sea, Air and Land forces, NdT) della Marina americana.

Una piccola lezione sul mercato immobiliare locale fa seguito al lamento che “tutto ciò di cui si parla a San Diego in questi giorni è il costo degli immobili!”. Ogni base militare a cui si passa accanto durante il tragitto è segnalata puntualmente. “La gente, qui, non si accorge di vivere porta a porta con l’esercito. Non vedono la morte attorno a loro, le piattaforme di uccisione. Lo rimuovono, semplicemente”. E ogni due per tre, sale in superficie un qualche ricordo bizzarro dei vecchi tempi (“L’unica cosa per cui vale la pena crescere a San Diego era la cittadella della Marina e i suoi cinema economici. Era il paradiso dei teenager). Accomodandoti nella sua macchina, non puoi essere di aiuto ma sii consapevole che stai ammirando una abbagliante – seppur ordinaria – performance di una persona praticamente onnisciente, che sembra non dimenticarsi mai nulla.

La sua modesta abitazione si trova al confine con uno dei quartieri più poveri di San Diego, attraverso il quale ti fa fare un breve giro – con tanto di discussione sui graffiti locali. Il piccolo salotto, dove appoggiamo i miei registratori, è dominato da una gigantesca e multicolore casa-giocattolo dei suoi gemelli di due anni, James e Cassandra (o Casey). Intervistarlo a casa sua significa essere circondati da un mondo di storia rivoluzionaria. I suoi poster rivoluzionari campeggiano in ogni muro, in ogni angolo, in ogni fessura, persino in bagno (“Camarada! Trabaja y Lucha por la Revoluciòn!”). Tutto attorno a te, piedi che schiacciano plutocrati russi, mani giganti che abbattono le classi sfruttatrici tedesche, mentre sei invitato a votare “Spartacus” nel 1919.

Il primo libro di Mike Davis su Los Angeles,
City of Quartz, è diventato presto un bestseller e lo ha proiettato sul palcoscenico come il più innovativo degli esperti di teoria urbana. Da allora, Davis ha scritto su tutto: dalla distruzione letteraria di Los Angeles, agli olocausti vittoriani del XIX secolo, fino al potenziale pandemico dell’influenza aviaria. Più di recente ha rivolto il suo inesauribile cervello verso la “città globale” e ne ha parlato in un libro, Planet of Slums, le cui conclusioni sono così sorprendenti che ho ritenuto dovessero essere le basi per la nostra conversazione.

Ci siamo sistemati temporaneamente in salotto, coi registratori tra me e lui, e abbiamo cominciato. Davis porta con sé qualcosa della vecchia, quasi smarrita tradizione americana dell’autodidatta. In un mondo tribale, egli sarebbe stato certamente il cantastorie. A metà della nostra intervista – in realtà, un ispirato monologo – siamo stati improvvisamente interrotti da un pianto. Casey si era svegliata di pessimo umore dal suo sonnellino. Davis si è scusato ed è tornato un momento dopo, con un’assonnata bimba dai capelli scuri, in tutina rosa, che tirava su col naso. Con l’aiuto del papà lei si sistema, poi si siede, poi inizia a parlare, appena meno fluentemente di suo padre (nonché meno comprensibilmente). Quando Casey sgattaiola via, una ventina di minuti più tardi, Davis torna da me e, prima che io possa dare il la all’intervista (avevo appena controllato le sue ultime parole prima dell’interruzione), riprende dal punto esatto la frase che aveva lasciato a metà, e prosegue come se niente fosse.

Tom Engelhardt:
Speravo volesse iniziare raccontandomi in che modo è giunto a studiare le città.

Mike Davis: Giunsi alle città passando per la via più impervia, ovvero attraverso lo studio di Los Angeles; e giunsi a Los Angeles perché, essendo stato un new leftist negli anni sessanta e avendo investito molto tempo a studiare il marxismo, ero convinto che le teorie sociali più radicali avrebbero potuto spiegare praticamente ogni cosa. Ma mi colpì assai il fatto che il test supremo sarebbe stato comprendere Los Angeles.

Forse non dovrei dirlo, ma quasi ogni cosa che ho scritto a proposito di altre città ha le sue radici, almeno in parte, nel mio progetto su Los Angeles. Per esempio, investigare la tendenza verso la militarizzazione degli spazi urbani e la distruzione degli spazi pubblici a Los Angeles mi ha portato a esplorare trend similari come fenomeno globale. L’interesse verso la Los Angeles suburbana mi ha condotto a considerare il destino di altri più vecchi suburbi in ogni parte del paese, e poi le emergenti politiche verso le
edge cities. E così, lungo questa via impervia, il mondo è come se fosse emerso da Los Angeles, che nel mio progetto originario era un mosaico di 450 singoli pezzi.

Mi spiego. Negli anni Cinquanta, quando le agenzie sanitarie della contea erano preoccupate poiché i veterani di guerra che si trasferivano nei nuovi sobborghi erano privi del senso dello spazio, venne fatto questo studio imponente su quanti reali micro-mondi ci fossero nella Grande Los Angeles: si giunse alla conclusione che le persone vivevano in circa 350 comunità – cittadine, quartieri, sobborghi. (Ora ce ne sono circa 500). Dietro il mio progetto c’era l’idea che ognuno di questi pezzi costituenti aveva una storia interamente locale e totalmente eccentrica da raccontare; ma che, inoltre, rifletteva in sé qualche importante caratteristica dell’insieme più grande di cui faceva parte. Io sono letteralmente convinto che potrei spendere molte vite per raccontare una storia di Los Angeles in ognuno di questi posti; e questa fu la metodologia che scelsi. Suppongo che nel frattempo ero diventato un urbanista solo perché la gente cominciò a definirmi tale. In realtà non ho mai pensato a me stesso come a uno storico, un sociologo, un economista politico e neppure come a un teorico urbano.

T.E.: E come si definirebbe allora?

M.D.: Come altri sopravvissuti della New Left, mi definisco un organizzatore, dal momento che mi dedico ad analisi sulla struttura del potere o sulla politica in generale. Quasi tutto quello che ho scritto o pensato corrisponde, in qualche insana maniera, a quello che a un certo punto nella mia mente sembra essere imperativo, da un punto di vista tattico-strategico – come se ancora ne dovessi rispondere davanti al consiglio nazionale del SDS (Students for a Democratic Society, organizzazione della New Left americana, NdT) o all’ufficio di Chicago durante la prima guerra mondiale.

E questo faceva parte del puzzle strategico di cui ho parlato in
City of Quartz. Los Angeles si trovava in un punto critico della sua storia. La globalizzazione aveva riorganizzato la sua economia in modi persino drammatici, e molte persone erano rimaste indietro. Eppure la città aveva (e ha) questo incredibile, multiforme potenziale di miglioramento, di progressismo politico, di sorprendente attivismo. All’epoca, avevo intenzione di scrivere un libro che fosse utilizzabile da una nuova generazione di attivisti, mentre tentavo di immaginarmi in che modo guardare a un posto come Los Angeles, la cui fantasia stessa si era incarnata fisicamente nella sua struttura. È una città che vive nelle sue immagini.

T.E.: E poi scoppiarono i disordini del 1992, no?

M.D.: ...e io provai a interpretarle come una diretta conseguenza del processo di globalizzazione. C’erano vincitori e vinti. Era anche vero che la globalizzazione era infine giunta nell’America centro-meridionale sotto forma di un’industria transnazionale della droga. Quella era l’unico tipo di globalizzazione che avrebbe mai fatto circolare denaro in quelle strade. Il volume successivo a
City of Quartz stava per diventare una storia delle rivolte successive al pestaggio di Rodney King, raccontata quartiere per quartiere: ovvero, l’unica strategia narrativa che avrebbe avuto la possibilità di afferrare la complessità degli eventi. Quasi per caso, avevo accesso ad alcuni dei personaggi-chiave della vicenda. Conoscevo, per esempio, la madre di quel ragazzo che finì in galera per aver quasi ucciso un camionista. Ero anche amico della famiglia di Dewayne Holmes, il principale fautore della tregua tra le gang a Watts.

Speravo di intrecciare queste storie insieme alle altre storie di quartiere, per spiegare una sollevazione che fu, simultaneamente, una giustificabile esplosione di rabbia contro la polizia, una sommossa del pane post-moderna e un pogrom contro i negozianti asiatici. Ma la mia ambizione andò in crisi su due fronti. Non ho mai trovato il coraggio sufficiente per saccheggiare le vite altrui per i miei scopi narrativi, né per arrogarmi il diritto di raccontare le loro storie. Allo stesso tempo, trovai che il progetto era troppo straziante, dal punto di vista emozionale. Le vite dei miei amici e conoscenti erano riempite con così tanti guai e dolori, così tanta tristezza e frustrazione. Vivere queste cose insieme a loro – e quello era un periodo in cui avevo molti lavori ed ero prossimo a diventare un genitore single – non era quello che potevo fare. Ero certo di avere in mente un progetto letterario eccezionale, ma non avevo né la coscienza né l’energia per scriverlo.

Fortunatamente, al mio progetto furono aggiunti i disastri naturali: e così il libro sulle rivolte diventò Ecology of Fear, uno studio sul feticismo del disastro nella California meridionale, dove la natura viene vista in termini sociali (coi coyote e i puma paragonati alle gang), mentre i problemi sociali (come le gang) vengono visti come eventi naturali (“gioventù feroce e selvaggia”). Ecology of Fear parlava dell’incapacità della civiltà anglo-americana di comprendere totalmente il metabolismo del mondo mediterraneo che ci vive dentro. Un’incomprensione che costituisce l’essenza più autentica della California meridionale.

In sostanza, mi sono ritirato dalla scienza e, dalla micro-scala delle biografie, sono passato alla grande scalea della tettonica a zolle e del Nino. La scienza è stata il mio primo amore e io completai quel libro più nella biblioteca di geologia al Cal Tech (California Institute of Technology, NdT) che nei salotti delle persone che conoscevo a Los Angeles.

T.E.: Se facciamo un salto di 15 anni fino alla sua ultima fatica, Planet of Slums, con i suoi vasti affreschi urbani, possiamo immaginare che lei stia prendendo ordini da qualche comitato centrale? E può traghettarci sul pianeta in degradazione di cui parla nel libro?

M.D.: Credo sia piuttosto curioso come la sociologia classica, che sia Marx, Weber o perfino la teoria della modernità, non abbia previsto quello che è successo alla città negli ultimi 30 o 40 anni. Non ha previsto l’emergere di un’enorme classe sociale, principalmente composta da giovani, che vivono in città, senza avere alcuna connessione formale con l’economia mondiale e senza speranza di averla in futuro. Questa classe operaia informale non è il lumpenproletariat (sottoproletariato, NdT) di Karl Marx e non è neppure lo slum-of-hope come ce lo si era immaginati 20 o 30 anni fa, cioè pieno di gente in grado di raggiungere successivamente il mondo economico formale. Gettata nelle periferie delle città, solitamente con accesso limitato alla tradizionale cultura cittadina, questa informale quanto globale classe operaia rappresenta uno sviluppo senza precedenti, e non previsto dalla teoria.

T.E.: Ci dia qualche dato a proposito della "ghettizzazione" [lett. "slumificazione", NdT] del pianeta.

M.D.: Solo da pochi anni a questa parte è stato possibile osservare chiaramente il fenomeno dell’urbanizzazione su scala globale. In precedenza i dati erano poco affidabili, ma l’Onu-Habitat ha compiuto uno sforzo ammirevole: ha incluso nuove basi statistiche, sondaggi domestici e studi per stabilire un appoggio affidabile per il dibattito sul nostro futuro urbano. Il rapporto che ha rilasciato 3 anni fa, The Challenges of Slums, ha avuto una funzione tanto pionieristica quanto quella ricoperta dalle grandi esplorazioni della povertà urbana condotte, nel XIX secolo, da Engels, Mayhew, Charles Booth o, negli Stati Uniti, da Jacob Riis.

Secondo le sue stime più prudenti, un miliardo di persone vivono attualmente negli slum (ghetto, quartiere degradato, NdT) e più di un miliardo non ha un lavoro fisso e lotta per la sopravvivenza. Si va dai venditori di strada ai lavoratori, dal caporalato alle badanti, dalle prostitute a quei poveracci che sono costretti a vendere i propri organi. Sono cifre sbalorditive, e lo sono ancora di più se pensiamo a cosa si troveranno di fronte i nostri figli e nipoti. Verso il 2050 o il 2060, la popolazione umana registrerà la sua massima crescita, probabilmente attorno ai 10-10,5 miliardi di persone. Nulla di simile alle prime, apocalittiche previsioni, ma un buon 95% di tale crescita interesserà le città del sud del mondo.

T.E.: In pratica, negli slum...

M.D.: Tutta la futura crescita della popolazione avverrà nelle città; la quasi totalità, nelle città più povere; e buona parte di essa, appunto, negli slum.

L’urbanizzazione classica, secondo il modello di Manchester, Chicago, Berlino e San Pietroburgo, è tuttora in atto in Cina e in pochi altri posti. È importante notare, comunque, che la rivoluzione urbano-industriale cinese impedisce che questa si ripeta altrove. Essa, infatti, assorbe tutta la capacità di manufatti leggeri – e, in misura crescente, di tutto il resto. Ma in Cina e in qualche economia adiacente si può ancora vedere una città svilupparsi grazie a un motore industriale. Da ogni altra parte, invece, succede perlopiù senza che vi sia sviluppo industriale; o, ancora più scioccante, senza che vi sia alcun tipo di sviluppo. Inoltre, quelle che storicamente rappresentavano le grandi metropoli industriali del sud – Johannesburg, San Paolo, Mumbai, Belo Horizonte, Buenos Aires – hanno tutte conosciuto nell’ultimo ventennio una massiccia de-industrializzazione, con un declino del 20-40% della manodopera industriale.

I mega-slum di oggi sorsero perlopiù negli anni Settanta e Ottanta. Prima del 1960, la domanda era: perché le città del Terzo Mondo crescono così lentamente? All’epoca, di fatto, c’erano enormi ostacoli istituzionali all’industrializzazione rapida. Gli imperi coloniali limitavano l’accesso alle città, mentre in Cina e in altre nazioni staliniste un sistema di passaporti domestici controllava i diritti sociali e dunque la migrazione interna. Fu negli anni Sessanta, parallelamente al processo di decolonizzazione, che si verificò il grande boom urbano. Ma allora, almeno, gli stati nazionalisti rivoluzionari urlavano a gran voce che avrebbero provveduto a garantire alloggi e infrastrutture. Negli anni Settanta, lo stato cominciò a tirarsi indietro; e con gli anni Ottanta, l’era della regolazione strutturale, si ebbe il decennio del regresso, in America Latina e ancora di più in Africa. Si ebbero così città sub-sahariane che crescevano a ritmi più elevati di quelli delle industriali città vittoriane nella loro epoca d’oro – al contempo sbarazzandosi, tuttavia, del lavoro regolare.

Come possono le città sostenere una tale crescita demografica senza uno sviluppo economico, nel vero senso della parola? O, per dirla altrimenti: come fanno la città del Terzo Mondo a non esplodere, davanti a queste contraddizioni? Be’, effettivamente lo fanno, in una certa misura. A cavallo degli anni Ottanta e Novanta, in tutto il mondo abbiamo avuto disordini contro il FMI, sull’onda de “cancellate il debito”.

T.E.: E i disordini di Los Angeles del 1992 furono parte di questo?

M.D.: Dal momento che Los Angeles combina elementi di città del Terzo Mondo con quelli di città del Primo, rientra nel modello globale del malcontento. Ciò che era invisibile ai politici cittadini del tempo, ma che era ovvio per le strade, era l’impatto della più grave recessione occorsa nella California meridionale dal 1938 – la cui vittima principale non fu l’industria aerospaziale (nonostante all’epoca si fosse scritto molto a proposito), ma i quartieri poveri e quelli abitati perlopiù da immigrati. Nel giro di un anno, in cui io vissi in centro città, una collina popolata da una manciata di senzatetto di colore e di mezza età, all’improvviso divenne l’accampamento di 100-150 giovani latinos. Fino a sei mesi prima, erano lavoratori giornalieri o lavapiatti.

Se la scintilla che ha innescato la bomba fu l’atrocità del caso Rodney King – e il substrato di frustrazioni accumulato dalla gioventù nera in una comunità dove l’occupazione globale significa spaccio di crack – divenne ben presto un evento su grande scala, molto più complesso, a causa dei saccheggi di massa nei quartieri ispanici, dove la gente viveva ai limiti della sussistenza e spesso senza una casa.

T.E.: Come venne globalmente interpretato dai politici quello che stava accadendo nelle città?

M.D.: Negli anni Ottanta la Banca Mondiale, gli economisti dello sviluppo e le grandi ONG si resero conto che, nonostante la quasi totale abdicazione del ruolo dello stato nella pianificazione e nell’approvvigionamento di case per gli abitanti poveri delle città, la gente in qualche modo continuava a occupare edifici, trovare un tetto, sopravvivere. E ciò portò a un’improvvisata scuola di urbanizzazione. Date alla povera gente i mezzi per farlo e loro si costruiranno le loro case e organizzeranno i loro quartieri. Questa fu, in parte, una celebrazione interamente giustificabile dell’urbanismo “dal basso”. Ma nelle mani della Banca Mondiale esso divenne un paradigma totalmente nuovo: lo stato è finito; non preoccupatevi dello stato; i poveri possono improvvisare una città; hanno solo bisogno di piccoli prestiti...

T.E.: Ovvero, piccoli prestiti a tassi di interesse alti...

M.D.: Esatto. E così i poveri avrebbero potuto miracolosamente crearsi i propri mondi urbani e i propri lavori.

Planet of Slums intende seguire Challenge, il rapporto delle Nazioni Unite che ci ha avvertito che la crisi globale di disoccupazione urbana non era meno insidiosa dei cambiamenti climatici, come minaccia al nostro futuro. Si tratta dichiaratamente di un viaggio in poltrona nelle città dei poveri, e costituisce un tentativo di sintetizzare in un unico volume la vasta letteratura specialistica sulla povertà urbana e gli insediamenti precari. Sono emerse due conclusioni fondamentali.

Innanzitutto, la disponibilità di terra libera per lo squatting (occupazione abusiva di un edificio o di un terreno, NdT) è finita, in alcuni casi da lungo tempo. Ora, l’unico modo che hai per costruirti una capanna su un terreno libero è quello di sceglierti un posto così rischioso da non avere praticamente alcun valore di mercato. Fare squatting, ormai, è come scherzare con il fuoco. E così, per esempio, se io ti portassi poche miglia più a sud, oltre il confine, fino a Tijuana, tu vedresti quasi subito che la terra che una volta era occupata da quartieri di squatter ora è in vendita, talvolta perfino suddivisa e sviluppata. Gli strati più poveri della popolazione di Tijuana si dedicano allo squatting vecchia maniera soltanto ai bordi dei precipizi o nei letti dei fiumi, dove le loro case collasseranno entro un paio d’anni. E questo succede in ogni parte del Terzo Mondo.

Lo squatting è stato privatizzato. In America Latina, viene definito “urbanizzazione pirata”. In quei luoghi in cui, vent’anni fa, la gente avrebbe occupato terreni senza padroni, resistendo agli sfratti e magari venendo alfine riconosciuti dallo stato come proprietari, ora paga altissimi prezzi per piccole porzioni di terra; o, se non possono permetterselo, le affittano da altri poveracci. In alcuni slum, la maggior parte degli abitanti non sono squatter ma affittuari. Se ti recassi a Soweto (a Johannesburg, in Sudafrica), noteresti che le persone riempiono i loro cortili con baracche che poi affittano. La principale strategia di sopravvivenza di milioni di persone povere rimaste in città abbastanza a lungo da aver ottenuto un po’ di terra, è quella di dividere la loro proprietà e diventare locatori di gente più povera di loro; la quale, talvolta, suddivide ulteriormente la sua porzione di terra e l’affitta ad altri. E così una fondamentale valvola di sicurezza, questa assai romanticizzata frontiera di libera terra urbana, appartiene perlopiù al passato.

La seconda importante conclusione riguarda la cosiddetta “economia informale” – l’abilità della povera gente di improvvisare mezzi di sussistenza attraverso attività economiche non registrate – come il commercio ambulante, il lavoro giornaliero, i servizi domestici, o perfino il crimine di sussistenza. Se non altro, l’economia informale è stata romanticizzata più dello squatting, con numerosi richiami al fatto che questa sorta di micro-imprenditorialità fosse in grado di strappare la gente alla povertà. Eppure, una grande quantità di studi in ogni parte del mondo mostrano un numero sempre maggiore di persone schiacciate all’interno di nicchie di sopravvivenza: troppi rickshaw-wallah (conducenti di risciò, NdT), troppi venditori ambulanti, troppe donne africane che trasformano le loro catapecchie in shabeen (sorta di bar/distilleria, NdT) per vendervi liquori, troppa gente che rammenda i vestiti, troppa gente in coda sui posti di lavoro.

T.E.: In un certo senso, lei dice che il Terzo Mondo sta trasformandosi in qualcosa come il Trecentesimo Mondo.

M.D.: Io dico che una volta c’erano due principali meccanismi per dare un alloggio ai poveri nelle città in cui lo stato ha da lungi cessato di investire; e che questi hanno raggiunto il loro limite massimo proprio nel momento in cui le città povere conosceranno due generazioni di rapida e continua crescita demografica. Ora la domanda, ovvia quanto sinistra, è: cosa si nasconde oltre quella frontiera?

T.E.: Riporto una citazione da Planet of Slums: “Con una Grande Muraglia – nel vero senso del termine – di frontiere high-tech che bloccano le migrazioni di grande scala verso le nazioni ricche, gli slum rimangono l’unica esclusiva soluzione al problema dell’immagazzinamento del surplus di umanità di questo secolo.

M.D.: Le due maggiori città povere dell’Europa ottocentesca che rientrano nel nostro modello erano Napoli e Dublino, ma nessuno le vide come il futuro; e il motivo per cui non c’erano altre Dublino o Napoli era che esisteva la valvola di sfogo della migrazione atlantica. Oggi, alla maggior parte del sud del mondo è di fatto impedito di migrare. Non esistono precedenti, per esempio, per quel tipo di confini che l’Australia e l’Europa occidentale hanno costruito, essenzialmente per la totale esclusione (eccetto per un flusso limitato di manodopera altamente specializzata). Storicamente, il confine tra Messico e Stati Uniti è di tipo differente: agisce infatti come una diga per regolare la domanda di manodopera, non per tagliarla fuori completamente. Ma, più in generale, per le popolazioni che abitano le nazioni povere non ci sono tutte quelle opzioni di cui, in passato, hanno goduto gli europei poveri.

Forze inesorabili stanno espellendo le persone dalle campagne e questa parte di popolazione, resa “surplus” dall’economia globalizzata, si ammassa negli slum, nelle periferie che non sono più campagna e non ancora città, e delle quali la teoria urbanista non si è ancora fatta un’idea chiara.

Negli Stati Uniti, li chiameremmo exburbia, ma le periferie residenziali dalle nostre parti sono un'altra cosa. Se si guarda alle città statunitensi, la cosa che colpisce di più sono proprio questo tipo di insediamenti – le persone che fanno avanti e indietro dalle edge cities alle ex zone rurali ora vivono nelle cosiddette McMansions con le loro SUV parcheggiate di fronte. Si stanno trasformando in un tipico quartiere di Levittown degli anni cinquanta, con le proprie casette tutte uguali tra loro e i propri piccoli consumi domestici, in apparenza efficienti dal punto di vista del rispetto ambientale. In sostanza, dal momento che le classi medie si sono dislocate, il loro "footmark ambientale" è cresciuto a dismisura.

Un altro aspetto di ciò è che la povera gente si è accalcata negli spazi più pericolosi, sui pendii delle colline a rischio di frana, vicino a discariche di rifiuti tossici, nei pressi di aree acquitrinose, ogni giorno rischiando sempre più di rimanere coinvolti in disastri naturali.

T.E.: Lei lo ha chiamato "un ground zero esistenziale".

M.D.: Sì, perchè si tratta di una urbanizzazione senza urbanità. Un esempio è quello del gruppo islamista radicale che qualche anno fa attaccò Casablanca – quindici o venti giovani cresciuti nella città senza mai esserne stati parte integrante. Una vita, la loro, sempre sul filo del rasoio, non nei tradizionali gruppi working-class o nelle comunità dei quartieri poveri che sostengono un Islam fondamentalista e nemmeno una realtà nichilista. Sono persone espulse dalle zone rurali ma allo stesso tempo mai pienamente integrate nelle campagne. Nel loro mondo di slums, il solo ordine sociale esistente era quello previsto dalle moschee e dalle organizzazioni islamiche.

Secondo alcune opinioni, quando questi giovani attaccarono Casablanca alcuni di essi non erano mai stati in città. Io credo che ciò rappresenti la metafora di ciò che accade in giro per il mondo: la condizione di una generazione abbandonata nelle discariche urbane – non necessariamente le più povere, ma le più violente.

Consideriamo Hyderabad, la vetrina high-tech dell'India, una città di 60.000 programmatori di software e ingegneri dove la gente ha fatto proprio il modello sociale californiano dei quartieri della Santa Clara Valley zeppi di caffè Starbucks. Bene, Hyderabad è circondata da ghetti immensi, dove vivono milioni di persone. Dove ci sono più raccoglitori di stracci che informatici. Alcuni di questi disperati costretti a raccogliere i brandelli della new economy sono stati espulsi dagli slums situati nelle zone più centrali, abbattuti per far spazio alle stanze dei nuovi parchi di ricerca delle classi medie.


La città imperiale e la bidonville – Il Pentagono vs le periferie degradate

Tom Engelhardt: Mi viene in mente che a Baghdad l’amministrazione Bush è riuscita a creare una versione bizzarra del mondo urbano che lei hai descritto in Planet of Slums. C’è l’imperiale Green Zone (Zona Verde), barricata nel centro della città con i suoi caffè Starbucks e fuori la capitale disintegrata e il grande quartiere povero di Sadr City. L’unico scambio fra le due parti è il passaggio in una direzione degli elicotteri armati di missili e le autobomba che vanno dalla parte opposta, è vero?

Mike Davis: Proprio così. Baghdad è diventata un esempio di crollo dello spazio pubblico con sempre meno terreno fra le due estremità. I quartieri dei Sunniti e degli Sciiti integrati si stanno rapidamente esaurendo non soltanto per le azioni degli americani, ma per il terrorismo di setta.

Sadr City (il quartiere orientale di Baghdad), chiamata anche la città di Saddam, è cresciuta fino a raggiungere dimensioni grottesche; vi abitano due milioni di poveri soprattutto Sciiti. Ed è ancora in crescita, come del resto i bassifondi sunniti, questa volta non grazie a Saddam, ma alle disastrose politiche americane per l'agricoltura, nella cui ricostruzione gli Stati Uniti non hanno investito denaro. Vaste campagne sono state trasformate in deserti, mentre tutta l'attenzione è stata rivolta, senza successo, nel ripristino dell’industria petrolifera. La cosa migliore sarebbe stata quella di preservare un equilibrio fra la campagna e la città, mentre le politiche americane hanno solo accellerato la fuga dalle terre. Ovviamente le Green Zones sono comunità fortificate, simili alle cittadelle medievali dentro alla roccaforte e questo lo si può vedere un po’ in tutto il mondo.

Nel mio libro, ho paragonato questo fenomeno alla crescita delle bidonville nella periferia, la classe media che abbandona la sua cultura tradizionale con la città centrale, per ritirarsi in mondi spenti con stili di vita californiani a tema. Alcuni di questi sono incredibilmente attenti alla sicurezza, delle vere fortezze. Altri invece sono quartieri in stile tipico americano, ma tutti sono organizzati intorno alla comune ossessione di una fantasia americana, ed in particolare di quella Californiana universalmente diffusa dalla tv. Quindi i “nuovi ricchi” a Pechino possono andare a lavorare, attraverso un’autostrada, in ripartizioni chiuse con nomi quali Orange County, Beverly Hills... esiste una Beverly Hills anche al Cairo e un intero quartiere a tema Walt Disney. A Jakarta avviene la stessa cosa, ci sono aree chiuse in cui le persone vivono in Americhe immaginarie. La diffusione di questi fenomeni ha enfatizzato come la nuova classe media del mondo sia senza radici e sia ossessionata dal possesso delle cose che vede in televisione. È per questo che ci sono architetti di Orange County, che progettano delle “orange county” a Pechino e riproducono così con terribile fedeltà le cose che la classe media vede in tv o nei film.

T.E.: Saltando ad un altro progetto urbanistico di Bush, una cosa simile sta accadendo a New Orleans, vero?

M.D.: Esatto. Sfortunatamente la maggior parte dell’alta società bianca della città preferirebbe vivere in una versione fasulla, in stile parco di divertimenti della storica New Orleans piuttosto che affrontare il vero obiettivo di ricostruzione o convivere con una maggioranza afro-americana. Le aspettative di autenticità della gente hanno da tempo perso qualsiasi riferimento con la realtà. Nel mio libro The Ecology of Fear ho messo in rilievo come gli Universal Studios abbiano estratto da Los Angeles le sue icone, le abbiano miniaturizzate e chiuse in un luogo sicuro chiamato City Walk. E così un tour di questo luogo, o dell’equivalente Las Vegas, può sostituire una visita vera della città. Si va al parco a tema, che non è altro se non un centro commerciale. Se ci fosse anche un casinò, l’esperienza sarebbe completa.

In questo processo i poveri sono sempre più tagliati fuori dall’accesso agli spazi culturali e pubblici della città, mentre i ricchi volontariamente vi rinunciano per ritirarsi in ciò che è oggi un luogo generico universale che poco cambia di paese in paese. Gli spazi comuni stanno scomparendo. Tuttavia le differenze fra gli spazi culturali e i continenti sono ancora molto grandi: in America Latina ciò che più spaventa è il grado di polarizzazione politica che vi si trova, la ferocia della resistenza della classe media alle richieste dei poveri. Chavez deve ingaggiare medici cubani, perché riesce a trovare solo un piccolissimo numero di dottori venezuelani disposti a lavorare nei quartieri poveri.

Il Medio Oriente invece è differente: al Cairo, ad esempio, dove lo stato si è ritirato o è troppo corrotto per fornire i servizi di base, sono i professionisti musulmani a soddisfare questi bisogni. La fratellanza musulmana ha preso il controllo delle associazioni di dottori e di ingegneri. A differenza della classe media latino-americana, che si mobilita solo per preservare i propri privilegi, questa è organizzata per fornire dei servizi, è una sorta di società civile parallela per i poveri. In parte deriva dall’obbligo del Corano di aiutare gli altri, ma costituisce una sorprendente differenza con importanti effetti sulla vita della città.

T.E.: Vorrei discostarmi un attimo dal discorso: il suo penultimo libro è The Monster at our Door (Influenza aviaria – Scienza e storia di una possibile emergenza, Nuovi Mondi Media, 2006, NdT), sull’influenza aviaria. Mi rendo conto proprio mentre stiamo parlando che è tematicamente collegato al suo ultimo Planet of Slums perché anch’esso parla di una sorta di degradazione del pianeta, questa volta in riferimento all’agricoltura.

M.D.: Ho creato un mondo dickensiano di povertà vittoriana, ma su una scala che avrebbe sbalordito i vittoriani stessi. Per cui naturalmente ci si chiede se la preoccupazione del ceto medio vittoriano circa le malattie dei poveri non stia ricomparendo ora. La loro prima reazione alle epidemie era stata quella di trasferirsi ad Hampstead, di fuggire dalla città, di cercare di allontanarsi dai poveri. Soltanto quando si seppe per certo che il colera si spostava comunque molto rapidamente dai bassifondi verso le aree della borghesia, si investì denaro per ottenere minime misure igieniche e delle infrastrutture per la sanità pubblica. L’illusione di oggi, proprio come nel diciannovesimo secolo, è che possiamo in qualche modo allontanarci, alzare un muro, o volare via dai problemi dei poveri, ma non credo che la maggior parte delle persone conosca l’immensa ed esplosiva concentrazione di potenziali malattie esistente.

Più di vent’anni fa, i principali ricercatori scientifici ci hanno messi in guardia in una serie di volumi circa le malattie nuove e quelle riemergenti. La globalizzazione, hanno osservato, stava causando una grande instabilità ambientale sul pianeta e un forte cambiamento ecologico probabilmente in grado di sbilanciare l’equilibrio fra gli esseri umani e i microbi, in maniera tale da portare nuove piaghe. Ci hanno anche avvisato del fallimento del tentativo di creare infrastrutture di monitoraggio delle malattie e di sanità pubblica globali.

Nel mio libro, ho osservato la relazione fra i proliferanti bassifondi globali, ovunque associati a disastri sanitari, e le classiche condizioni che favoriscono la rapida diffusione di una malattia fra le popolazioni; dall'altra parte, mi sono concentrato su come il cambiamento nella produzione del bestiame stesse creando nuove condizioni favorevoli alla comparsa di malattie fra gli animali e alla loro trasmissione all’uomo.

L’influenza è un importante esempio di malattia infettiva. Il suo antico bacino sta esclusivamente nel sistema produttivo agricolo della Cina del sud con il suo profondo e storico abbinamento ecologico di uccelli selvatici, domestici, maiali e esseri umani. E per quanto riguarda l’influenza aviaria, da una parte sono state create le condizioni ottimali nel mondo moderno perché si diffondesse, mentre dall’altra la crescita delle città povere ha aumentato la richiesta di proteine per l’alimentazione delle popolazioni. Questa richiesta, che non può più essere soddisfatta dalle tradizionali risorse di proteine, viene quindi affrontata dalla produzione industrializzata di bestiame.

In poche parole si tratta di urbanizzazione del bestiame. Anziché tenere quindici o venti polli nel cortile e un paio di maiali nella fattoria, stiamo parlando di un’area, a Bangkok ad esempio, dedicata alla crescita dei polli delle dimensioni di quelle dell’Arkansas o del nord ovest della Georgia: milioni di polli che vivono in magazzini o in allevamenti industriali. Densità simili di volatili non sono mai esistite in natura e secondo gli esperti di epidemiologia con cui ho parlato, favoriscono un’altissima virulenza e l’evoluzione accelerata delle malattie.

Contemporaneamente, le terre paludose presenti sulla terra sono state degradate e le acque deviate, di solito per irrigare i campi coltivati, spingendo così gli uccelli migratori selvatici verso terre irrigate, risaie, fattorie. Tutti questi fattori (la rivoluzione del bestiame, la maggiore richiesta nelle città soprattutto della carne di pollo che costituisce oggi la seconda proteina della carne sul pianeta, l’aumento dei quartieri poveri e la scomparsa delle paludi) si sono verificati con una particolare velocità negli ultimi dieci quindici anni. Tuttavia circa una generazione fa eravamo stati messi in guardia dagli esperti in malattie infettive. Quello che sta avendo luogo è un disordine ecologico molto radicale che ha mutato l’ecologia dell’influenza e le condizioni in base alle quali la malattia si trasmette dagli animali agli esseri umani. Inoltre tutto ciò è avvenuto in un’epoca in cui la sanità pubblica nella maggior parte delle città del Terzo Mondo è scomparsa. Una delle conseguenze della modifica strutturale degli anni ’80 è stata di forzare centinaia di migliaia di dottori, infermiere, e lavoratori della sanità pubblica ad emigrare, lasciando il Kenya o le Filippine per lavorare in Inghilterra o in Italia.

Questa è la formula per un disastro biologico e l’influenza aviaria è la seconda pandemia della globalizzazione. Oggi risulta chiaro che il virus dell’HIV o AIDS sia emerso almeno in parte attraverso il commercio del bushmeat [la carne di animali selvatici, come scimmie, antilopi, o rettoli, catturati nel loro ambiente naturale, NdT]. Le navi industriali europee, svuotando il Golfo della Guinea di tutti i pesci, fonte principale di proteine dell’alimentazione urbana, hanno infatti costretto le popolazioni dell’Africa occidentale a rivolgersi verso questo tipo di carne. È stata anche avanzata l’ipotesi, con svariate prove circostanziali, che l’HIV abbia raggiunto la città di Kinshasha in Congo; questo caso costituisce il più importante ed attuale esempio di ciò che accade quando uno stato crolla o si ritira.

Ecco dunque l’HIV, l’influenza aviaria e la SARS, altra malattia emersa dal commercio del bushmeat nelle città della Cina del sud e diffusa nel mondo con spaventosa velocità. Questo è il futuro delle malattie…

T.E.: …e della crescita delle bidonville.

M.D.: Si, certo, la malattia nel mondo dei poveri. Che qualcosa di simile all’influenza aviaria si diffondesse nell’umanità era forse inevitabile, data la combinazione di quartieri degradati e cambiamenti di ampio raggio nell’ecologia dell’uomo e degli animali. Tuttavia, ciò che preoccupa più della mera minaccia di una simile epidemia, è la reazione che ne segue: un immediato accaparramento di vaccini e medicine antivirali, un’esclusiva attenzione alla salvaguardia della salute di chi vive in una manciata di paesi ricchi, che fra l’altro monopolizzano la produzione di queste medicine di salvataggio. In altre parole, si tratta di un abbandono quasi riflessivo dei poveri senza nemmeno pensarci due volte. Se l’influenza aviaria si diffondesse fra cinque anni e non ora, la differenza sarebbe nel grado di protezione degli Stati Uniti, Germania e Inghilterra. I poveri sarebbero sempre nella stessa posizione, in particolare gli africani che sono più a rischio perchè la strage che sta facendo l’HIV rende la popolazione più sensibile alle altre infezioni.

T.E.: Quindi questo è un esempio di potenziale scambio fra la città imperiale e la bidonville. L’altro è lo scambio di violenza, le guerre al terrorismo, le droghe, e altro ancora. Voglio dire che se pensi al Vietnam o all’Iraq la jungla negli annali della guerra moderna corrisponde quasi letteralmente ai quartieri poveri.

M.D.: Senza voler minimizzare le esplosive contraddizioni sociali ancora presenti nella campagna, è chiaro che il futuro delle strategie dei guerriglieri si trovi ora nelle città, verso un’insurrezione contro il sistema. Nessuno se ne è accorto con maggior chiarezza del Pentagono, o ha provato con più vigore a lottare contro le sue conseguenze empiriche. I suoi strateghi sono molto più avanti rispetto ai geopolitici o ai tradizionali tipi di relazioni estere nel capire il significato di un mondo di bassifondi…

T.E.: …e di riscaldamento globale.

M.D.: Certo, perchè loro si rendono conto della potenziale instabilità che ciò creerà e forse immaginano anche i cambiamenti vantaggiosi nell’equilibrio del potere che ciò porterà con sè.

Ciò che gli Stati Uniti hanno dimostrato negli ultimi anni è una straordinaria abilità nell’eliminare l’organizzazione gerarchica della città moderna, attaccare le sue cruciali infrastrutture e nodi, ingrandire le stazioni televisive e distruggere condotti e ponti. Le bombe intelligenti possono fare queste cose, ma nello stesso tempo il Pentagono si è reso conto che questa tecnologia non è applicabile ai quartieri periferici, alle labirintiche e ignote parti della città assenti sulle mappe, dove mancano la gerarchia, le infrastrutture centralizzate, gli edifici alti. Esiste ormai una straordinaria documentazione militare che cerca di occuparsi di ciò che il Pentagono vede come il terreno più nuovo di questo secolo, di cui alcuni esempi sono i quartieri poveri di Karachi, Porta au Prince e Baghdad. Questo riporta indietro all’esperienza nel 1993 di Mogadiscio che è stata un vero shock per gli Stati Uniti e ha mostrato come i metodi tradizionali della guerra urbana non funzionino se applicati ai bassifondi.

T.E.: Nonostante nessuno vi faccia riferimento, mentre un piccolo numero di soldati americani restava ucciso a Mogadiscio con il nostro sgomento, un imprecisato ma grande numero di somali, almeno centinaia, perdeva la vita.

M.D.: Infatti si può commettere una strage su larga scala, si possono uccidere migliaia di persone. Ciò che manca è l’abilità di rimuovere chirurgicamente i nodi cruciali perchè raramente ve ne sono nei bassifondi; perchè non hai a che fare con un sistema spaziale gerarchico, né con organizzazioni gerarchiche in generale. Non sono sicuro che il Consiglio per la Sicurezza Nazionale lo capisca, ma sicuramente lo hanno compreso molti teorici militari. Se leggi degli studi fatti dall'Army War College, ad esempio, scoprirai una geopolitica differente rispetto a quella adottata dall’amministrazione Bush. Coloro che pianificano la guerra non enfatizzano le linee delle cospirazioni maligne o a volta, ma insistono sul terreno (i tentacolari quartieri periferici e le opportunità che offrono in una mescolanza di avversari fra cui i signori della droga, al-Qaeda, le organizzazioni rivoluzionarie, i culti religiosi) per ricavarsi una sfera d’influenza. Il risultato è che gli esperti del Pentagono stanno studiando architettura e teoria della pianificazione urbana: utilizzano le tecnologie GIS (il sistema informativo geografico) e i satelliti per coprire le lacune che lo Stato ha nella conoscenza della periferia.

Il problema della violenza fra gli slums e la città imperiale è strettamente legato ad una questione più profonda, cioè la mediazione. Come farà questa larga minoranza dell’umanità, che ora vive in città, ma che è esclusa dall’economia del mondo ad avere un futuro? Qual è la sua capacità di mediazione storica? La tradizionale classe operaia, come ha messo in luce Marx ne Il Manifesto del Partito Comunista, era una classe rivoluzionaria per due ragioni: perchè non partecipava all’ordine esistente, ma anche perchè era centralizzata dal processo di produzione industriale moderna. Aveva però un enorme e potenziale potere sociale, poteva scioperare, fermare la produzione o prendere il controllo della fabbrica.

Ed ecco invece una classe operaia informale senza alcuna posizione strategica nella produzione, nell’economia, che ha nonostante ciò scoperto un nuovo potere sociale: il potere di disturbare la città, di attaccarla che va dalla nonviolenza creativa della gente di El Alto, la vasta bidonville di La Paz in Bolivia, dove gli abitanti regolarmente barricano la strada per l’aeroporto o interrompono i trasporti per fare valere le loro richieste, fino all’uso ormai universale delle autobomba dei nazionalisti e delle sette che vogliono attaccare i quartieri della classe media, quelli finanziari e persino quelli alti. Penso che ci sia una grande sperimentazione a carattere globale che cerca di trovare il modo migliore per usare il potere della disgregazione.

T.E.: Le dico, secondo me il più grande potere disturbatore è quello di interrompere il flusso dell’energia globale. I poveri che hanno una minima tecnologia sono in gradi di farlo nelle migliaia di chilometri di tubature non sorvegliate che ci sono sul pianeta.

M.D.: In tal senso tu vedi già gli elementi di un’emergente campagna. Soltanto nell’ultimo mese, c’è stato un attentato con un’autobomba contro il più grande stabilimento di petrolio dell’Arabia Saudita e il primo attentato sempre con un’autobomba sul delta del fiume Niger in Nigeria. Non ci sono state vittime, ma ha alzato la posta.

T.E.: Ha concluso Planet of Slums con questa nota: “Se l’impero può spiegare tecnologie di repressione orwelliane, gli emarginati hanno gli dei del caos dalla loro parte”.

M.D.: E il caos non è sempre una forza negativa. Il peggiore scenario possibile si ha quando le persone vengono messe a tacere. Il loro esilio allora diventa permanente e si ha un implicito raggruppamento dell’umanità. Le persone sono destinate a morire e a dimenticarlo nella stesso modo in cui dimenticano la strage dell’AIDS o diventano immuni agli appelli contro la fame.

Il resto del mondo ha bisogno di essere svegliato e i quartieri poveri stanno sperimentando un’immensa varietà di ideologie, piattaforme e mezzi per creare disordine, da attacchi quasi apocalittici alla modernità stessa fino ai tentativi all’avanguardia per inventare nuove modernità, nuovi tipi di movimenti sociali. Tuttavia uno dei problemi fondamentali è che quando ci sono così tante persone che lottano per avere un lavoro e uno spazio, il modo più ovvio per controllarle è attraverso l’uso di padrini, capi clan, leader etnici, che operano sui principi di esclusione etnica, religiosa o razziale. Questo fenomeno tende a creare delle guerre fra poveri che si perpetuano quasi all’infinito. Per cui nella stessa bidonville, si trovano una molteplicità di tendenze contraddittorie: gente che abbraccia la fede nello Spirito Santo, o si unisce a gang di strada, o si arruola in organizzazioni sociali radicali, o ancora diventa membro di una setta o un politico populista.

T.E.: Permetta un’ultima osservazione: viene spesso visto come uno scrittore apocalittico, un profeta di disastrosi e catastrofici destini, ma quasi tutto quello che scrive riguarda in realtà il contributo umano alla catastrofe, il modo in cui noi rifiutiamo di venire alle prese con le realtà del nostro mondo. Per questo nella mia mente il suo lavoro ha sempre un qualche elemento di utilità e di speranza in sé. Dopo tutto, se si tratta di un contributo umano è ovvio che noi potremmo umanamente evitare o trattare la situazione in maniera diversa, vero?

M.D.: Beh, il mio dovere è quello di cercare di essere il più perspicace e onesto possibile verso le mie convinzioni e le idee che le ricerche e osservazioni – ma anche le mie limitate esperienze di vita – mi portano ad avere. Non sento di doverle per forza addolcire con un pizzico di cosiddetto ottimismo. Una volta qualcuno ha accusato Ecology of Fear di un quasi erotico piacere apocalittico: ciò mi ha fatto pensare che dovesse essere stato scritto o interpretato male. Ad esempio, in un capitolo sulla letteratura dell’apocalisse a Los Angeles, io chiarisco che il piacere dell’apocalisse di solito tende ad essere una specie di voyeurismo razzista.

Tuttavia, alla fine è importante ricordare il vero significato dell’apocalisse nelle religioni di Abramo, che è in definitiva, alla fine del tempo, alla fine della storia, la rivelazione del vero testo della storia, la vera narrativa, non quella scritta dalle classi dominanti, dagli scribi del potere. E’ la storia scritta dal basso. Ecco perché ho sempre avuto un forte interesse per le religioni degli oppressi, ecco perché ho prestato attenzione, alcuni pensano in modo acritico, ai fenomeni come la Pentecoste.

T.E.: Per cui secondo lei il nostro futuro collettivo non è altro che una corsa in discesa verso la distruzione?


M.D.: La città è la nostra arca sulla quale potremmo sopravvivere al tumulto ambientale del prossimo secolo.

Veramente le città sono le forme più efficienti di convivenza con la natura che noi possediamo, perché esse possono sostituire il lusso pubblico al consumo privato o delle famiglie. Possono far quadrare il cerchio fra la sostenibilità ambientale e uno standard di vita decente. Voglio dire, per quanto fornita possa essere la vostra biblioteca o grande la vostra piscina, non sarà mai come la Biblioteca Pubblica di New York o come una piscina pubblica. Nessuna villa, nessun San Simeon sarà mai equivalente a Central Park o Broadway.

Tuttavia, uno dei principali problemi è che stiamo costruendo delle città di bassa qualità dal punto di vista urbano. Le bidonville, in particolare, consumano le aree naturali e gli spartiacque che sono fondamentali per il loro funzionamento in quanto sistemi ambientali e per la loro sostenibilità ecologica. Li stanno consumando o per speculazioni distruttive private, o semplicemente perché la povertà si diffonde in ogni luogo. In tutto il mondo, gli spartiacque e le aree verdi, che le città necessitano per funzionare ecologicamente e essere veramente delle città, vengono urabanizzate dalla povertà e dallo sviluppo speculativo privato. Il risultato è che le bidonville stanno diventando sempre più sensibili ai disastri, alle pandemie, e alle catastrofiche mancanze di risorse, in particolare di acqua.

Al contrario, il passo più importante per far fronte al cambiamento ambientale globale è quello di investire, in maniera massiccia, nelle strutture sociali e fisiche delle nostre città, e così impiegare decine di milioni di poveri giovani. Ci dovrebbe tormentare il fatto che Jane Jakobs, che aveva visto così chiaramente che il benessere delle nazioni è creato dalle città e non dalle nazioni stesse, abbia dedicato il suo ultimo visionario libro allo spettro di una futura epoca buia.

 

 

Fonti: http://www.motherjones.com/interview/2006/05/mike_davis.html
http://www.motherjones.com/interview/2006/05/mike_davis2.html

 

Traduzione a cura di Anna Lucca, Paolo Cola e Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media