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Davvero l’imperatore Onorio fu quell’apatica nullità che la tradizione descrive?

di Francesco Lamendola - 28/09/2011




Edward Gibbon, il massimo storico inglese del Settecento, pubblicò la sua opera monumentale, «History of the Decline and Fall of the Roman Empire», a Londra, in sei volumi, fra il 1776 e il 1789: l’anno che segna la fine dell’Ancién Regime in Europa.
In verità, la sua lunga fatica si segnala più per i meriti letterari, come perfetto esempio di stile ironico, brillante, decisamente rococò, con ampie e opulente volute della frase e scintillanti aggettivi ed avverbi, che non per i meriti storiografici effettivi: esso, infatti, è letteralmente un concentrato di antipatia e pregiudizio verso la materia studiata e verso uomini e situazioni della tarda antichità, ai quali, evidentemente, imputa la “colpa” di essere poco o nulla in linea con la filosofia del secolo dei Lumi; per non parlare della diffusione del cristianesimo e dell’empia alleanza fra trono e altare che, al razionalista Gibbon, che si rivolge ad un pubblico scettico e massonico o almeno protestante e fortemente anticattolico, appare poco meno che un delitto di lesa maestà.
La storia, invero, dovrebbe essere continuamente rivista e corretta: nessuna acquisizione può dirsi realmente definitiva; e questo vale per la storia del tardo Impero Romano così come per ogni altra epoca e vicenda umana: con buona pace di quanti vanno in bestia al solo sentir nominare il vocabolo, la storia è una scienza revisionista per eccellenza, che continuamente rimette in discussione le proprie acquisizioni per sottoporle a nuove verifiche, correzioni, aggiustamenti, con l’unica preoccupazione della verità e senza inchinarsi davanti a nessuna ideologia, a nessun pregiudizio, a nessuna esigenza contingente, a cominciare da quelle di tipo politico.
Gibbon, del resto, fondava la sua interpretazione su una serie di storici romani e bizantini che nulla hanno scritto di serio e obiettivo, ma che erano piuttosto dei moralisti, dei cronachisti di corto respiro, dei partigiani interessati a denigrare questo o quel personaggio; quando non erano, addirittura, dei poeti e dei letterari al servizio del potente di turno, come è il caso di Claudiano nei confronti di Stilicone o di Merobaude nei confronti d Ezio.
Basti dire che la grottesca leggenda secondo la quale l’imperatore Onorio, che fu il primo imperatore di Occidente fra il 395 e il 423, allevava le sue galline predilette mentre Alarico stava assediando Roma e che, quando un messo gli annunciò la caduta della capitale, egli, equivocando, avrebbe esclamato: «Come è possibile, Roma stava beccando dalle mie mani solo pochi minuti fa!», risale a Procopio di Cesarea, l’unico fra gli storici della tarda antichità che possiede alcune qualità da vero storico; figuriamoci gli altri.
Eppure la leggenda della gallina Roma era troppo gustosa per rinunciarvi e quasi tutti gli storici e i divulgatori di storia delle epoche successive hanno fatto a gara nel tramandarla volonterosamente, fino ai recenti Indro Montanelli ed Hermann Schreiber, quasi che, per salvare l’impero agonizzante, il giovane e inetto sovrano altro non sapesse fare che dedicarsi alla pollicoltura.
Oltretutto, questo genere di aneddoti piacciono particolarmente agli scrittori di poco valore, perché li fanno sentire seri e intelligenti, per contrasto con la ridicola pochezza dei personaggi da essi rappresentati; e poco importa se, ad un lettore davvero intelligente, le cose appaiono in tutt’altro modo, perché svelano in maniera impietosa e perfino imbarazzante l’assoluta mancanza di vaglio critico da parte di quei signori nei confronti delle fonti e dei documenti di cui si servono, peraltro quasi sempre di seconda o terza mano.
Il giudizio storico su Onorio è rimasto, sostanzialmente, quello che ne aveva dato Edward Gibbon nella sua opera divenuta classica «Decadenza e caduta dell’Impero Romano», pesantemente imbevuta di pregiudizi illuministici; tanto che, a conclusione di essa, l’Autore affermava candidamente: «Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione», una tesi storiografica oggi ritenuta assolutamente insostenibile.
È quasi incredibile come lo stereotipo gibboniano sia stato ripreso e trasmesso, pari pari, dagli storici successivi, una generazione dopo l’altra, così da arrivare pressoché identico ai nostri giorni e da insediarsi trionfalmente nei libri di testo scolastici, ove i nostri giovani apprendono la storia della fine del mondo secondo le categorie concettuali di un illuminista inglese del XVIII secolo che detestava il cattolicesimo e che, nella storia della tarda antichità e del Medioevo, altro non seppe vedere che un secolare obnubilamento della ragione.
Ecco, per esempio, come viene liquidata sbrigativamente la figura di Onorio, citando Gibbon come fosse il Vangelo, da Gianfranco Mosconi, Fabrizio Polacco e Francesco Dematté nel manuale di storia ad uso dei licei «L’onda del passato» (Torino, Il Capitello, 2010, vol. 2, p. 258), opera peraltro didatticamente non priva di meriti:

«ONORIO, L’INDIFFERENTE. Il ritratto di Onorio tratteggiato da Edward Gibbon (il grande storico inglese che, nella seconda metà del ‘700, per primo pose al centro della sua attenzione il problema della fine dell’Impero Romano) sottolinea con sarcasmo la sostanziale incomprensione ed estraneità di questi augusti personaggi rispetto agli sconvolgimenti  che subiva il mondo intorno a loro. “I soi sudditi, che studiavano attentamente il carattere del loro giovane sovrano, conobbero che Onorio era senza passioni, e conseguentemente senza qualità, e che la sua debole e languida natura era ugualmente incapace di adempiere i doveri del suo grado e di godere i piaceri della sua età. Nella sua prima gioventù fece qualche profitto negli esercizi del cavalcare e  tirare con l’arco; ma ben presto abbandonò queste attività faticose e l’allevamento del pollame divenne la grave e quotidiana occupazione del monarca dell’Occidente», il quale rimise le redini dell’impero nelle salde mani del suo tutore Stilicone. […] I predecessori di Onorio erano soliti animare con il oro esempio, o almeno con la loro presenza, il valore delle legioni. […] Ma il figlio di Teodosio passò il sonno della sua vita come prigioniero nel suo palazzo, straniero nel suo Paese, e paziente e quasi indifferente spettatore della rovina dell’Impero d’Occidente.” (E. Gibbon, “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano”, capitolo 29, traduzione di G. Frizzi, Einaudi, Torino, 1967).»

Ora, è certo che di Onorio, come imperatore, si può dire tutto il male che si vuole, ma è fin troppo evidente che accusarlo di aver pensato a nutrire i suoi polli invece di studiare qualche soluzione del problema rappresentato dalle invasioni barbariche e, in particolare, da quella dei Visigoti, rivela una assoluta mancanza di serietà storiografica.
Il giudizio storico su un determinato personaggio non può prescindere da una valutazione serena e complessiva del contesto in cui egli si trovò ad operare: i personaggi storici si distinguono dalle marionette appunto perché non si muovono nel vuoto, ma devono tener conto delle circostanze concrete - politiche, sociali, economiche e culturali.
Ciò che domandava Alarico, re dei Visigoti, in cambio dell’interruzione dell’assedio di Roma, fra il 408 e il 410 d. C., era il riconoscimento della “hospitalitas” per il suo popolo, vale a dire la cessione di un terzo delle terre, entro e non fuori dai confini dell’Italia; e l’attribuzione a lui stesso del titolo di “magister militum”, cioè del supremo comando militare nell’Impero di Occidente. Accedere a tali richieste avrebbe significato fare dell’Italia una terra di conquista dei barbari e, dell’Impero, un vuoto simulacro nelle mani del re goto.
Si potrà rimproverare ad Onorio di essersi privato del valido aiuto di Stilicone, suo generalissimo e tutore, che già aveva sconfitto Alarico a Pollenzo nel 402 e a Verona nel 403, lasciandolo però ogni volta ritirarsi dall’Italia senza assestargli il colpo definitivo. Stilicone aveva agito così perché sperava, in un secondo tempo, di fare di Alarico un elemento di sostegno al vacillante Impero di Occidente, secondo le linee della politica filobarbarica già seguita, in parte, da Teodosio il Grande, il padre di Onorio e Arcadio, divenuti rispettivamente sovrani, dal 395, dell’Occidente e dell’Oriente; ma la nobiltà senatoria aveva accusato di tradimento il generale vandalo e ne aveva ottenuto la condanna a morte e la decapitazione, nell’agosto del 408.
Ormai è storicamente accertato che Onorio non ebbe parte alcuna nella rivolta militare scoppiata a Ticinum (Pavia), nella quale vennero massacrati i consiglieri di Stilicone e i soldati germanici dell’esercito romano insieme alle loro famiglie e durante la quale, anzi, corse egli stesso pericolo di vita; quanto alla condanna di Stilicone e alla sua esecuzione, avvenuta poco dopo in Ravenna, più che una decisione autonoma di Onorio, fu quasi certamente una conseguenza inevitabile dei fatti di Pavia e, in particolare, il momento conclusivo di una manovra ideata dal prefetto Olimpio, capo della fazione antibarbarica presso la corte occidentale.
Bisogna ricordare che Alarico aveva atteso invano l’autorizzazione a marciare contro l’Impero d’Oriente, secondo quanto stabilito con Stilicone, per strappare ad Arcadio la prefettura dell’Illirico; e che la sua irruzione in Italia, avvenuta nel 402-403, era stata una protesta contro la politica contraddittoria della corte ravennate, dovuta a un ripensamento di Onorio e alla decisione di quest’ultimo di abbandonare la politica filobarbarica di suo padre, per stringere invece vincoli di stretta alleanza con la corte costantinopolitana.
Sia come sia, una volta imboccata questa strada, non restava che attenervisi con coerenza e fu ciò che Onorio fece, rifiutando sempre di venire a patti con Alarico finché questi rimase in Italia, in posizione di ricatto politico-militare; ma accettando di riprendere le trattative, allorché i Visigoti passarono poi in Gallia e in Spagna, essendo frattanto morto Alarico ed essendosi sposato il loro nuovo re, Ataulfo, con la sorellastra dello stesso imperatore, Galla Placidia.
Il fatto che questa linea di condotta condusse alla caduta di Roma nelle mani dei Visigoti, la notte del 23 agosto 410, con immensa commozione dei contemporanei e con gran clamore degli storici moderni, che vi hanno visto - a torto - un evento epocale, non dovrebbe farci dimenticare che Onorio non aveva altra scelta e che i suoi margini di manovra erano ridottissimi, stante la cronica debolezza dell’esercito romano e la penuria di risorse materiali e finanziarie in cui versava l’apparato statale.
Olimpio, frattanto, era bensì caduto in disgrazia e il suo posto era stato preso da Giovio, che avrebbe voluto riprendere le trattative con Alarico; ma è quasi certo che, in quella situazione, accettare il ricatto del re goto sarebbe equivalso ad un suicidio politico e avrebbe condotto a una situazione simile a quella in cui verrà a trovarsi Romolo Augusto nei confronti di Odoacre, nel 476: vale a dire che avrebbe anticipato il crollo dell’Impero d’Occidente di almeno mezzo secolo; mezzo secolo che fu invece prezioso per contribuire a rendere memo traumatico il passaggio dalla struttura statale romana a quella dei nuovi regni romano-barbarici e per favorire l’assimilazione culturale di questi ultimi, tanto da farne i nuovi difensori della cristianità e dell’Occidente contro nuove ondate barbariche ancora più devastanti, come quella degli Unni di Attila, nel 451-52.
Tutto questo andrebbe tenuto presente allorché ci si accinge ad esprimere una valutazione complessiva sulla politica tenuta da Onorio nel drammatico frangente dell’invasione alariciana dell’Italia, lasciando perdere le galline e altre considerazioni ironiche ancora meno serie, come quella relativa alla sua impotenza sessuale (si sa che le sue due giovanissime mogli, che poi erano le figlie di Stilicone, morirono entrambe vergini).
A parte il fatto che l’ironia di Gibbon su questo argomento, ripresa dai soliti scrittori moderni, è, a  sua volta, involontariamente ironica, perché è ben nota l’impotenza dello stesso Gibbon e forse proprio ad essa si deve quella capacità di porsi davanti alla storia con una straordinaria erudizione, ma con assoluta mancanza di passioni - anche i suoi pregiudizi illuministi sono freddi come il ghiaccio e come raggelanti -, sarebbe il caso di domandarsi cosa tutto questo abbia a che fare con la storia e con la comprensione dei problemi storici.
Qualcuno, ad esempio S. I. Oost nella sua monografia su Galla Placidia, si è spinto fino a ipotizzare che lo scandalo di corte che portò alla cacciata di quest’ultima, rimasta vedova, da Ravenna, fosse dovuto al fatto che un uomo impotente, come Onorio, prova forse qualche gratificazione nel carezzare in maniera intima la propria sorella; può darsi: ma a chi interessa?
Per favore, cerchiamo di essere seri e non riduciamo il mestiere di storico a quello d’un povero guardone che spia il passato dal buco della serratura.
E smettiamola, se possibile, con questa intollerabile sudditanza nei confronti della storiografia anglosassone, protestante e massonica, che vorrebbe dipingere il cattolicesimo, sempre e comunque, come un fattore regressivo nella storia d’Europa; sorvolando bellamente sui crimini e sulle atrocità commesse dagli Anglosassoni ai quattro angoli del globo terracqueo, prima sotto i fasti dell’Impero britannico, poi di quello statunitense, magari sventolando trionfalmente le bandiere della tolleranza, del liberalismo e della democrazia.