Ripensare Konrad Lorenz
di Giovanni Monastra - 09/10/2005
Fonte: estovest.org
“Le malattie intellettuali della nostra epoca usano venire dall’America e manifestarsi in Europa con un certo ritardo” (Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1974, p.12)
A distanza di poco più di un secolo dalla nascita e di quindici anni dalla morte del grande etologo austriaco Konrad Lorenz ci sembra opportuno tracciare un profilo della sua vita e, più in particolare, del suo pensiero, al quale la moderna etologia deve molto, ma che andrebbe criticamente ripensato proprio per evidenziarne gli aspetti positivi e quelli negativi. Tracciare un bilancio adesso permette di parlare della sua opera con maggiore freddezza, uno stato d’animo che è mancato quando Lorenz era in vita e suscitava - come alcuni ricorderanno – forti passioni, spesso opposte, critiche ingenerose e apprezzamenti troppo entusiastici. L’attuale clima culturale, meno dogmatico che negli anni settanta-ottanta, costituisce un ulteriore motivo per parlare con maggiore distacco e senza certe pressioni psicologiche che potevano avere la loro motivazione storica anni addietro, ma che oggi sarebbero assurde, oltre che ridicole. Vediamo quindi, in primo luogo, in che ambiente si svilupparono le idee di Konrad Lorenz, per poi avvicinarci al suo pensiero in modo più articolato, analizzandone alcuni aspetti. Nacque a Vienna, il 7 novembre 1903. Suo padre, Adolf Lorenz, era un ortopedico di fama internazionale. Studiò medicina (per un certo periodo anche a New York, presso la Columbia University, poi a Vienna) e conseguì la laurea nel 1928, ma la sua vera passione era la zoologia, in particolare lo studio degli uccelli, tanto che, nel 1933, si laureò anche in questa disciplina. Dal suo matrimonio con Margarethe Gebhardt, una ginecologa, nacquero tre figli, due femmine e un maschio. Nel 1937 iniziò l’insegnamento di psicologia animale e anatomia comparata all’Università di Vienna; nel 1940 divenne professore di psicologia all’Università di Konigsberg, in Prussia. Arruolato nell’esercito della Germania nazionalsocialista, nel 1944 venne preso prigioniero dai sovietici e tenuto in prigionia per quattro anni, fino alla liberazione nel 1948. Un anno dopo pubblicò quello che forse è rimasto il suo libro più famoso, L’anello di Re Salomone, dove espresse il meglio delle sue capacità di divulgatore accattivante e scienziato attento e curioso verso ogni fenomeno naturale. Sulla stessa lunghezza d’onda, ma certo meno interessante, anzi talora un po’ monotono, apparve nel 1950 E l’uomo inventò il cane. Dal 1961 al 1973, in Baviera, fu Direttore dell’Istituto Max Plank per la fisiologia del comportamento. In questo arco di tempo diede alle stampe testi scientifici come Il cosiddetto male, focalizzato sul tema dell’aggressività, ed Evoluzione e modificazione del comportamento, ma anche libri dove fuse le conoscenze di etologo con le riflessioni filosofico-morali. Ci riferiamo a L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza, impegnativo lavoro ricco di stimoli, anche se non sempre convincente, e al ben noto Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, dove esprime un pessimismo a volte radicale, che più tardi avrebbe ritenuto eccessivo. Questo libro costituisce una ricerca delle cause dei pericoli che minacciano l’umanità. Secondo Lorenz gli otto peccati capitali sono i seguenti: lo smisurato incremento della popolazione umana (allora era un problema reale), la distruzione dell’ambiente, l’eccesso di competizione tra gli esseri umani, l’estinguersi dei sentimenti, il deterioramento del patrimonio genetico, la distruzione della tradizione, l’indottrinamento degli individui al limite del plagio e la diffusione delle armi nucleari. Forse in questo testo lo studioso austriaco raggiunse l’apice del suo impegno morale, volto a risvegliare le coscienze, impegno che in parte ci sembra valido ancora oggi, almeno per alcuni settori da lui analizzati. Nel 1973, tra violente e pretestuose polemiche della sinistra, venne insignito del Premio Nobel per la fisiologia e la medicina, con altri due famosi etologi, Tinbergen e von Frisch. Nello stesso anno si ritirò ad Altenberg (Austria), sulle rive del Danubio, dove continuò i suoi studi, dirigendo, tra l’altro, il dipartimento di sociologia animale dell’Accademia Austriaca delle Scienze. A questo periodo risalgono l’eccellente volume sul comportamento animale, vera e propria summa del suo pensiero scientifico, L’Etologia (1978), e testi più “filosofici” come Natura e destino (1978), Il declino dell’uomo (1983) e Salvate la speranza (1988). Morì ad Altenberg il 27 febbraio 1989: aveva 85 anni.
Per comprendere meglio il pensiero di Lorenz, che non si limita alla sola etologia, occorre contestualizzarlo: infatti egli visse spesso con sofferenza la sua epoca, segnata da profondi cambiamenti, da una radicale trasformazione del mondo. Infatti in quel periodo storico si ebbe il massiccio diffondersi dell’industrializzazione, con il prevalere della tecnologia non solo nei suoi aspetti pratici, ma anche nei suoi riflessi pericolosi a livello di mentalità collettiva. Accanto a un superficiale e qualunquistico ottimismo progressista, già noto, per altro, nel passato, apparve un’ideologia definibile come “nuovismo”, connotata da un entusiasmo infantile per tutto ciò che si presenta come “innovativo”. Lorenz denunciò il pericoloso e diffuso rifiuto del concetto stesso di “fatica” e di “sofferenza”, ritenuti da molti inconcepibili e inaccettabili retaggi del passato in cui l’uomo era succube delle costrizioni della natura. Nell’era della scienza e della tecnica, simboli della potenza umana senza limiti di alcun tipo, “fatica” e “sofferenza” sembravano (e sembrano) quasi una bestemmia contro la libertà e la dignità degli individui. In questa cornice l’etologo viennese si adoperò per difendere l’ambiente dalle molteplici aggressioni a cui era sottoposto: egli propugnava una visione ecologica di tipo conservatore in senso molto alto e nobile, ma al contempo improntata ad un sano realismo, mai ripiegata sulla nostalgia del passato in quanto tale e quindi utopisticamente reazionaria o immobilista, ma piuttosto tesa a fare comprendere le ragioni più profonde che ci devono indurre a rispettare i ritmi, le leggi e i limiti posti dalla natura. A tale proposito ricordiamo i suoi appelli per una ecologia libera da qualsiasi ipoteca freudiana, dai fantasmi del fanatismo puritano e dalle illusioni arcadico-bucoliche, di origine roussoiana: “Un filosofo come Jean-Jacques Rousseau ha causato danni considerevoli… Marcuse era una sorta di folle utopista” (Intervista sull’etologia, Il labirinto, Sanremo 1979, pp. 91-2). E ancora in chiave antiroussoiana e antimarcusiana: “Un uomo, privato della cultura, non sarebbe un felice selvaggio liberato dai legami della civiltà, ma un infelice storpio paragonabile a qualcuno col proencefalo leso” (Lorenz allo specchio, Armando, Roma 1977, p. 120). Ad ulteriore testimonianza delle radici antiutopiche del suo pensiero ricordiamo che egli, ponendosi controcorrente tra gli ambientalisti, difendeva la legittimità della caccia e della sperimentazione animale in campo farmaceutico, naturalmente controllata per evitare inutili sofferenze alle bestiole usate come cavie. Accanto alla forte e convincente critica lorenziana alla tecnomorfizzazione planetaria e allo sfruttamento economicistico della natura, vanno poste sia la difesa dell’energia solare contro il mito faustiano del nucleare, sia il rifiuto dell’aborto in quanto pratica antiumana, sia ancora il riconoscimento dell’ineguaglianza tra gli uomini come elemento intrinseco e primario, ma anche fecondo, creativo: “L’ineguaglianza dell’uomo è uno dei fondamenti ed una delle condizioni di ogni cultura, perché è essa che introduce la diversità nella cultura. Nella società umana, la divisione del lavoro è fondata su una differenza, un’ineguaglianza dei membri della società” (Intervista sull’etologia, Il labirinto, Sanremo 1979, p. 90). Si impegnò anche con iniziative “concrete” in difesa dell’ambiente e partecipò alla redazione del manifesto del “Gruppo ecologico”, intervenendo in numerose occasioni a trasmissioni radiofoniche e televisive. Già negli anni quaranta scriveva: “Io mi sento molto seriamente impegnato a risvegliare in quanti più uomini è possibile una profonda comprensione e venerazione per le meraviglie della natura” (L’anello di Re Salomone, Mondadori, Milano 1975, p. 123) e ancora: “gli animali ci aiutano a ristabilire quell’immediato contatto con la sapiente realtà della natura che è andato perduto per l’uomo civilizzato” (ivi, p. 158), ossessionato dai ritmi di lavoro frenetici e innaturali propri alla nostra società dei consumi, dominata da un attivismo luciferino. Era molto critico verso certe teorie che già da tempo vedevano nella tecnologia la soluzione di ogni problema umano e che quindi situavano l’uomo in un futuro utopico, un eden felice di tipo tecnocratico, che a parere di Lorenz sarebbe stato, invece, molto più simile a un incubo a causa della sua incompatibilità con la natura umana. Si oppose anche allo strapotere delle multinazionali, per le quali la tecnocrazia risultava assai funzionale, in quanto eliminava, ritenendole di fatto inutili, le dimensioni della politica e dell’etica, cioè della sovranità e dei valori, che costituiscono dei freni e dei limiti all’agire puramente utilitaristico proprio ai vari attori appartenenti alla sfera del Mercato. Sotto molti aspetti fu un critico ante litteram del mondialismo già diversi decenni addietro. Leggendo Lorenz colpisce subito la sua capacità innata di instaurare un rapporto diretto con la natura, con gli individui che la popolano: “Vorrei dire innanzitutto che io non ho cominciato a tenere degli animali perché ne avevo bisogno per scopi scientifici: no, tutta la mia vita è stata legata strettamente agli animali, fin dalla prima infanzia… Crescendo ho allevato gli animali più diversi… Mi sono comportato sempre in questo modo: per conoscere a fondo un animale superiore, ho vissuto con lui. L’arroganza di certi scienziati moderni, che credono di poter risolvere tutti i problemi studiando un animale soltanto a livello sperimentale, è stata sempre estranea alla mia mente. E i problemi importanti si risolvono soltanto se si conosce l’animale in maniera diretta” (Salvate la speranza, Armenia, Milano 1989, pp. 27-8). Allevò un gran numero di individui appartenenti a varie specie, osservandoli in un regime di libertà o di semi-libertà, spesso proprio nel loro habitat naturale (famosi sono i suoi studi sulle anatre), lontano dalle costrizioni a cui, fino ad allora (salvo rare eccezioni) erano stati sottoposti in laboratorio. Ciò gli permise di “vedere” molte cose che erano sfuggite o erano state fraintese in precedenza. Inoltre la sua capacità di mettersi in sintonia con gli altri viventi dovette essere, specie in certi casi, eccezionale. Lo notò il grande fisiologo ed etologo tedesco Jakob von Uexküll, che scrisse in un volumetto edito negli anni trenta, L’immortale spirito nella natura (Laterza, Bari 1947, p. 96): “Konrad Lorenz non solo comprende, come nei racconti di fate, la lingua degli uccelli…, ma la parla egli stesso”. Per il giovane studioso austriaco questo era un riconoscimento di alto valore. In senso simbolico potremmo asserire che Lorenz aveva l’anello di re Salomone. Infatti si narra che questi fosse in grado di parlare con diversi animali proprio per merito di un anello magico che era in suo possesso. Per inciso va, però, precisato che, ad esclusione della nostra specie, nessun altra è in grado di usare un linguaggio nel vero e proprio senso del termine, ma solo un codice, spesso complesso, di segnali e movimenti espressivi. Certo la familiarità con gli animali, che lo ha connotato, derivava dalla sua disposizione di fondo a non considerarli come “oggetti” da analizzare, ma, piuttosto, come “colleghi” meno dotati, però assai simpatici, con cui, quindi, si può instaurare un rapporto partecipativo, empatico. Tale rapporto era costituito da spontaneità e immediatezza, sempre regolato, però, da rigorosi canoni che lo qualificano come fatto scientifico. I risultati eccellenti ottenuti da Lorenz nei suoi studi dovrebbero far riflettere sui notevoli limiti del metodo di analisi basato solo sulla rigida e asettica separazione Io-Mondo, cioè Soggetto-Oggetto. I suoi studi gli permisero, tra l’altro, di evidenziare certi gravi errori, commessi da altri ricercatori, derivanti dalla lettura meccanicista dei dati comportamentali, tipica dei cosiddetti comportamentisti (chiamati pure behavioristi, come J.B.Watson e F.Skinner, che portavano alla estreme conseguenze la vecchia teoria meccanicista dei riflessi), sia anche dalla lettura, altrettanto mistificatrice, tesa ad antropomorfizzare gli animali. Lorenz, forse per primo, anche se con alcuni limiti, colse il vero significato e valore dell’istinto, inteso come fenomeno autonomo e spontaneo, innato, quindi geneticamente condizionato, ponendo così in una luce molto più complessa e articolata, il comportamento animale, in forte opposizione con la teoria comportamentista che riduceva l’agire degli animali al semplice prodotto della reazione a stimoli esterni. Il nostro Autore sostiene che in ogni comportamento istintivo esiste un nucleo centrale di automatismo assolutamente fisso e più o meno complesso, una forma-movimento innata, cioè una sequenza comportamentale costante al pari di una struttura anatomica. Tale stabilità permette di studiare questi aspetti del vivente come le altre realtà organiche. Secondo l’etologo austriaco ogni istinto tende a costituire un tipo di tensione specifica che si accumula nel sistema nervoso centrale: se l’animale non può scatenare l’istinto la tensione viene imprigionata. Ciò dà luogo ad un abbassamento del livello di soglia degli stimoli che scatenano quella particolare attività istintiva. In alcuni casi la tensione accumulatasi oltre misura può esplodere anche in assenza di uno stimolo. Ci sembra opportuno ricordare che la teoria lorenziana dell’istinto è stata criticata da uno studioso molto equilibrato, l’etologo francese Remy Chauvin, allievo di Pier Paul Grassé, zoologo di fama mondiale. Le sue osservazioni meritano un breve inciso. La posizione di Chauvin, a tale proposito, è differente da quelle degli innatisti spinti, ma anche degli ambientalisti, che fanno risalire tutto ai condizionamenti esterni. Lo studioso francese dichiara espressamente di essere più interessato ai comportamenti complessi che ai gesti isolati, la cui sommatoria, successiva all'analisi, gli appare riduttiva e fuorviante se non si va oltre. In un certo senso il limite di Lorenz sarebbe, appunto, quello di partire dall’indagine delle strutture comportamentali più semplici per poi ricostruire la complessità dell’agire animale dal loro assemblaggio, cioè dalla loro somma. Lo “psichismo”, che l’etologo austriaco rifiuta, è una dimensione rilevata da Chauvin in moltissimi gruppi zoologici e la sua manifestazione, pur avendo una chiara base genetica, non gli appare deterministicamente dettata dai cromosomi: infatti, studiando individui appartenenti alla stessa specie, o lo stesso soggetto esaminato in successione nel tempo, ci mostra numerosi esempi di strategie, tra loro diverse, atte a risolvere il medesimo problema. Quindi siamo in presenza di una “variabilità comportamentale” che introduce un ulteriore aspetto nella complessità del comportamento animale. Chauvin ha potuto conseguire queste scoperte usando un metodo di indagine (per altro comune pure ad etologi come Dembowski e Gromysz), lontano sia dal riduzionismo laboratoristico dei comportamentisti, che alienano l'animale dall'ambiente, sia dalla pura descrizione, talora aneddotica, dell'agire spontaneo in natura. In concreto l'animale viene posto di fronte a dei problemi, per capire le diverse potenzialità comportamentali proprie ai vari soggetti nel superare sfide insolite. Tornando a Lorenz, egli pur avendo messo in rilievo l’importanza dell’istinto si guardò bene dal negare il ruolo dell’apprendimento nel processo di evoluzione interiore dell’animale. Il suo discorso vale anche per l’uomo, con i dovuti “distinguo”, data la nostra specificità e differenza rispetto al mondo animale, da lui sempre sottolineata, tanto che condivideva il detto di Lao Tse: “Tutto l’animale è nell’uomo, ma non tutto l’uomo è nell’animale”. A questo proposito ci sembra ricca di significato, per le numerose implicazioni che ne derivano, la seguente affermazione: “Anche sotto l’aspetto culturale, è sostanziale la distinzione tra innato e appreso. Neppure il comportamento umano è illimitatamente modificabile dall’apprendimento e infatti alcuni programmi innati hanno valore di diritti dell’uomo” (L’Etologia, Boringhieri, Torino 1980, p. 12.). Contro l’illusione comportamentista (behaviorista) di poter plasmare l’uomo mediante l’educazione e l’indottrinamento (illusione che - sottolinea Lorenz - è comune all’ideologia americana e a quella comunista, ambedue egualitariste), egli afferma con forza l’irriducibilità a ogni condizionamento ambientale del nucleo profondo di tutti i viventi, uomo compreso. Altrettanto degne di attenzione ci sembrano le sue riflessioni tese a recuperare il concetto di “pseudospeciazione culturale”, coniato da Erik Erikson, proprio per le ricadute che ha sul comportamento dei gruppi umani. Per chiarezza va posta una premessa. Sappiamo che il rifiuto e il senso di estraneità rispetto agli individui che non conosciamo è molto più radicato nei confronti dei soggetti appartenenti alla nostra stessa specie che rispetto a membri di altre specie: il bambino è intimorito molto di più dalla presenza di esseri umani estranei che da quella di animali selvatici, anche se poco noti. Su questo substrato istintuale, che emerge con la formazione della persona, si struttura un meccanismo di dimensioni più ampie, quello appunto della “pseudospeciazione culturale”. Commentando tale definizione, Konrad Lorenz, nel suo principale testo di filosofia etologica, L’altra faccia dello specchio, ha scritto: “le culture che hanno raggiunto un certo grado di differenziazione reciproca si comportano tra loro in modo alquanto simile a quello di specie animali diverse, ma strettamente imparentate tra loro. E importante accentuare lo stretto grado di parentela, perché non è mai avvenuto, a quanto sappiamo, che, in seguito a una evoluzione divergente, due gruppi culturali si siano differenziati talmente, da un punto di vista etologico ed ecologico, da poter vivere tranquillamente l’uno accanto all’altro nella stessa zona, come fanno ad esempio diverse specie di anatre [...] con una totale mancanza di rapporti e senza entrare in reciproca concorrenza” (L’altra faccia dello specchio, Adelphi, Milano 1974, p. 320). Due elementi vanno evidenziati a questo punto: la vicinanza geografica e la parziale somiglianza come fattori essenziali della competizione e dello scontro. In particolare – è una osservazione pregna di conseguenze - le tensioni nascono non perché si è troppo diversi, ma perché si è ancora troppo simili, e quindi si occupano le stesse nicchie ecologiche. Lorenz nota come una serie di riti di origine culturale, analoghi a quelli di origine biologica, mantengono nel tempo le differenze tra i gruppi, tanto che emerge un netto parallelismo tra le due simboliche. Tale approccio gli permise di situare in una visuale meno angusta del passato fenomeni come l’aggressività, il senso della territorialità, i riti e le cerimonie, il valore del gioco anche nel mondo animale, i codici di comportamento, l’imprinting. In particolare lo studioso austriaco s’impegnò nello studio dell’aggressività, non più demonizzata in chiave moralistica, ma riconosciuta come comportamento ineliminabile e spontaneo che è impossibile far derivare dai soli stimoli ambientali. Per Lorenz l’aggressività non è né buona, né cattiva, ma fa parte della definizione stessa del vivente. Tra l’altro egli afferma, con scandalo di alcuni, che la gerarchia esistente nelle società animali, oltre a svolgere un ruolo organizzativo insostituibile, ha pure la funzione di ridurre e contenere i comportamenti aggressivi. Naturalmente esistono altri deterrenti da lui evidenziati, dato che addirittura tra molti vertebrati inferiori, “la conoscenza personale attenua l’aggressività”. Il reciproco conoscersi, unitamente alla strutturazione gerarchica delle comunità, che comporta l’attribuzione dei ruoli per ciascuno, e alla determinazione di opportuni intervalli spaziali tra gli individui, a seconda delle specifiche esigenze, costituisce un valido deterrente contro l'insorgere di elementi ansiogeni, prodromi di violenza. I suoi studi (insieme a quelli di un altro etologo, Robert Ardrey, e del famoso psicopedagogo francese Jean Piaget) permisero anche di definire meglio il significato e il valore della “territorialità”. Essa fornisce lo schema in cui si inseriscono le azioni dell’animale: è una configurazione spaziale interiorizzata, qualitativamente diversa da una specie all’altra, la quale dà ordine e forma tipica al sentire e all’agire dell’individuo, determina una serie di priorità nelle sequenze e negli schemi motori e percettivi, regolando così i rapporti intersoggettivi. Nello stesso tempo, la territorialità pone limiti demografici molto diversi da una specie all'altra, non su base malthusiana, ma prossemica, cioè non in base a motivi materiali (maggiore o minore disponibilità di risorse), ma psicologici. In parole più semplici, la territorialità costituisce un istinto primordiale da cui derivano molti comportamenti particolari, situati tra i due poli dello “spazio” e del “vicino” appartenente alla medesima specie, ossia conspecifico. Trattando questi temi Lorenz si rivelò un eccellente divulgatore, riuscendo quasi sempre, a non sacrificare la scientificità del messaggio alle lusinghe di una comunicazione banalizzata e svuotata di reali contenuti, cioè puramente autoreferente. Dobbiamo alla sua opera infaticabile di ricercatore e di appassionato difensore della natura, e degli animali in particolare, se il nostro sguardo sul mondo si è, al contempo, ampliato e approfondito, sentendo gli esseri viventi a noi più vicini, ma al contempo con una loro specificità incancellabile. La capacità di comprendere, quasi di “intuire”, la vita come realtà complessa, quindi anche negli aspetti biologicamente più elevati e qualificati, che sfuggono all’indagine laboratoristica classica, portano il nostro Autore a criticare con fermezza ogni forma di riduzionismo biochimico e ogni pretesa di espellere dall’indagine scientifica tutto ciò che non risulta traducibile in termini quantitativi. Ma Lorenz non si accorge che egli stesso cade in una forma di riduzionismo “genetico-molecolare” quando, di fronte alla decadenza etica dell’umanità attuale (incomprensione del senso e della necessità del sacrificio, rifiuto della solidarietà, ecc.) limita tale fenomeno alla “perdita genetica”, dovuta ad un errato processo selettivo. Il parallelismo che egli pone tra specie animali domestiche, iperselezionate in funzione produttivistica, e l’uomo, unico essere ad aver imboccata la via dell’autoaddomesticamento e, perciò, responsabile delle proprie (e delle altrui) trasformazioni, lascia assai perplessi, nonostante il tono interrogativo a volte usato. Infatti i valori etici non hanno, e non possono avere, una origine genetica: sono realtà trascendenti la sfera biologica, naturalistica, anche se da essa traggono le modalità e le forme per esprimersi, ossia i comportamenti innati. Questi ultimi in sé vanno giudicati “neutri” sotto il profilo etico: sono al di qua del bene e del male. Quindi ci sembra una forzatura parlare, come in un recente passato hanno fatto alcuni etologi, di “biologia dei dieci comandamenti”, senza chiarire il valore puramente strumentale dei moduli comportamentali analizzati. Rifiutare l’immanentismo che, in vario modo, fa derivare l’etica dai geni non significa accettare il dualismo di stampo cartesiano. Infatti, una concezione organica e integrale dell’uomo fa riferimento a una struttura sistemica intelligibile e ordinata, di tipo differenziato, dinamico, coordinato, costituita da più livelli tra loro interconnessi, lontana da ogni semplicismo basato su teorie dualiste. Lorenz, al di là delle intenzioni, rivela a questo proposito una visione abbastanza grossolana, derivante dalla sua prospettiva neodarwiniana, declinata nel senso di un radicale casualismo in un contesto funzionalista. Infatti in varie occasioni afferma: “l’evoluzione è governata dal caso”, elemento creativo da cui originerebbe ogni “novità”, su cui poi opererebbe la Selezione Naturale, secondo un concetto caro al nostro Autore. Di conseguenza talora egli riduce in modo arbitrario, e senza rendersene conto, il “giusto” all’ “utile”. Così, ad esempio, la solidarietà viene valorizzata in nome della sopravvivenza della specie umana: la solidarietà, quindi, diventa selettivamente “vantaggiosa” per la nostra evoluzione in quanto costituisce un elemento utile nella “lotta per la vita”, cioè nel processo di competizione interspecifica e intraspecifica. La Selezione Naturale premierebbe questo carattere. Facendo un passo più in là si comprende come i sociobiologi arrivino a parlare di “gene egoista”, dando un radicale fondamento adattativi di tipo molecolare alla coesione e al sacrificio “altruistico” all’interno dei gruppi animali (uomo compreso) uniti da un substrato genetico comune. Essi sono forse più coerenti nel portare alle estreme e logiche conseguenze alcuni principi presenti, almeno in embrione, anche nel pensiero dello studioso di Altenberg. Al di là di pochi limitati aspetti interessanti e condivisibili delle loro teorie, i sociobiologi mostrano a quali conclusioni finali, talora deliranti, conducono determinati presupposti, una volta abbandonate certe remore umanistiche e sentimentali tipiche dello stesso Lorenz. Per completezza va comunque aggiunto che, secondo i sociobiologi, Lorenz e gli etologi classici non andrebbero considerati per nulla dei neodarwinisti, in quanto sarebbero stati incapaci di identificare il vero elemento soggetto alla Selezione Naturale. Infatti per gli etologi classici è l’intero organismo che viene premiato o eliminato nella lotta per la vita, mentre per i sociobiologi si tratta del singolo gene, portatore di un certo carattere. Risulta qui evidente l’ingenuità meccanicista e determinista di far risalire strutture o comportamenti complessi all’azione di un singolo gene, e non invece a un insieme di fattori dove giocano un ruolo importante anche i geni, ma come gruppi interagenti e non come singole entità puntiformi, che operano in modo lineare e autonomo! Analoghe perplessità sul pensiero di Lorenz sorgono quando egli affronta il problema dell’esistenza della bellezza in natura. Il nostro Autore era molto critico nei confronti di alcune idee di Adolf Portmann, uno zoologo svizzero abbastanza noto, che sosteneva una concezione articolata e complessa del mondo vivente, nella quale trovava posto anche il concetto del “bello” in sé, carattere che si manifesterebbe negli esseri viventi indipendentemente dalla sua utilità, cioè dalla sua funzionalità. Lorenz riteneva che queste argomentazioni risentissero ancora pesantemente di elementi di pensiero “vitalistici” (Natura e destino, Mondadori, Milano 1985, p. 71). Infatti, come già evidenziato, l’etologo austriaco seguiva una rigida concezione funzionalista ed utilitarista, di tipo neodarwiniano, per spiegare l’affermarsi e il permanere, cioè l’esistenza, di ogni elemento presente in natura, sia una struttura anatomica, sia una funzione fisiologica, sia un comportamento. Volendo rispondere all’interrogativo se “Esiste il bello in sé?”, scrive: “spiegando i favolosi colori del guscio degli opistobranchi (molluschi) come una rappresentazione che quegli organismi danno di se stessi (come fa Adolf Portmann), trascureremmo il fatto che questi animali muniti di cleptocnidi ricavano un vantaggio dalla magnificenza dei loro colori: ogni animale ostile che cercasse, a proprio danno, di divorarli, conserverebbe indelebilmente impresso nella memoria il ricordo dei loro vistosi colori” (Il declino dell’uomo, Mondadori, Milano 1988, p. 109). Insomma, a differenza di quanto riteneva Portmann, quando si riferiva ai caratteri “vettoriali”, secondo Lorenz il bello in sé non esiste in natura, ma, se esso si palesa, non è altro che un aspetto derivato di un fenomeno adattativo complesso. Da quanto osservato in precedenza, specie su temi scottanti come l’aggressività, la gerarchia, la territorialità o il conflitto fra gruppi, si può comprendere perché certi critici faziosi e in mala fede abbiano avuto buon gioco nel denigrare il pensiero dell’etologo austriaco, enfatizzandone in modo scorretto, strumentale, alcuni aspetti problematici. Così anche si spiegano gli squallidi attacchi e le calunniose accuse di contiguità con l’ideologia del nazionalsocialismo e con il razzismo. Piuttosto va evidenziato il pericolo di uno slittamento verso un orizzonte “materialista”, che, pur rifiutato dall’Autore, purtroppo emerge in taluni aspetti del suo pensiero. A parere di chi scrive, una concezione del mondo di tipo differenzialista, in senso sia orizzontale che verticale, ma anche permeata da un forte senso comunitario e solidale, concezione che considera basilare il rispetto dell’altro (persona o gruppo), deve cogliere i punti di affinità e quelli di divergenza con le teorie di Lorenz, in particolare laddove egli introduce evidenti valutazioni soggettive nella lettura dei dati scientifici: in altre parole, quando egli fa il “filosofo”. In alcuni casi ciò che serve è una riconversione e una rilettura dei suoi studi e del suo pensiero alla luce di paradigmi diversi. Così, ad esempio, non è la perdita di particolari geni che determina la decadenza etico-spirituale, ma è quest’ultima che, affermatasi per molteplici e complessi motivi, ha contribuito a selezionare un tipo umano con dei comportamenti ad essa funzionali, premiando quindi anche certi tipi genetici a fronte di altri. Il che è ben diverso, però dal concepire questo processo come una concatenazione meccanica e deterministica, tali e tante sono le variabili coinvolte. Così l’insterilimento genetico e la semplificazione della sua complessità alla luce di necessità utilitaristiche e materialistiche costituiscono una conseguenza finale, un effetto lontano, qualitativamente di modesta importanza, di cause remote, situate in dimensioni ben diverse da quella biologica. Purtroppo la consapevolezza di questo quadro sembra sfuggire a Lorenz, quando egli sistematizza il suo pensiero, nonostante qualche interessante intuizione isolata. Solo facendo riferimento a tali “intuizioni”, e non tanto alle teorie lorenziane più organiche, si può comprendere come egli abbia saputo esprimere valutazioni e giudizi profondi e “in ordine”, espressione di una certa saggezza, anche se di valore discontinuo a causa della presenza di un eccessivo tono ”pedagogico” e di alcune banalità. Certo il miglior Lorenz è quello in cui traspaiono le influenze di studiosi come Gehlen e Bertalanffy, e non laddove risultano preminenti Kant, Popper e Darwin. Potremmo definire la sua filosofia un “umanesimo realistico” a sfondo pessimistico, non priva di aperture verso la religiosità, che però egli riusciva a percepire quasi unicamente sotto il profilo etico, e non sotto quello spirituale. Su questo tema scrisse le seguenti significative parole: “Io non sono un cristiano convinto, però concordo con tutte le regole morali del cristianesimo. Entro questi limiti sono cristiano” (Salvate la speranza, Armenia, Milano 1989, p. 174). La sua difesa della tradizione, più volte ribadita in molti libri (primo tra tutti Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, in cui si sottolinea la maggiore importanza del “conservare” il bagaglio di conoscenze accumulate, rispetto all’acquisirne di nuove) rimandava a un sapere puramente umano, anche se non solamente razionale, in cui cultura e biologia finivano col fondersi. Però, nonostante il pessimismo che aleggia in molti suoi libri di carattere “filosofico”, lo studioso di Altenberg non disperava, perché riteneva necessario e utile far sentire la sua voce a un uomo talora sordo, almeno all’apparenza: “Al contrario di Faust m’illudo di poter insegnare qualcosa per migliorare e convertire gli uomini” (Il cosiddetto male, Garzanti, Milano 1974, p. 305). Infatti a suo parere lo studio degli animali può servire, ad esempio, per trarre insegnamenti utili al fine di progettare interventi sociali che limitino le conseguenze negative dei comportamenti aggressivi dell’uomo. Quindi il nostro futuro è ancora tutto da scrivere. Per questo Lorenz criticava chi ritiene di poter delineare nei suoi tratti fondamentali l’avvenire dell’uomo: “noi non condividiamo l’opinione di Oswald Spengler che il destino della nostra civiltà sia segnato… ogni tentativo di prevedere il futuro [è] logicamente impossibile” (Il declino dell'uomo, Mondadori, Milano 1988, p. 169).
In definitiva Lorenz fu un personaggio multiforme, non facilmente inquadrabile secondo schemi banali e quindi difficile per molti, più complesso e articolato, ma anche contraddittorio, di quello che vorrebbero farci credere, da sponde opposte, detrattori faziosi e sostenitori acritici.
Bibliografia essenziale di Konrad Lorenz (è indicato l’anno della prima pubblicazione in tedesco):
1949 L'anello di re Salomone (Adelphi, Milano)
1950 E l'uomo inventò il cane (Adelphi, Milano)
1963 Il cosiddetto male (Garzanti, Milano)
1965 Evoluzione e modificazione del comportamento (Boringhieri, Torino)
1973 L'altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza (Adelphi, Milano)
1973 Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (Adelphi, Milano)
1975 Lorenz allo specchio (Armando, Roma)
1978 Natura e destino (Mondatori, Milano)
1978 L'etologia (Boringhieri, Torino)
1979 Intervista sull’etologia a cura di Alain de Benoist (Il Labirinto, Sanremo)
1983 Il declino dell'uomo (Mondadori, Milano)
1988 Salvate la speranza (Armenia, Milano)
1988 Io sono qui tu dove sei? (Mondadori, Milano)