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Lobby, virus mortale della democrazia

di Massimo Fini - 23/06/2006

Calciopoli, l’inchiesta di Potenza, i problemi in An: non è giustizialismo ma il sintomo di un sistema al collasso
carlo passera
Massimo Fini, quella dei Savoia è la più antica dinastia d’Europa, mille anni di storia. Li porta parecchio male, non trovi?
«Tu ti riferisci all’inchiesta della procura di Potenza e devo dire che, a leggere le carte, Vittorio Emanuele è il personaggio più noto, ma anche il più marginale».
Eppure i pm sottolineano il suo ruolo...
«Sì, ma voglio dire che era già stato ampiamente squalificato dal suo passato. Come è noto fu autore di una stupidissima “bravata” all’isola di Cavallo, quando sparò un colpo di fucile che andò a colpire un 19enne tedesco, Dirk Hammer, che morì dopo mesi di lunga e atroce agonia. Undici anni di processi in Francia non bastarono per condannare il Savoia, anche perché in quel Paese la legge non è uguale per tutti; ma la sua reputazione ne è risultata irrimediabilmente rovinata. Il discorso Savoia è chiuso da molto tempo, già dopo le compromissioni del re col fascismo e poi con questa discendenza assolutamente sciagurata, compresa la sorella Maria Beatrice. Insomma, non mi sembra che questa vicenda possa essere una sorpresa o possa influire più di tanto; incide invece il fatto che tutta la questione sembra pantografare il mio libro Sudditi».
Vale a dire?
«Ora hanno preso questi esponenti di Alleanza Nazionale, ma il dato è generale: i partiti sono delle mafie, delle oligarchie di potere. Non mi interessa tanto la faccenda della Rai, quanto un fatto: se tu vuoi avere un posto di lavoro alla forestale, piuttosto che all’Enel o alle Poste, i clientes sono favoriti, gli adepti ti passano davanti. Il problema è essenzialmente quello: un cittadino normale, per ottenere quell’occupazione, deve quadruplicare gli sforzi rispetto a soggetti dotati di raccomandazione. Il che ha anche un’ulteriore conseguenza: attraverso tale sistema clientelare si estorce il consenso politico, da qui nasce la truffa della democrazia».
Parleremo poi anche dei problemi etici e giuridici che vengono posti dalle intercettazioni telefoniche. Di certo queste stanno in effetti delinenado il quadro come tu lo descrivi. Ma pensi che sia una situazione specifica, o è l’intero sistema a rispondere a queste logiche?
«È certamente l’intero sistema partitocratico che porta a questo. I partiti non sono l’essenza, ma la fine della democrazia. I grandi teorici della liberaldemocrazia, da Stuard Mill a Locke, non fanno mai menzione dei partiti e fino al 1925 - nota Max Weber - non c’era alcuna Costituzione che parlasse di essi. È la nostra Carta fondamentale, che pur scaturiva da un Cln diviso in fazioni, li cita in un solo articolo, là dove si spiega come i cittadini possono riunirsi appunto in partiti per concorrere a formare la volontà nazionale. Da questo, però, hanno dilagato su tutti gli altri 138 articoli. La situazione è strutturale: ora sono sotto schiaffo alcuni uomini di An, ma il clientelismo è un abuso diffuso, nei confronti del quale il comune cittadino non ha alcuna difesa perché il sistema agisce su un terreno che non è legale ma neanche apertamente illegale. Ecco: questi meccanismi riguardano tutte le oligarchie politiche».
Parlavi prima dei partiti come “invenzioni recenti”. Derivano certo dalle grandi ideologie del Novecento...
«Dalle ideologie ma anche dal sistema stesso della democrazia rappresentativa, che favorisce la creazione di minoranze organizzate che, come dice Gaetano Mosca agli inizi del Novecento, impongono i propri interessi a tutti, perché cento che agiscono di concerto prevarranno sempre su mille che si muovono liberamente e che dunque non avranno voce in capitolo».
Si chiama lobbysmo.
«Sono minoranze organizzate che diventano in sostanza delle mafie, lo si vede anche dal loro linguaggio che non è diverso da quello di Luciano Moggi & company: questo romanesco sbracato, allusivo e mafioso, dove la cosa pubblica è trattata come “cosa nostra”, come un affare che riguarda gli amici degli amici degli amici. Ecco, occorre che questo si sappia, perché è la realtà. Viviamo in un sistema feudale, ma con aristocrazie che non hanno nemmeno più gli obblighi di quell’epoca. Io credo che alla lunga, in generale e non solo in Italia, un sistema di questo genere crollerà, perché non rispetta i propri presupposti».
Tu dici che è l’intero sistema democratico a non funzionare ma poi sottolinei il “romanesco”. Ecco, c’è dunque uno “specifico italiano” in questo degrado?
«Sì, c’è certamente uno specifico italiano. Partiamo da una premessa: le democrazie sono statisticamente i regimi più corrotti. Non che gli altri non lo siano, ma la democrazia lo è per necessità, perché la competizione politica tra queste oligarchie porta a dover versare denaro pubblico per ingrandirsi e ad allevare clientes per avere consenso».
Tale caratteristica della democrazia - la corruzione strutturale - è stata anche teorizzata...
«Certo, e poi è un dato statistico, storico. Detto questo, la democrazia italiana oggi è particolarmente corrotta anche perché da noi manca quello spirito protestante che è all’origine del capitalismo e mantiene una propria etica. Per questo in Svizzera, Olanda e Scandinavia, tanto per fare alcuni esempi, vi è ancora un po’ di freno rispetto a questi comportamenti, anche se la struttura del sistema sostanzialmente è la stessa. Quando emergono faccende gravi, la classe dirigente di quei Paesi non si precipita a colpevolizzare i magistrati, ma liquida le mele marce».
S’è detto: la partitocrazia è una malattia strutturale della democrazia...
«Demolisce la democrazia».
Ma nemmeno le democrazie prive di partiti si salvano, penso agli Stati Uniti. Ai partiti, lobby politiche, si sostituiscono le lobby economiche, i potentati, e l’esito mi sembra del tutto simile.
«Certo, questo è il vulnus originale: nel momento in cui esiste la lobby, non tutti sono sulla stessa linea di partenza. Ma questo smentisce la natura stessa della liberaldemocrazia, che rinuncia scientemente all’uguaglianza sociale promessa dal sistema socialista ma dovrebbe garantire almeno pari condizioni di base, poi chi è più bravo va avanti. Dovrebbero essere le regole del gioco. Ma ecco che la lobby, o il partito, viola tale principio. Ecco perché questi non sono sistemi democratici, ma feudali mascherati, molto peggiori di quelli feudali “originali”. Non usano infatti la violenza e la minaccia, come Don Rodrigo (che in fondo la partita finisce per perderla), ma come spiegavo agiscono più subdolamente, in modo da togliere ogni possibilità concreta di difendersi, da impedire insomma una risposta giuridica che è poi l’unica possibile in un sistema moderno. Che fare se in un concorso vieni scavalcato da un raccomandato? Nulla, non c’è niente da fare, perché è improbo trovare le prove del raggiro? Chi mai verifica?».
Nel caso italiano, il contropotere che dovrebbe intervenire - coi limiti che abbiamo detto - è a sua volta non del tutto esente da critiche. Mi riferisco, l’avrai capito, alla magistratura. Non appare improprio, ad esempio, questo uso smodato delle intercettazioni telefoniche?
«Il codice di Alfredo Rocco, che era un fascista ma anche un giurista di primissimo ordine, è rimasto in vigore fino al 1988 e prevedeva il segreto istruttorio. Questo con due motivazioni: tutelare le indagini ma anche l’onorabilità di chi vi sia coinvolto, perché nella fase istruttoria possono essere chiamate in causa persone specchiate, che in seguito non verranno nemmeno sottoposte a giudizio. Dunque, si prevedeva l’istruttoria segreta e poi ovviamente il dibattimento pubblico, perché quest’ultimo è a sua volta segreto solo nei regimi totalitari. Il successivo codice adottato nel 1988 e pensato da Pisapia - mi spiace dirlo perché è stato il mio maestro - è stato disastroso perché ha praticamente abolito il segreto istruttorio. Gli atti che noi leggiamo sulla stampa sono in realtà depositati per legge, dunque ormai pubblici...».
...non sempre è così. Spesso finiscono sui giornali prima ancora di essere depositati.
«Dal punto di vista concettuale la cosa sarebbe comunque del tutto risolvibile: si ripristina il segreto istruttorio e si punisce con pene economicamente rilevanti non il giornalista, ma il giornale che pubblica. Questo però ha un controeffetto in un sistema come il nostro: le istruttorie durano due anni, non ha dunque senso impedire alla stampa di trattare un’inchiesta per così lungo tempo, sigificherebbe metterle il bavaglio. Si torna insomma al solito problema della durata dei processi nel nostro Paese. Dunque, ribadisco: le intercettazioni sono sacrosante in un sistema complesso e moderno com’è il notro; altra cosa è invece la pubblicazione, che getta fango su persone che magari neanche saranno rinviate a giudizio. Sarebbe giusto rendere noti i materiali di accusa solo al dibattimento: ma a quel punto questi saranno i documenti che serviranno effettivamente all’accusa».
Senza contare che a quel punto la difesa avrà a sua volta diritto di parola.
«Esatto, ci sarà il famoso contradditorio. Devo dire che una delle maggiori sciocchezze su questo piano venne operata dalla nostra sinistra, che volle introdurre l’avviso di garanzia, Uno strumento, questo, pensato a vantaggio dell’indagato, ma che ben presto si è trasformato in una specie di condanna anticipata. A mio giudizio invece l’avviso di garanzia dovrebbe essere inviato solo quando si è in presenza di un atto importante, che richieda la presenza di un avvocato».
Il sistema che descrivi - che prevede pene pesanti nei confronti dei giornali che pubblicano gli atti istruttori coperti da segreto - punisce il destinatario del tabulato che dovrebbe rimanere in procura, ma non il mittente. Quando, invece, il secondo è certo più responsabile del primo...
«Il funzionario infedele che passa le carte ai giornali è già punito nell’attuale ordinamento».
Ti pongo questo problema perché vi è la tesi in base alla quale aver fornito ai giornali il testo delle intercettazioni su Calciopoli ha certo gettato fango sui personaggi coinvolti, ma ha anche consentito loro di acquisire un bel vantaggio sulla pubblica accusa. Infatti, conoscendo nel dettaglio le carte in mano ai pubblici ministeri, hanno potuto accordarsi per una linea di difesa comune (questa almeno è la tesi dei pm napoletani).
«È chiaro che la mia ipotesi prevede una condanna penale per il funzionario che divulga il segreto istruttorio, ma questo lo diceva già il codice Rocco. Violazioni di questo genere sono sempre avvenute, per quanto in modo meno sistematico: ho seguito per anni il Palazzo di Giustizia e certo il magistrato non ci forniva le notizie... Il problema è che con Rocco la pena pecuniaria per chi pubblicava violando il segreto istruttorio era irrisoria, il giornale pagava volentieri, il danno era minimo rispetto ai vantaggi che otteneva con lo scoop. Ma, al di là di questo, il sistema era perfetto, eliminava il problema della lesione della privacy e dell’onorabilità delle persone».
Facciamo un passo indietro. Prima la vicenda Fazio-Bankitalia, con annessi e connessi; ora Calciopoli, Vittorio Emanuele di Savoia in carcere, il coinvolgimento di Alleanza nazionale, inoltre gli arresti domiciliari per l’ex governatore pugliese Raffaele Fitto coinvolto in un’altra inchiesta che tocca anche la famiglia Angelucci. Non si sta esagerando? Voglio dire: molto sembra richiamare una situazione “tipo 1992”, con una classe politica sotto scacco e la “forza della magistratura” che dilaga senza freni.
«Non parlerei di “forza della magistratura”. I fatti del 1992-1994 sono stati un’occasione perduta se si voleva fare un minimo di pulizia nel sistema. Nel giro di pochissimi anni i magistrati sono diventati colpevoli e i ladri si sono trasformati in giudici dei loro accusatori. È ovvio che un esito del genere ha incoraggiato ulteriormente tutto il sistema del malaffare. Inoltre in sgeuito sono state approvate leggi per rendere difficoltose o impedire tout court le indagini per una vasta serie di fattispecie, creando così una sorta di “doppio diritto”: tolleranza zero per i reati da strada, di sangue, compiuti dai poveracci, e una sostanziale impunità per i “colletti bianchi”. Questa è la conseguenza diretta di come la classe politica ha reagito e sta reagendo nei confronti di Mani Pulite: oggi infatti il Palazzo si agita su un problema che esiste - cioè le intercettazioni - ma si guarda bene dal sottolineare la questione principale, quella dell’illegalità».
Ma questo non è un Paese che, mancando di educazione civica, di senso delle istituzioni e di amor di patria (anche per colpa dei Savoia, tanto per ricollegarsi all’inizio di questa nostra discussione), passa troppo facilmente dal “porto delle nebbie” alla ghiogliottina, dall’impunità di massa al giustizialismo?
«Assolutamente sì, ma questa non è una responsabilità che va addebitata alla magistratura, bensì al sistema dei mass media, a sua volta legato ai partiti. È chiaro che diventano giustizialisti o ipergarantirsi a seconda di chi sia il coinvolto nella singola inchiesta. Io dico una cosa: se la magistratura applica le leggi, non fa giustizialismo, ma giustizia».