Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Bellezza e autenticità nell’arte e nel costume

Bellezza e autenticità nell’arte e nel costume

di Leonarda Venuti - 28/04/2011

http://www.visageasti.it/images/avatar_gt.jpg



Se riflettiamo un attimo, vediamo che oggi tutto o quasi tutto è artefatto, costruito, innaturale, dall’alimentazione al modo di pensare, dalla forma del corpo umano agli ambienti abitativi e di lavoro. Nello stesso tempo, al contrario, avvertiamo la necessità liberatoria di uscire da spazi e schemi che ci sono stati imposti, il desiderio di una vita autentica, di trovare vera soddisfazione in ciò che è naturale, come il mangiare biologico e macrobiotico o il relax in spazi verdi. Il bisogno di vivere in tranquillità induce un numero crescente di persone a spostarsi, se possono, in luoghi vivibili, in abitazioni rispettose dell’ambiente.

Questa ricerca del naturale porta però sempre più spesso a delle
disillusioni: ciò che viene creduto autentico e non alterato dall’uomo può rivelarsi falso e artefatto. Qualche esempio? Le campagne, anelate negli anni scorsi come angoli di paradiso da tanti stranieri oltre che dagli Italiani, quale meta di un nuovo tipo di vacanza creduta disintossicante, celano in realtà fastidi e inquinamenti di varia natura: discariche, tralicci, pannelli fotovoltaici che nascondono il verde, circuiti per il motocross, aerodromi, musica ad alto volume di certi agriturismi, pesticidi sparsi in sovrabbondanza dagli agricoltori. Similmente, la ricerca di partner rispondenti a modelli di bellezza stereotipati può portare a spiacevoli sorprese, ad essere attratti da botulino e silicone, dai risultati della chirurgia estetica, invece che da corpi veri. Queste frequenti delusioni nella ricerca sia del bello che dell’autentico sono quindi causate dall’intervento alterante dell’uomo, e non smorzano ma semmai rafforzano il desiderio di trovare ciò che è naturale.

E’ preoccupante che l’aumento della sensibilità e del rispetto verso l’ambiente non si estenda a ciò che abbiamo di più caratterizzante, intimo e
personale: il nostro corpo. La  gente non sente la necessità di lasciare il proprio corpo naturale, così com’è. E’ divenuto normale sottoporsi a manipolazioni spesso dolorose per raggiungere un aspetto “adeguato”, imposto, stereotipato. Eppure ciascuno di noi, nell’incontro con l’altro, è colpito nel profondo esclusivamente da ciò che è naturale: si desidera vedere e sentire il corpo vero di una donna, il viso autentico di una persona coerente con l’età, senza tanti rifacimenti di seni, nasi, labbra, sopracciglia a virgola e quant’altro.

Coloro che si mostrano così come sono compiono oggi un atto di coraggio, e sono paragonabili a eroi tra tanti codardi. Codardi patetici e servili, perché è così che si diventa. Il potere ha interesse a far considerare ridicola qualsiasi differenziazione rispetto ai modelli da esso inculcati:
differenziarsi da uno stereotipo imposto, massificante, uguale per tutti è quindi la scelta migliore tra tante altre meschine, in quanto scelta indipendente, critica e personalizzante.

La radice di tale uniformazione a parametri esogeni è storicamente ravvisabile prima negli antichi Greci e Romani, poi nel Rinascimento e nel Neoclassicismo. Nella ricerca di una perfezione ideale e quindi innaturale, tutto deve rispondere a canoni armonici, basati su un perfetto equilibrio di proporzioni tra le parti: si tenta di raggiungere un modello di bellezza, in realtà spesso solo contingente, attraverso la simmetria e l’armonia del corpo. Nel Quattrocento Leon Battista Alberti afferma che la bellezza non è una qualità necessariamente insita in tutti gli oggetti esistenti in natura.
Egli ritiene che la bellezza si riconosce non soltanto in base al gusto, di carattere del tutto personale e variabile, ma in base a una facoltà razionale comune a tutti gli uomini. L’artista nelle sue opere deve preoccuparsi d’inserire quanto più gli è possibile il bello e il meno possibile il brutto: egli deve in primo luogo dissimulare o eliminare ogni imperfezione del suo modello; in secondo luogo l’artista deve scegliere accuratamente fra i vari modelli di cui dispone le parti più belle, allo scopo di fonderle in un tutto unico privo di difetti. Altro aspetto della teoria albertiana è quindi il desiderio di creare figure conformi non soltanto a quanto di più bello è in natura, ma a quanto è più consueto, generale o tipico. Secondo questa teoria l’artista, eliminando le imperfezioni degli oggetti naturali e fondendo le parti più tipiche, perviene alla bellezza tipo, raggiunta tramite una media più o meno aritmetica. La scelta in natura del meglio e del tipico, la ricerca della proporzione perfetta, del tipo universale di figura umana, consentirebbe all’artista la facoltà di creare un’opera più bella di qualunque altra esistente nella natura stessa.

Leonardo Da Vinci dà invece scarso rilievo al processo di selezione dalla natura di ciò che è più bello, proprio dell’Alberti, ravvisando il concetto di bellezza nelle forme naturali: il naturale è bello. Anche se ha pure lui sulle spalle tutto l’operato degli antichi Greci e Romani, e in alcuni suoi scritti si rende conto di come non tutto in natura sia ugualmente bello, egli ritiene che tutto sia meritevole d’imitazione da parte del pittore: il caratteristico naturale non deve essere inteso come un difetto. Leonardo vuole che il pittore copi tutto quanto esiste in natura e non si ponga limiti tralasciando determinate classi di oggetti; in tanti suoi appunti parla della bellezza di tutte le opere della natura, senza formulare distinzioni tra i diversi gradi di bellezza. Quello che lo interessa non è il bello ma l’individualizzato e il caratteristico. A Leonardo non importa che le sue figure non risultino conformi a un canone assoluto d’armonia, purché egli riesca a crearle autentiche, vive e dotate di una propria individualità. Leonardo dissente quindi dall’Alberti per quanto concerne l’esclusiva ricerca in natura del bello, come del tipico e dell’universale.
Se l’Alberti aveva tentato di fissare un canone unico di proporzioni applicabile a tutte le figure umane, Leonardo è esattamente agli antipodi, poiché pone in rilievo l’infinita varietà dispiegata dalla natura nella figura umana.

Queste teorie leonardesche risultano perciò quanto mai utili e attuali. Ai giorni nostri, vediamo come di ricerca della proporzione armonica ve ne sia ben poca. Quasi tutto è portato all’eccesso: il martoriare per un fine puramente pseudoestetico il proprio corpo con debordanti protesi di silicone o con labbra enormi viene visto come il modo più rapido e meno faticoso per emergere dall’anonimato della quotidianità, dell’abitudine, della ripetizione di giorni di vita sempre uguali, scanditi da orari e da attività stabiliti da altri. Ma è un trabocchetto, una falsa via di fuga, anch’essa prestabilita a uso e consumo della gente comune priva di identità e di autocoscienza.

Nel corso della storia antica, moderna e contemporanea l’uomo e la donna sono intervenuti su se stessi, sul loro corpo, da capo a piedi, spesso deformandolo in modo permanente. Tali pratiche differenziano l’uomo dagli animali, in quanto solo l’uomo ha la possibilità di intervenire su se stesso consapevolmente. Il corpo umano nella sua natura estrinseca può essere modellato e modificato, pertanto gli esseri umani, fin dalle culture più antiche o primitive, hanno sempre cercato di abbellire il proprio corpo alterandolo per raggiungere ideali di bellezza, supportati da motivi psicologici, sessuali, sociali o religiosi. Questi tentativi, così come le loro motivazioni, appaiono a un osservatore avulso dal contesto che li ha determinati per lo più penosi e patetici. Si pensi, a mero titolo di esempio, all’allungamento del collo tramite la sovrapposizione di collane, al restringimento del giro vita per mezzo di corsetti talmente stretti da provocare svenimenti e deformazioni, alla circoncisione degli organi genitali o all’accorciamento dei piedi tramite la dolorosa fasciatura nelle donne cinesi.

Manipolazioni decorative della cute, spesso orribili e dolorose, hanno in origine lo scopo comune di identificazione all’interno della società, in ambito religioso, politico o magico. Queste pratiche di marchiatura con segni indelebili sono lo scarning, il branding, e il piercing. Lo scopo essenziale del piercing, delle scarnificazioni, come dei tatuaggi, delle pitture corporali e delle decorazioni temporanee, è quello di distinguere i ruoli che ogni membro assume all'interno della tribù. Spesso le scarificazioni o le cicatrici rituali sono eseguite al raggiungimento di tappe fondamentali di un soggetto all’interno di un contesto sociale. Lo scarning in uso nell’etnia nera, è un sistema di decorazione ricavata da incisioni e tagli reiterati nel tempo, per arrivare a rappresentazioni sempre più evidenti. Il branding, di provenienza nordica, impressiona la pelle umana con particolari attrezzi infuocati, creando immagini in risalto.
Il piercing, ossia perforazione della pelle, solitamente è praticato nei lobi delle orecchie, nelle narici, nel setto nasale, nelle labbra, nell'arco sopraccigliare, nei capezzoli o nei genitali. Va ricordato, con il piercing, il ringing, che si diversifica dal primo per l’introduzione di anelli nei fori. L’allargamento del piercing inserendo nel foro degli oggetti quali anelli in metallo, tubi, bastoncini, piattelli e pesi comporta un’alterazione del viso deformandolo permanentemente. La pratica del piercing (dall’inglese to pierce, forare) è iniziata in occidente negli anni ’70, nei luoghi punk e underground, tra gli omosessuali, tra i praticanti del sado-maso ed i feticisti, dunque in ambienti fuori dall’esistenza comune, ma proprio per la loro autodistruttività poi proposti dai dominanti come modelli per i dominati. Nelle fattispecie di coppie omosessuali o sadomaso, colui che mette il piercing è generalmente il dominato, lo schiavo, e i simboli di tale assoggettamento sono dati dagli anelli ai genitali o ai capezzoli.

Attualmente il piercing è una moda, pubblicizzata e imposta dai mass media di regime, che coinvolge principalmente la parte più manipolabile della
popolazione: i giovani. Esiste anche un piercing più heavy, quindi meno praticato, come il dental piercing, con applicazione di capsule d’oro e brillantini, il taglio della lingua per renderla biforcuta, o il cutting nel quale il corpo viene tagliuzzato.

Diverse sono le motivazioni, ovviamente indotte, della scelta del piercing.
Si crede di praticarlo principalmente perché attira l’attenzione degli altri, per molti, unico mezzo per farsi notare, per illudersi di attuare una facile e innocua ribellione, per trasgredire, in realtà obbedendo a mode eteroimposte. Non potendo magari vantare una bellezza propria, si cerca di essere almeno di moda, di diversificarsi dagli altri, quando invece la moda non differenzia ma eguaglia e massifica. La volontà di perpetuare l’evento autolesivo, iniziato come scelta di un momento della propria vita, può avere come motivo più recondito il bisogno di regolare se stessi e quindi la propria esistenza, così sperando di poter allontanare la morte e il dolore.
La funzione iniziale di differenziazione sociale e sessuale del piercing e del ringing, ha perciò oggi mutato il suo significato culturale originario, per divenire una forma di eterocondizionamento psichico e comportamentale; condizionamento di cui le vittime, per insipienza identitaria, non sono consapevoli, trovandosi abilmente coartate ad essere carnefici di se stesse, in un’ottica di labelling dell’”inferiore”, del sans-pouvoir, e di induzione all’autoeliminazione del possibile competitor.

Il corpo umano, per la sua naturale configurazione, ha sempre avuto una funzione comunicativa di notevole importanza all’interno della società.
Pertanto nella storia dell’uomo, come interventi permanenti, vanno ricordati anche i tatuaggi.

Nelle comunità in cui la decorazione corporea persiste con rilevanti significati, il tatuaggio è apprezzato per il suo valore estetico, una maniera per abbellire il corpo, ma anche usato come un vero e proprio mezzo di comunicazione, portatore di messaggi, dando la possibilità di esprimere e manifestare immediatamente dei valori: il corpo umano si trasforma in libro.


Le motivazioni del tatuaggio sono anch’esse molteplici: estetiche, culturali, sociali, religiose, politiche. Presso i differenti popoli, troviamo diverse finalità dell’uso del tatuaggio, dalla difesa contro i demoni alle cerimonie di passaggio, come marchio punitivo di schiavi o malviventi, come terapia medica, beatificazione, esibizione di stato economico o sociale, come accrescitore di bellezza e richiamo sessuale, e addirittura come assicurazione per accedere all’aldilà dopo la cessazione della vita. Nel corso del tempo il tatuaggio ha quindi cambiato più volte valore. Mentre nelle popolazioni tribali i tatuaggi sono identificatori di se stessi, nelle colonie penali dell’Ottocento il tatuaggio è espressione della perdizione morale, psichica e fisica, è quindi distintivo di vita. Se i tatuaggi nelle tribù servono per evidenziare le caratteristiche dell’individuo, un uso del tatuaggio quale identificatore numerico di esseri umani è praticato dal nazismo: l’uomo deportato tatuato non esiste più come persona ma come oggetto di cui disporre a proprio piacimento.

Il tatuaggio polinesiano ha stravolto la nostra concezione occidentale:
mentre il tatuaggio primitivo faceva parte di riti iniziatici o religiosi, il tatuaggio occidentale dell’epoca coloniale e postcoloniale ha carattere principalmente estetico. Le immagini tatuate vanno dai rifacimenti pressoché identici dei temi classici a rappresentazioni appartenenti al repertorio marinaresco, a soggetti più strettamente personali o esoterici. Oggi il tatuaggio ha valore di separazione dalla quotidianità, di tentativo di evasione da esistenze vere, per scimmiottarne altre fasulle. Anche se è in atto un tentativo di elevare il tatuaggio a un livello culturale e artistico, il tatuaggio stesso, come le pratiche di foratura corporea, ha perso il suo valore originario, e si presenta come miserevole tentativo di fuga da un fantomatico perbenismo assunto come vigente e in realtà inesistente. Questa ulteriore moda di trasgressione non è altro che una rinuncia a se stessi per lasciarsi violentare dalle nuove forme di
controllo: chi “trasgredisce” obbedisce al vero padrone.

Tutte le pratiche finora citate di alterazione e violenza ai danni del proprio corpo sono esempi di mode e tendenze, e in quanto tali non sono mai perenni, stabili, soprattutto nella nostra epoca, in cui tutte le inclinazioni nascono, vivono e muoiono in breve tempo, in un continuo plasmare esistenze pianificate e controllate. Una volta modificato definitivamente il corpo ecco che già nasce una nuova tendenza esattamente contraria alla precedente. L’assurdità sta nell’intervenire sul proprio corpo provocando un suo cambiamento definitivo, senza pensare al poi, a quanto durerà la tendenza del momento, oltre che a quanti soldi si spendono inutilmente. La moda che detta regole su vestiti e accessori, sull’acconciare il proprio corpo, sul modo di parlare, perfino sulle tipologie di proprietà mobiliari e immobiliari, è solo un mezzo per svuotare le tasche alla gente comune asservendola. E’ fin troppo facile far leva sulla limitatezza e sulla scarsa identità culturale e familiare di chi ha bisogno di far parte del gregge, di essere uguale e quindi non inferiore agli altri, su chi vive dell’esteriorità, dell’ambizione di manifestare un qualche se stesso perché non ha un se stesso. Da sempre l’autolesionismo del servo gratifica e rassicura il padrone.

L’uomo odierno si crede libero ma in realtà vive in una ferrea prigione di regole imposte, anche se magari non se ne rende conto, confuso com’è dai mezzi di distrazione di massa. Oggi più che mai la bellezza deve quindi rientrare in un ambito di verità. Bellezza di essere se stessi, mostrarsi per quello che si è o si ha, contro qualsiasi etichettatura la società voglia imporre alla nostra unicità. L’uomo è, ed è sempre stato il risultato della società in cui vive, esattamente come l’opera d’arte è ed è sempre stata espressione della società in cui viene realizzata. E’ forse libera l’espressione artistica, di oggi come di ieri? Basti pensare solo ad alcune forme d’arte, prodotti e strumenti del potere imperante, negli antichi Romani, nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, nella corte di Francia di Luigi XIV, per farci riflettere su come l’arte non sia sempre libera espressione individuale, ma vera e propria forma di controllo. Pertanto l’uomo che non riveste il ruolo di dominante è il risultato, nelle sue valutazioni estetiche, nei suoi bisogni indotti, in ciò che indossa o possiede, di dettami imposti dai soggetti e dalle famiglie dominanti. Chi gestisce la nostra società, attraverso vari sistemi palesi od occulti, riesce a dirigere la gente entro binari uguali per tutti. E’ la regola imposta del “tutti”: vestire tutti alla stessa maniera, possedere cose tutte alla stesa maniera, avere tutti un corpo alla stessa maniera, tutti uguali, tutti insieme, tutti a scuola, tutti al lavoro, tutti al mare, tutti in discoteca. Essere “popolo”, un popolo composto da tutti coloro che non hanno identità e potere: il popolo della notte, il popolo dei vacanzieri, il popolo della movida, il popolo dei fatti e “rifatti”... Ma, per chi ha coraggio, una prigione è costruita per evadere da essa.
Avere un corpo “bello”, privato di ogni imperfezione caratterizzante, costruito dalla chirurgia plastica, è sempre una rinuncia a se stessi, un piegarsi ai diktat altrui, il risultato di una bellezza artificiale e imposta, mai paragonabile a quella meravigliosamente naturale.