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Carlo Pisacane, socialista utopico e insurrezionalista

di Romano Guatta Caldini - 21/11/2011


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"Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti...”. I versi di Luigi Mercantini, per chi sia fresco di studi liceali, non possono non ricordare le noiosissime ore passate sui tomi delle antologie scolastiche.
Cavour, i Mille, Mazzini, Garibaldi, tutti studiati alla rinfusa, senza interesse, se non quello di cavarsela all’interrogazione. Ma se i professori italiani – tolta qualche rara eccezione – non sono mai riusciti ad insegnare la storia patria, senza scadere nella retorica, annoiando a morte gli studenti; in occasione del 150esimo anniversario dell’unità d’Italia, forse, è giunta l’ora di raccontare le vicende che hanno portato all’unificazione per quello che realmente sono.
Fra le varie lacune della scuola italiana (e non), c’è anche quella di prediligere i vincitori, tralasciando i vinti o, nel migliore dei casi, relativizzandoli, trattandoli en passant. Nella schiera delle tante vittime della superficialità degli insegnanti italiani, oltre ai protagonisti di quello che viene definito il fenomeno del brigantaggio, bisogna annoverare anche Carlo Pisacane e il suo piccolo, ma eroico esercito.
La spedizione di Sapri, a cui il Mercantini ha dedicato la sua più celebre poesia, viene infatti ricordata come uno degli innumerevoli moti di rivolta, dei patrioti italiani, come tanti se ne ebbero nelle città della penisola. Ma non è così.
Nel 1848, Pisacane è a Milano, con Carlo Cattaneo, l’uomo che infonderà, nel martire di Sapri, quel radicalismo, quell’idea di rigida organizzazione militare che, fino ad allora, era mancata all’interno del movimento patriottico. Nel 1849, invece, Pisacane è a Roma dove, anche se non ufficialmente, funge – all’interno della neo-nata Repubblica – da ministro della guerra. Durante un incontro fra Pisacane e Mazzini, quest’ultimo ricorderà: “Mi bastò un’ora di colloquio, perché le anime nostre si affratellassero, e perché io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebbe essere il militare italiano (...), la potenza di intuizione e il genio, sì raro a trovarsi, nell’insurrezione”. Eppure, nonostante la simpatia reciproca, i punti di divergenza fra i due patrioti - come vedremo - erano notevoli.
Mazzini partiva da una concezione puramente interclassista della lotta da intraprendere per l’indipendenza d’Italia; Pisacane, invece, pur non rifuggendo assolutamente la lotta di popolo, riteneva che, in sede primaria, si sarebbe dovuto fare leva sulle plebi contadine, sulla popolazione rurale - soprattutto quella meridionale - attraverso una vasta opera di propaganda che infondesse in loro quella coscienza di classe in grado di svegliarla dal torpore, quanto dal fanatismo religioso di cui erano succubi, a causa della forza preponderante del clero. Raggiunta la giustizia sociale, senza distinzione di appartenenza a quel ceto o a quell’altro, l’unione del popolo, di tutte le classi, sarebbe stata conseguente.
Ed è proprio per tali ragioni che, spesso e sovente, Pisacane si pronunciò a “favore” delle monarchie assolute, piuttosto che di quelle liberali: considerato che le prime, opprimendo giorno dopo giorno le libertà individuali, a lungo andare non avrebbero fatto altro che alimentare il fuoco della rivolta.
Possiamo dunque dire che, in seguito alla caduta della Repubblica Romana, in Pisacane nacquero i primi vagiti di quel socialismo nazionale che svilupperà – durante il suo esilio londinese – in Guerra combattuta in Italia nel 1848-49, un libro in cui le idee di socialismo e nazione andavano conformandosi in un armonioso processo rivoluzionario. Temi, questi, che verranno sviluppati, successivamente, nei Saggi storici, politici, militari sull’Italia, pubblicati postumi.
Con il passare degli anni, gli scritti di Pisacane andranno assumendo contenuti in cui, oltre all’eterna presenza di Mazzini, si faranno strada anche gli influssi di Marx: “La libertà è un’aspirazione naturale - scrive Pisacane - che si ottiene attraverso una serie di fatti terribili e sanguinosi; essa, per essere completa, ha bisogno di nazionalità e uguaglianza (economica oltre che politica). Sulla strada della libertà l’Italia deve fare da sola; il popolo svegliato, guidato dai “riformatori”, deve insorgere contro lo straniero e insieme contro “l’imbelle schiera di oppressori che lo sfruttano. La libertà del popolo passa necessariamente attraverso l’abolizione del diritto di proprietà, che non riguarda il frutto sacro e inviolabile dei propri lavori ma la facoltà concessa a pochi di arricchirsi a discapito di molti, il privilegio del proprietario e del capitalista di godersi, oziando, il frutto dei lavori del contadino e dell’operaio”.
Forte di queste idee Pisacane, Guevara ante-litteram, progettò una spedizione militare, nei pressi di Sapri, al fine di creare un focolaio insurrezionale che da quel lembo di terra fra la Campania e la Basilicata, si sarebbe dovuto estendere a Napoli e, chissà, anche in tutto il meridione. Partito da Genova con il piroscafo Cagliari, seguito da ventiquattro patrioti, Pisacane – all’altezza dell’isola di Ponza – impartì ai suoi l’ordine di requisire la nave, con annesse munizioni, e fare rotta verso il carcere, così da liberare i patrioti detenuti nelle galere borboniche.
Le guardie carcerarie, vista la mal parata, si arresero senza battere ciglio. Pisacane riuscì a liberare 323 detenuti, di cui solo una trentina erano prigionieri politici, tutti gli altri, per la maggior parte detenuti comuni, si aggregarono comunque alla spedizione.
Già prima della sua partenza, Pisacane aveva tastato il terreno che sarebbe stato il luogo dello scontro, ma purtroppo le previsioni non erano affatto rosee: i contatti con i patrioti della zona erano pressoché nulli e molti compagni languivano ancora nelle galere di Santo Stefano e Favignana. Così, il 13 giugno, scrivendo all’amico siciliano, Rosolino Pilo, Pisacane comunicava che le speranze erano scarsissime. Nonostante ciò, si doveva tentare il tutto per tutto.
La località era stata scelta perché in zona, ingenti gruppi di lavoratori rurali si erano contraddistinti nella lotta contro l’usurpazione delle terre demaniali, ed era proprio su di loro, oltre che nel malcontento della popolazione, che Pisacane riponeva le sue speranze:
“L’Italia trionferà quando il contadino cambierà spontaneamente la marra con il fucile”.
Ma il patriota napoletano non aveva calcolato due fattori fondamentali, per la riuscita dell’insurrezione. Il primo – forse il più importante – era la propaganda borbonica che, nella zona dello sbarco e nei paesi limitrofi, aveva allertato la popolazione comunicando l’arrivo di feroci banditi, saccheggiatori, violatori di chiese e non solo di quelle. A ciò bisogna aggiungere che la popolazione contadina, i braccianti su cui Pisacane contava, in quel periodo erano emigrati per il raccolto.
Giunti a Sapri la sera del 28 giugno 1857, Pisacane e i suoi puntarono su Padula, ma non prima di aver ordinato che, in caso di scontro con la popolazione, non si sarebbe dovuto combattere contro di essa. A Padula i patrioti dovettero scontrarsi con le guardie e i soldati stanziati in loco; visto l’alto numero di perdite – si calcola una cinquantina di uomini – Pisacane decise di ripiegare su Sanza. Dopo una relativa empasse della popolazione, come delle autorità locali, i patrioti vennero letteralmente massacrati, chi colpito dai fucili delle guardie, chi trafitto dai forconi della gente inferocita - sobillata dal clero locale - che, credendo a ciò che gli era stato comunicato precedentemente, invece di riconoscerli quali liberatori, li scambiò per assassini e delinquenti della peggior specie. Il grido “Viva l’Italia, Viva la Repubblica” non valse a niente, ormai coperto dalle urla di dolore dei patrioti morenti. Con il suo piccolo esercito distrutto e senza la benché minima speranza di un appoggio della popolazione, Carlo Pisacane volse la pistola contro di sé e fece fuoco.
Nel corso degli anni la figura di Pisacane è stata oggetto di contesa da quasi tutte le fazioni politiche. L’appropriazione indebita iniziò con i repubblicani e gli anarchici, seguì il regime fascista e si arrivò ai marxisti. Aldilà delle affinità ideologiche che Pisacane poteva avere con tutti i succitati schieramenti, quello che deve veramente restare nella memoria degli italiani, è il ricordo di questo giovane idealista e dei suoi compagni che combatterono fino alla morte, fino alla sconfitta. Furono dei vinti, certo, ma come scrisse Mercantini, “vollero morir col ferro in mano”.