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Macerie e vittime nella Kabul dei «liberatori»

di Vauro Senesi - 12/07/2006

 
Pallottole invece di aiuti Nella capitale afghana percorsa a folle velocità dai blindati degli occupanti Usa

Uscendo dal terminal dell'aeroporto di Kabul, sulla piazza si veniva accolti da un grande cartello, avvisava che sul territorio afgano sono disseminate circa 10 milioni di mine e mostrava il disegno di alcuni tipi di ordigno. Era l'unico cartello disegnato in tutta la città perchè i talebani proibivano rigidamente qualsiasi forma di riproduzione di immagini. Al suo posto oggi troneggia la pubblicità di un qualche sapone. Con la faccia sorridente e truccata di una bella ragazza. Il cartello delle mine è sparito ma le mine no. La faccia sorridente della bella ragazza della pubblicità e uno dei pochi volti di donna che si possano vedere, chè già inoltrandosi nello stradone che porta verso il centro della città, rese più incerte dalla nebbia della polvere sollevata dal vento, compaiono qua e là le sagome dei burka di sempre. Affondata dal rumore continuo di clacson prodotto da un traffico anarchico di automezzi sgangherati e di Pik Up con i contrassegni delle centinaia di organizzazioni internazionali piovute qui, la Kabul «liberata» continua a mostrare le macerie di sempre. Non ci sono più i turbanti neri dei miliziani talebani. Ma gli elmetti d'acciaio dei soldati del nuovo esercito afghano, i kalashnikov sono gli stessi di sempre negli infiniti posti di blocco che strozzano le vie della città. I militari americani si intravedono soltanto, chiusi nei blindati dei convogli che percorrono le strade correndo. Hanno l'ordine di non fermarsi anche se causano incidenti o travolgono qualcuno, non devono mettere a rischio la loro sicurezza, quella degli altri non è la priorità. Nabi, 30 anni, capelli scuri e occhi mobilissimi su un volto magro ombreggiato da un velo di barba, si trovava nella zona dove, il 29 maggio scorso, l'ennesimo incidente provocato da un convoglio blindato statunitense avva suscitato la rivolta della popolazione. Pietre contro le autoblindo ed in risposta proiettili, proiettili del tipo ad alta velocità, di quelli che penetrati nel corpo frantumano le ossa. A Nabi uno di quei proiettili ha sbriciolato il bacino. Ora è ricoverato nell'ospedale di Emergency, steso sul letto, una sbarra di ferro dalla gamba al petto per consentire agli infermieri di girarlo e medicare la piaga che ha al posto della natica sinistra. Quel 29 maggio in 70 sono arrivati in ospedale, tutti colpiti da proiettili ad alta velocità, sette sono morti quasi subito. Nabi parla con un filo di voce: «Gli americani dicono che sono venuti qui ad aiutarci, allora perchè ci sparano addosso?», sarà per il tono di voce flebile ma non si percepisce rabbia nella sua domanda, piuttosto un'antica rassegnazione.

E' stata invece una bomba, quella del 5 luglio scorso, esplosa vicino al ministero della giustizia, a strappare la gamba sinistra di Mohammed Amin, 33 anni, 6 figli, anche lui ricoverato nell'ospedale di Emergency, i medici stanno tentando in tutti i modi di salvargli l'altra. Amin vendeva verdura con il suo Karachi (carrettino): "Mentre stavo servendo un cliente mi è sembrato che qualcuno mettesse un pacco sotto il mio Karachi, poi non ricordo più nulla se non l'esplosione". Per l'ospedale gira una piccola peste, si chiama Sami ed ha 9 anni, si diverte a dare pugni improvvisi ai pazienti in trazione, li dà con la mano buona, chè l'altra è chiusa stretta nelle bende. Sami ha raccattato «un oggetto piccolo e scuro» così descrive la mina che gli è esplosa in mano portandogli via tre dita. Quando il giorno di visita finisce e la madre di Sami se ne va, lui diventa triste ed allora ha bisogno di coccole, la nuca di Sami è devastata da un'ustione, un incidente domestico provocato da una cucina rudimentale a kerosene. Sul corpo di bambino di Sami i segni della storia eterna dell'Afghanistan: la miseria che non finisce, la guerra che continua. Il volto sorridente e truccato della bella ragazza della pubblicità del sapone vicino all'aeroporto resta l'unico futile segno di cambiameto nella Kabul di sempre.

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