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Breve storia dell’ontologia

di Michele Paolini Paoletti - 05/09/2011

Fonte: recensionifilosofiche



Gabriele Galluzzo, in questa agile e articolata introduzione alla storia dell’ontologia, delinea i tratti fondamentali di quattro questioni ontologiche: che cos’è l’esistenza? Che cosa sono gli universali? Come dobbiamo intendere gli oggetti concreti, nella loro unità ed individualità? E come bisogna concepire l’essenza delle cose?
Galluzzo esamina in modo sintetico e accurato sia l’approfondimento di tali questioni (e delle problematiche a esse connesse), sia le soluzioni offerte nel corso della storia del pensiero. Occorre tuttavia chiarire che, nonostante il libro sia una “storia dell’ontologia”, l’autore rifiuta espressamente, nella propria ricerca, qualsiasi impostazione storicistica, volta a intendere le tesi filosofiche come “fatti” di cui bisogna studiare “le cause, gli effetti, le connessioni e il contesto storico in cui si sono originati” (p. 13). Al contrario, Galluzzo ritiene che “la storia della filosofia è prima di tutto una storia di problemi filosofici” (ibidem). La scelta di questo approccio è ampiamente condivisibile, almeno a mio parere, giacché esso ha il merito di poter instaurare un confronto fecondo tra le tesi filosofiche di epoche storiche differenti, di poter allargare continuamente l’orizzonte dei problemi e, soprattutto, di poter arricchire la riflessione con nuovi risultati e nuove obiezioni. In una battuta soltanto: se non si condivide la riduzione della filosofia alla storia della filosofia, si deve guardare al passato primariamente nel tentativo di trovare sollecitazioni e risposte a interrogativi filosofici (in questa sede, ontologici) che rimangono sempre “attuali”.
Galluzzo, poi, connette la trattazione delle soluzioni del passato (esposte perlopiù in ordine tematico-argomentativo, e non già secondo la successione storica) all’analisi delle principali posizioni dell’ontologia contemporanea, soprattutto di matrice analitica. In questo modo, egli compie, per sua esplicita ammissione, un percorso “a ritroso”: a partire dalle soluzioni offerte nel dibattito contemporaneo sono chiariti successivamente i punti principali delle varie questioni e sono illustrare le soluzioni “classiche”. L’ontologia analitica è riconosciuta, pertanto, come autentica erede dell’ontologia antica e medievale e riceve, al contempo, un nobile e rilevante spessore storico. Aggiungo un’ultima nota introduttiva a questo lavoro: non si assume una distinzione netta tra ontologia e metafisica, poiché l’ontologia, dovendosi occupare di “ciò che vi è”, non può evitare di interrogarsi anche sulla “natura di ciò che vi è” (un compito che spetterebbe alla metafisica, almeno secondo la distinzione comunemente accettata). Del resto, è chiaro che, se l’ontologia deve occuparsi di problemi, ogni distinzione di ambito filosofico dovrà essere successiva all’esame dei problemi stessi.
Nella prima parte del volume, l’autore si occupa della nozione di esistenza o, meglio, del significato dell’esistere per gli enti. L’esistenza, dunque, può essere considerata o meno come una proprietà degli enti, così come si può accettare o meno una distinzione tra l’esserci di un ente e la sua esistenza. Allo stesso modo, si possono definire o meno vari significati del termine “esistere”, a seconda che si ritenga l’esistenza come predicabile univocamente, analogamente o equivocamente degli enti. Nel dibattito novecentesco, la fondamentale opposizione tra le tesi meinonghiane e neomeinonghiane, da un lato, e quelle russelliane, dall’altro, ha ridato particolare importanza alla trattazione di questa fondamentale questione ontologica. Il dibattito antico si muove tra Platone, Aristotele e lo stoicismo (scarsamente citato nelle esposizioni di questa tematica), ma è soprattutto Avicenna a proporre espressamente una nozione autonoma di esistenza. Alla trattazione del filosofo arabo seguono le complesse discussioni medievali sulla distinzione tra esistenza ed essenza, sino a toccare la posizione kantiana, che nega la capacità, da parte dell’esistenza, di aggiungere alcunché al concetto di una cosa. Desidero rilevare soltanto un’imprecisione nell’esposizione della dottrina di Tommaso d’Aquino: la distinzione tomistica tra esse ed essentia non può essere tradotta nei termini della distinzione tra existentia ed essentia. Tommaso utilizza pochissime volte il termine existentia e non lo usa come sinonimo di actus essendi. La distinzione in oggetto, appunto, è quella tra actus essendi ed essentia. La nozione tomista di actus essendi, dunque, esprime qualcosa di diverso sia dall’existentia di Avicenna, sia, soprattutto, dall’existentia della Seconda Scolastica: nell’ottica di Tommaso, un ente “esiste” nella propria totalità, mentre l’actus essendi (almeno nel caso degli enti creati) è un costituente metafisico dell’ente stesso. L’esistenza, allora, è predicata di “tutto” l’ente, mentre l’actus essendi è quell’atto “ultimo” dell’ente che consente, appunto, la sua esistenza: l’esistenza è esse in actu, l’actus essendi è esse ut actus. Tutto l’ente creato è in atto, ma solo un suo costituente è atto d’essere. È pur vero che una lunga tradizione interpretativa, da Bañez sino a Gilson, ha confuso existentia e actus essendi. Resta il fatto, tuttavia, che si tratta di due nozioni distinte.
La seconda parte del libro è dedicata alla questione degli universali o, meglio, allo statuto ontologico degli universali. L’ammissione degli universali nella propria ontologia, come chiarisce l’autore, permette di spiegare la comunanza di proprietà tra più cose, la predicazione e il riferimento dei termini astratti, il nesso tra tipi di cose. Anche in questo caso, la distinzione generale tra posizioni realiste e nominaliste è approfondita a partire dal dibattito contemporaneo, per volgersi poi alle teorie platoniche, aristoteliche e stoiche e alle soluzioni medievali. Galluzzo enumera una serie di ragioni favorevoli e contrarie a realismo e nominalismo, con una buona capacità di sintesi. Il paragrafo riservato alla filosofia moderna si concentra su Locke e Berkeley.
Nella terza parte dell’opera, l’autore considera l’unità e l’individualità degli oggetti concreti. L’espressione “oggetti concreti” pertiene maggiormente al dibattito contemporaneo che al dibattito antico e medievale: essa sembra avere senso soltanto nell’opposizione con gli “oggetti astratti” (proprietà, relazioni, numeri, etc.). Per isolare l’argomento, tuttavia, non paiono sussistere soluzioni migliori, dal momento che si sta trattando dell’unità e dell’individualità di oggetti individuali realmente esistenti. Con una terminologia aristotelica, potremmo affermare che questa parte è dedicata all’unità e all’individualità delle “sostanze prime”. Ad ogni modo, paiono confrontarsi soprattutto tre teorie rivali sullo statuto dei cosiddetti “oggetti concreti”: la teoria sostanzialista (che considera la sostanza come unità primaria e indivisibile rispetto alle sue proprietà), la bundle theory nelle sue molteplici varianti (che considera le sostanze prime come fasci di proprietà, universali o particolarizzate – i “tropi”), la teoria del bare particular (che riconosce in ogni oggetto concreto la presenza di un substratum che sostiene e “porta” tutte le proprietà). In seguito, con il consueto excursus storico, sono prese in esame le soluzioni tradizionali.
L’ultima parte del lavoro, infine, è dedicata alla nozione di essenza. La distinzione tra proprietà essenziali e proprietà accidentali di un ente è ricondotta direttamente alla trattazione aristotelica dell’essenza. Per lo Stagirita, l’essenza non è definita come l’insieme di proprietà che pertengono necessariamente ad un ente, ma come ciò che spiega le proprietà di un ente. In questo senso, è particolarmente rilevante la differenza tra proprietà essenziali e propria: le proprietà essenziali, che costituiscono necessariamente l’essenza di un ente e che spiegano le altre proprietà, sono diverse dai propria, che pertengono sì necessariamente a un ente, ma non ne costituiscono l’essenza, né valgono a definire quest’ultima. “Essere un animale razionale”, così, è proprietà essenziale dell’essere umano, mentre “ridere” è soltanto un proprium. Passando per Locke e Leibniz, Galluzzo giunge infine ad uno stimolante confronto tra l’essenzialismo aristotelico e quello di Saul Kripke.
La chiarezza di questo volume contribuisce a consigliarlo come una sorta di “invito” agli studi ontologici, senza esimere il lettore, naturalmente, dal compiere ulteriori e più approfonditi studi o dal riflettere personalmente sulla validità delle soluzioni filosofiche proposte. Non ci sono problemi filosofici che “tramontano”, né ci sono questioni filosofiche prive del richiamo a prendere personalmente posizione, con umiltà e, certamente, con le adeguate motivazioni.