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Memoriale sul grave ritardo italiano nelle tecnologie fotovoltaiche

di Leonardo Libero - 12/07/2006


Memoriale sul grave ritardo italiano nelle tecnologie fotovoltaiche
e sulle sue cause principali: Enel e “Cip6”

INFORMAZIONI PER I PROFANI DELLA MATERIA
- In un’ora, il Sole irradia sulla Terra tanta energia quanta l’umanità ne consuma in un anno. Sulle sole
terre emerse, in un anno, esso ne irradia per 3.500 volte i consumi energetici annui dell’umanità.
- Sull’Italia, ne irradia ogni anno una quantità tale da poter coprire almeno 5 volte il fabbisogno
elettrico nazionale, occupando con generatori fotovoltaici anche solo i tetti degli edifici già esistenti.
Senza contare il forte contributo in termini di energia che potrebbe venire anche dagli impianti
eliotermici (collettori solari per acqua calda).
- In Europa, l’Italia è la grande potenza economica meno autosufficiente per l’energia. Essa importa
oltre i quattro quinti del suo fabbisogno, sotto forma di petrolio, metano, carbone, elettricità. Un
handicap per la competitività del paese e una remora alla sua autonomia in politica estera.
- Malgrado questo, l’Italia è uno dei paesi progrediti che meno utilizzano l’energia solare per produrre
calore o elettricità. Nell’eliotermico è battuta perfino da due paesi piccoli, ma diversissimi fra loro, la
Grecia e l’Austria, per 200 a 8 (mq di collettori solari ogni 1000 abitanti). Nel fotovoltaico (in seguito,
FV) è surclassata anche da paesi molto meno soleggiati, come la Germania, la Svizzera, l’Olanda, il
Giappone, ed è perfino superata da paesi nordici come la Finlandia e la Norvegia. Se si riflette su tale
assurda situazione in base al criterio del “cui prodest”, già di primo acchito sorgono sospetti
inquietanti, e tanto più alla luce di quanto esporrò in seguito.
- Secondo proiezioni di fonte qualificata, il costo dei materiali FV è destinato a dimezzarsi entro i
prossimi dieci anni (in passato, del resto, si è sempre dimezzato ogni circa dieci anni). Previsione che
tuttavia è probabilmente troppo prudente, tenuto conto che la “conversione fotovoltaica” è un
fenomeno elettronico e che nel settore elettronico il crescere dei volumi di produzione ha sempre
determinato riduzioni di costi tanto veloci – e perfino esponenziali - da mettere in crisi le stesse aziende
produttrici (si pensi ai calcolatori e ai telefoni cellulari).
- Secondo l’IEA – International Energy Agency - la potenza fotovoltaica installata a fine 2004 nei 20
paesi più progrediti (esclusi quindi quelli meno progrediti o del Terzo Mondo, dove pure il Fv è
presente e contribuisce a migliorarvi le condizioni di vita) ammontava a 2.595,6 MWp. Nella stessa
statistica l’Italia - sesta o settima potenza industriale del mondo - compariva con … 30,7 MWp. Questo
anche perché essa è in ritardo di almeno 15 anni nella ricerca sulle tecnologie solari e nella loro
diffusione
- Di tale pesante gap italiano ha precise responsabilità l’Enel , ma ne hanno anche, e chiaramente non
solo colpose, i governi che si sono succeduti dalla metà degli anni ’80 in poi; poiché l’Enel è stato a
lungo di totale proprietà del ministero del Tesoro ed è tutt’ora di prevalente proprietà di quel ministero.
Tali responsabilità sono state più volte pubblicamente denunciate e documentate negli ultimi anni
anche su “Tuttoscienze”, supplemento settimanale di uno dei tre quotidiani nazionali più diffusi, La
Stampa di Torino, senza suscitare la minima reazione né dall’Enel né dal governo in carica.
I PRIMI IMPIEGHI PRATICI DELLA “CONVERSIONE FOTOVOLTAICA”
Alcuni materiali convertono in energia elettrica una parte dell’energia luminosa che li colpisce. Il
fenomeno fu scoperto da Edmondo Becquerel nel 1839, fu spiegato solo settant’anni dopo (1909) da
Albert Einstein ed ebbe le sue prime utilizzazioni pratiche “di potenza” solo nel 1956, come fonte di
energia per il satellite artificiale americano Vanguard.
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Col diminuire dei costi dei materiali FV, questi trovarono impiego nei casi in cui fosse necessario avere
elettricità in un luogo isolato, e soleggiato, ma fosse troppo costosa la stesura di una linea elettrica. In
quei casi si usano anche oggi i cosiddetti “impianti ad accumulo”. Nei quali un generatore FV alimenta
l’utenza “in parallelo” con un accumulatore, che funge da volano del sistema.
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li impianti FV di quel tipo sono detti anche “a isola”, per distinguerli da quelli “connessi a rete”, che
sono entrati in scena in anni più recenti e che sono il principale oggetto di questo memoriale.
IL FOTOVOLTAICO COLLEGATO ALLA RETE ELETTRICA
I motivi di un successo mondiale – La “decentralizzazione”
Da tempo molti esperti – anche in seguito alla constatazione di quanto possano essere estesi e
prolungati i “black out” causati da casuali avarie di centrale o di rete – sostengono che occorre
“decentralizzare” la produzione di elettricità. A quelle ragioni organizzative e tecniche se ne sono
aggiunte altre, strategiche, dopo che i fatti tragici dell’11 settembre 2001 hanno messo in evidenza la
vulnerabilità dei grandi complessi.
Un contributo sostanziale alla decentralizzazione può venire dalla disseminazione sul territorio di
piccoli (o meno piccoli) generatori FV, in prevalenza privati, collocati sugli edifici esistenti e connessi
alla rete di distribuzione elettrica pubblica. L’energia da essi prodotta viene versata nella rete, che
funge da “accumulatore” e dalla quale gli utenti la preleveranno in seguito, secondo le necessità
contingenti di ciascuno di essi. Il sistema presenta i seguenti vantaggi:
· Produce elettricità nuova, e“pulita”, senza sottrarre nuovo spazio al verde e all’agricoltura, in
quanto utilizza aree già occupate
· La produce durante le “punte” della richiesta; che avvengono di giorno, non di notte come si
potrebbe credere
· La produce vicino a dove viene consumata; cosicchè limita le sensibili dispersioni che avvengono
durante il suo trasporto sulle lunghe distanze
· In conseguenza dei due punti precedenti, contribuisce a ottimizzarne la distribuzione (n.b. sono
stati in prevalenza problemi di distribuzione a determinare i black out avvenuti nel 2003 in USA,
Italia, Regno Unito, Francia, Svezia e Danimarca)
· Quanto più esso si diffonde tanto più si dirada nel tempo la costosa esigenza periodica di adeguare
la portata delle reti all’aumento della richiesta
· Stabilisce un rapporto di dare-avere fra i proprietari degli impianti e le società distributrici; cosa
che se equamente regolata sotto l’aspetto economico può essere di reciproco vantaggio e che
contribuisce comunque a diffondere fra l’utenza elettrica quella “consapevolezza energetica” che
oggi è sempre più necessaria.
Cenni storici sul fotovoltaico collegato a rete
Che si sappia, il primo generatore FV privato, integrato in un edificio e collegato alla rete elettrica
pubblica, fu realizzato negli Stati Uniti nel 1980.
In Svizzera, nel 1984 erano certamente già in funzione almeno una quarantina di quegli impianti; e nel
1991, in occasione del 700.mo anniversario dell’indipendenza elvetica, fu varato un programma di
promozione del solare. Gli svizzeri avevano infatti scoperto che se avessero “solarizzato” con quel
sistema i tetti delle loro abitazioni, ne avrebbero ricavato tanta elettricità da coprire venti volte il
fabbisogno delle loro famiglie (pari a un terzo di quello federale).
La Germania Federale aveva calcolato che se avesse fatto lo stesso con le sole superfici occupate dalle
sue industrie, ne avrebbe ricavato oltre il doppio del suo fabbisogno elettrico nazionale (che era di 330
miliardi di kWh l’anno). Perciò nel 1991 - poco prima della riunificazione - aveva varato il programma
“1000 tetti al fotovoltaico”; che anche grazie alla riunificazione ne aveva poi fatto realizzare 2.500. A
quel programma ne seguì uno per 100.000 tetti fotovoltaici e poi un terzo, lanciato dalla legge EEG del
21 luglio 2004; legge, che incentiva tutte le fonti rinnovabili, dalle quali si propone di ricavare almeno
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il 12,5% del fabbisogno elettrico nazionale entro il 2010 e almeno il 20% entro il 2020. Cosicché oggi
la Germania, che ha giacimenti di carbone bastanti ad essa per alcuni secoli e 20 centrali nucleari, è
però prima al mondo nell’eolico e seconda solo al Giappone nel FV.
Alla fine del 2000 gli impianti FV collegati a rete coprivano già il 44 per cento del mercato FV
mondiale. Oggi ne coprono oltre il 90 per cento.
In Italia, fino a tutto il 2000, non risultavano in funzione generatori solari locali privati collegati a rete.
E quelli “sperimentali” realizzati dall’Enel erano meno di 10.
L’Enel e il fotovoltaico collegato a rete
Quando, alla metà degli anni ’80, i primi generatori solari privati collegati a rete comparvero sulla
scena energetica mondiale l’Enel era monopolista elettrico in Italia. E la sua reazione a quella novità,
che gli esperti esteri percepirono subito come storica, fu quella di ignorarla e di farla ignorare per anni
alle sue Sedi periferiche. Le quali, alle richieste degli utenti interessati alla cosa, continuarono a
rispondere di non averne mai sentito parlare, anche dopo che sulle riviste specializzate estere il “grid
connected PV” era diventato uno degli argomenti più trattati.
Nel 1992-93 ignorare la fonte fotovoltaica non fu più decentemente possibile nemmeno per l’Enel.
Così esso fece finta che per essere all’avanguardia in quel campo si dovesse avere una grande centrale
FV e investì (buttò) 60 miliardi di lire per realizzarne a Serre (Salerno) una da 70.000 metri quadri. La
quale è tuttora una delle maggiori al mondo perchè inaugurata quando ormai i mega-impianti solari
erano obsoleti dato che il problema di trovare superfici da coprire di materiali FV era stato risolto con i
“tetti fotovoltaici”. Particolare pietoso (o scandaloso?): di aver buttato i suoi - anzi, i nostri - soldi
nell’inutile centrale di Serre l’Enel si vanta ancora adesso.
Mentre l’Enel si baloccava a Serre, gli italiani più animati da spirito innovativo avrebbero voluto farsi
installare un “tetto fotovoltaico” collegato a rete, solo per l’ambizione di essere fra i primi ad averne
uno. La cosa però non era in pratica possibile perchè mancava una norma tecnica nazionale sulle
interfacce di collegamento fra i generatori e la rete, i cosiddetti “inverter”; una normativa cioè simile a
quelle adottate dai molti paesi nei quali il nuovo sistema si andava diffondendo.
Il problema è fondamentale perchè quelle interfacce devono: a)- convertire la corrente continua erogata
dal generatore FV in corrente alternata, di tensione, frequenza e fase esattamente uguali a quelle della
corrente di rete; b)- disconnettere immediatamente il generatore dalla rete quando in essa venisse a
mancare la corrente.
Alla metà degli anni ’90 gli impianti FV connessi a rete si erano già diffusi a migliaia nel mondo (oltre
2.000 nella sola Germania) ed erano in regolare produzione decine di modelli di “inverter”, testati e
approvati dagli organi competenti di paesi avanzatissimi, come gli USA, la Germania, la Svizzera, il
Regno Unito, l’Olanda, il Giappone. Ciò malgrado l’Enel, per consentire l’allacciamento alla rete di un
generatore FV dotato di uno di quegli sperimentati e garantiti inverter esteri (non ne esistevano di
italiani, non esistendo ancora la norma nazionale), pretendeva che vi fosse interposto un ulteriore
apparato di sicurezza, di sua esclusiva fiducia e di costo non trascurabile (n.b., lo pretende tutt’ora).
In Italia il potere normativo sugli impianti elettrici, per la legge 186/1968, è del CEI - Comitato
Elettrotecnico Italiano. Il quale, per redigere la nuova norma sugli inverter, aveva costituito una
commissione, che comprendeva anche tecnici Enel e – temo proprio per questo - trascinava da tempo i
suoi lavori senza concluderli. Nel 1995, una “sveglia” le era però venuta dalla Norma europea EN
61727, che riguardava appunto gli inverter e doveva essere recepita nelle legislazioni nazionali UE
entro aprile 1996. Si trattava in sostanza di apportare pochi adattamenti locali a un testo già scritto e
riguardante apparati già funzionanti a migliaia in Europa. Eppure solo nel novembre 1997, con 19 mesi
di ritardo sulla scadenza fissata dalla UE, veniva emanata la nuova Norma CEI, la 11/20, terza
edizione. Gli operatori italiani del settore FV attendevano da almeno dieci anni di poter lavorare in
condizioni di parità normativa con i loro colleghi europei, ai quali erano sconosciute le astrusità
tecniche e burocratiche che in forza delle vecchie norme italiane erano loro imposte dall’Enel. Ma
dovettero subito scoprire che la nuova Norma non era completa e che i particolari mancanti avrebbe
dovuto aggiungerveli ….. l’Enel.
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A quel punto era inevitabile chiedersi:
a)- come mai quella commissione CEI avesse protratto per anni i suoi lavori, per poi emanare una
Norma incompleta;
b)- perchè mai avessero fatto parte di quella commissione dei rappresentanti dell’Enel, se poi ne era
uscita una Norma che doveva essere ancora perfezionata dallo stesso Enel;
c)- con quale autorità, da chi e per quali ragioni fosse stato concesso all’Enel un potere normativo in
materia di impianti elettrici ed elettronici, quando la legge n. 186 del 1968, mai abrogata, assegnava e
assegna quel potere esclusivamente al CEI e non prevede che esso possa delegarlo ad altri;
d)- se dietro al suo evidente ostruzionismo l’Enel covasse l’intenzione di impedire lo sviluppo di
aziende italiane nel settore FV per riservarvisi in futuro, se non un monopolio nazionale, almeno una
posizione dominante in Italia (ipotesi oggi confermata dai fatti).
Il 10 novembre 1998 l’on.le Filippo Berselli, di Alleanza Nazionale, presentava una interrogazione a
risposta scritta (n. 4/20617) ai ministri dell’ambiente, della sanità, dell’industria, del lavoro e del
tesoro. Interrogazione con la quale, dopo aver accennato in premessa alle sospettate intenzioni
egemoniche dell’Enel, chiedeva:
- “se sia vero che l’Enel non consente di allacciare alla propria rete i generatori fotovoltaici privati,
ancorchè muniti di interfacce di raccordo conformi alla norma CEI 11/20 terza edizione, ignorando
quindi sia una norma nazionale sia una norma comunitaria” (la EN 61727, da cui la CEI 11/20
deriva, n.d.r.);
- “se sia vero che l’Enel, unico in Europa, condiziona tali allacciamenti all’interposizione, fra quelle
interfacce e la propria rete, di particolari e costosi apparati di sicurezza, prodotti da una sola ditta, di
sua esclusiva fiducia”;
- “se sia vero che è stata o sarà emanata una norma per cui un generatore fotovoltaico collegato alla
rete non dovrà produrre più elettricità di quanta il suo proprietario ne consumi, cosicchè il saldo fra
quella versata in rete e quella prelevata sia sempre positivo solo per la società erogatrice (che nella
stragrande maggioranza dei casi era ed è l’Enel - n.d.r.); ciò che comporterebbe di limitare la potenza
di tali generatori, cioè esattamente l’opposto di quanto richiederebbe l’interesse economico e
ambientale dell’Italia”.
Il 10 giugno 1999 (mesi e anni intanto continuavano a passare ….) rispondeva all’on. Berselli il
ministro dell’Industria (all’epoca, Bersani) “per delega della Presidenza del Consiglio”, quindi a nome
di tutto il governo, con una lunga lettera (n. 24457 di prot.) nella quale, in mezzo a tanta aria fritta, si
trovavano ammissioni sorprendenti; come queste :
- “Spesso, le norme emesse dal CEI attinenti la rete pubblica definiscono solo i criteri e riportano
schemi di principio che hanno, quindi, puro carattere indicativo, lasciando alle società elettriche il
compito di stabilire i dettagli ……. In questi casi, è in generale l’Enel che rende effettivamente
praticabili le norme CEI, mediante la predisposizione dei cosiddetti documenti di unificazione.
Questi documenti recepiscono, esemplificano, dettagliano e integrano le norme CEI e sono
normalmente fatti propri dalle altre società elettriche operanti in Italia (tipicamente le ex
municipalizzate)” (palesemente, il governo non trovava nulla da eccepire né sul fatto che l’Enel
esercitasse, perfino “erga omnes”, un potere normativo che nessuna legge gli aveva mai assegnato; né
sul fatto che ”spesso” il CEI emanasse norme solamente indicative, anziché sempre esaustive come gli
avrebbe imposto la legge 186/1968 ; una illegalità e una negligenza (?) che duravano da anni - n.d.r.).
- “Circa il collegamento alle rete degli impianti di autoproduzione (inclusi quindi anche quelli da
fonti rinnovabili), si applica la norma CEI 11/20 (III ed. del novembre 1997), che ne definisce i
criteri di installazione. Questa norma, come peraltro la precedente (del gennaio 1991), non precisa
compiutamente tutto quanto necessita ad attuare il collegamento fisico di un impianto di
autoproduzione alla rete ……… Nel caso specifico, l’Enel non ha ancora emesso la documentazione
di unificazione che recepisce la III edizione della norma CEI 11/20 (a 19 mesi dall’emanazione della
norma, già emanata con 19 mesi di ritardo sul termine fissato dalla norma europea !! n.d.r); pertanto si
applicano ancora le prescrizioni emanate nel 1995 (a valle della entrata in vigore della precedente
edizione della norma CEI (quella del 1991, n.d.r.), le quali richiedono, ai fini dell’allacciamento,
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l’impiego di protezioni di interfaccia contenute in un pannello dedicato, che deve essere omologato
dall’Enel e che deve essere rispondente ai requisiti e conforme alle caratteristiche indicate in
ulteriori documenti di unificazione Enel” (l’Enel cioè, non solo aveva impiegato quattro anni per
emanare le prescrizioni relative alla norma CEI del 1991, ma di quelle prescrizioni pretendeva ancora
l’osservanza nel 1999, quando la norma CEI del 1991 era decaduta da due anni; e lasciava invece che
rimanesse inapplicabile la norma CEI 11/20 terza edizione, in vigore da due anni; un costante
comportamento dilatorio che rivelava una precisa intenzione ostruzionistica - n.d.r.).
- “I particolari e costosi apparati di sicurezza citati, molto probabilmente, non sono che le medesime
protezioni d’interfaccia in questione. In questo caso è vero che quelle richieste dall’Enel sono più
costose …….. ma non è vero che queste protezioni siano fabbricate da una sola ditta (sono tre o
quattro)” (Sai che differenza? In Europa, i produttori di apparati di quel tipo erano già allora molte
decine - n.d.r.).
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uanto alle possibili intenzioni egemoniche dell’Enel, l’accenno ad esse dell’on.le Berselli non aveva
provocato, in quella lettera di risposta, neanche una timida smentita (chi tace ….).
Il Programma italiano “Tetti fotovoltaici”
Al quesito dell’on.le Borselli circa la norma per cui un generatore solare non avrebbe dovuto produrre
più energia di quanta il proprietario ne consumi, il ministro aveva risposto che “al momento non
risulta che sia allo studio una norma con siffatti contenuti”. Invece, nel 2000, quella norma è stata
puntualmente compresa nel regolamento del programma “Tetti fotovoltaici”, preparato in
collaborazione da ENEA ed Enel, rendendolo così dissuasivo anziché incentivante. Un programma
oltretutto di concezione arcaica, vagamente ispirato – ma non nel meglio – a quello tedesco del 1991; e
infarcito di formalità precauzionali, come se riguardasse arditi esperimenti mai tentati prima e come se
non esistesse già invece una vasta letteratura tecnica ed economica derivata da esperienze fatte sulle
centinaia di migliaia di impianti entrati in servizio nel mondo durante i precedenti 10-15 anni. Un
programma di entità risibile, poiché farà realizzare non più di 2000-2200 impianti. Un programma che
aveva cominciato a far danni prima ancora di partire poiché era stato annunciato imminente, e foriero
di laute sovvenzioni, il 13 novembre 1997, col nome di “10.000 tetti fotovoltaici”. Annuncio che ebbe
il risultato di bloccare il sia pur minimo mercato potenziale, in attesa appunto delle sovvenzioni. Le
quali furono certe solo tre anni dopo, all’inizio del 2001, e in misura complessiva molto minore di
quella inizialmente ipotizzata, per il fatto che lo stato stanziò a quel fine solo 60 miliardi, anziché i
circa 300 in un primo tempo ventilati; nonostante i circa 5.000 miliardi l’anno che esso aveva incassato
per nove anni attraverso i sovrapprezzi elettrici “Cip6” istituiti nel 1992 (v. dettagli in seguito). Non
per caso il nome del programma perse il “10.000” per la strada.
Esso basava la sua azione promozionale su forti sovvenzioni unitarie a fondo perduto a favore di chi,
nel rispetto delle complicatissime norme di cui sopra, si facesse installare un “tetto fotovoltaico”; ma
prevedeva che l’energia eccedente versata in rete venisse non pagata al proprietario del “tetto”, bensì
solo accreditata in conto futuri consumi. Esso inoltre escludeva dalle sovvenzioni i generatori di
potenza superiore allo stretto necessario dei rispettivi proprietari; li voleva cioè il meno potenti
possibile. Proprio il contrario di quello che richiederebbe l’interesse del paese, come già l’on. Berselli
aveva notato nella sua interrogazione.
Il sistema di incentivazione “in conto energia”
Altri paesi, non afflitti da un Enel dominante, avevano optato per sistemi in cui l’acquisto dell’impianto
è facilitato, se mai, con prestiti a tasso agevolato e il suo ammortamento avviene attraverso il
pagamento dell’energia versata in rete a tariffe anche triple o quadruple rispetto al prezzo corrente. Ad
esempio il programma tedesco “100.000 tetti fotovoltaici” pagava ogni kilowattora ben 99 pfennig
(circa 1.000 lire) e ha portato la Germania ad avere, a fine 2003, 410 MW FV installati (alla stessa data,
l’Italia ne aveva 26). L’incentivazione “in conto energia” , anziché “in conto capitale”, esclude inoltre
il rischio di favoritismi, rischio che le erogazioni a fondo perduto comportano sempre. Ma soprattutto
incentiva davvero l’acquirente di un generatore FV a farselo installare il più potente possibile e a
mantenerlo in perfetta efficienza. Il che col finanziamento a fondo perduto spesso non avviene e tanto
meno avviene quando il generatore sia proprietà di un ente pubblico.
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Sono i programmi statali di quel tipo a sostenere la crescita del mercato mondiale FV e della capacità
produttiva mondiale FV. I fondi con i quali superpagare l’elettricità di fonte rinnovabile versata in rete
vengono ricavati attraverso lievi sovrapprezzi sulle tariffe dell’elettricità “normale”. Quella crescita è
quindi “drogata” da sovvenzioni di danaro pubblico. Che però sono in sostanza investimenti in ricerca
e sviluppo, non solo per la tutela dell’ambiente, ma anche per liberare gradualmente i paesi progrediti,
e quelli che aspirano a diventarlo, dalla dipendenza dalle fonti fossili, attraverso un sistema esente dai
rischi connessi al grande idroelettrico e al nucleare (in Italia, il “conto energia” per il FV è poi stato
adottato solo nel 2005, come più avanti vedremo)
Altri due meschini stratagemmi dissuasivi dell’Enel
Pur di ostacolare la diffusione dei generatori privati collegati a rete, l’Enel si è perfino abbassato a
“fare la cresta” sulle spese di allacciamento. Al punto che il 6 agosto 2001 l’Autorità per l’Energia gli
ha “ordinato” di “porre fine a comportamenti lesivi del diritto di allacciamento alla rete elettrica dei
nuovi impianti di produzione”. Era infatti risultato che esso imponeva spese per “opere pregresse” che
l’Autorità riteneva non dovute; spese talvolta anche quattro volte superiori al costo effettivo del nuovo
allacciamento e, lamentava l’Autorità, “tali da scoraggiare l’avvìo di nuove produzioni, in particolare
di piccola taglia, alimentate prevalentemente con fonti rinnovabili di energia”.
Un’altra piccineria furbastra sono i 36  annuali che l’Enel pretende da ogni proprietario di un
generatore FV connesso a rete, a titolo di nolo del secondo contatore, quello che misura i kWh versati.
Importo che si aggiunge, e non si sostituisce, al nolo del primo contatore e che per i piccoli impianti,
nel caso del Programma 10.000 Tetti FV, che li voleva piccoli, riduceva ulteriormente la già risicata
convenienza ad installarli.
Merita ricordare che, paradossalmente, l’Enel ha ostacolato la diffusione del FV in Italia anche e
soprattutto quando suo presidente era Enrico “Chicco” Testa, prima di allora presidente di
Legambiente e oggi presidente di Kyoto Club.
Lo “scandalo Cip6”
Nello stesso 1991 nel quale la Germania avviava il suo programma promozionale, “I 1000 tetti al
fotovoltaico”, in Italia veniva approvata la legge n. 9 sul Piano Energetico Nazionale. Legge il cui
articolo 22 dettava norme in materia di elettricità prodotta da “fonti rinnovabili”, ma che a quelle due
parole ne aggiungeva sciaguratamente altre due: “e assimilate”. E la dizione “fonti rinnovabili e
assimilate” era poi recepita dalla delibera n. 6/1992 del Comitato Interministeriale Prezzi – delibera
oggi nota come “Cip6” – che fissava i prezzi, maggiorati, ai quali lo stato era tenuto a pagare
l’elettricità prodotta da quelle fonti e i sovrapprezzi da imporre agli utenti elettrici a copertura di quelle
maggiorazioni.
Purtroppo, non sono poi mai stati fissati criteri esaurenti per stabilire l’ “assimilabilità” di una fonte alle
rinnovabili. Per cui fra le “assimilate” è stato fatto passare di tutto; e soprattutto metano di origine
fossile, scarti di raffineria petrolifera e rifiuti non biodegradabili (gomma, plastica etc.). Al punto che le
sovvenzioni a quelle fonti “sporche” sono presto diventate largamente prevalenti su quelle alle fonti
“pulite”, cioè alle rinnovabili “vere”. Lo scandalo è di dominio pubblico e ha una dimensione ufficiale
dal 6 novembre 2003, giorno in cui lo ha denunciato, all’unanimità, la Decima Commissione della
Camera; il cui presidente, Bruno Tabacci, lo ha quantificato in 60.000 miliardi di Lire e lo ha definito
“Una tassa occulta in favore dei petrolieri”.
Prima che dalla X^ Commissione, il “caso Cip6” era stato denunciato da Massimo Mucchetti, oggi
commentatore economico del Corriere della Sera, che nel suo libro “Licenziare i padroni?”, uscito nel
marzo 2003, l’aveva definito “Un accordo scandaloso fra il Gotha del capitalismo italiano, l’Enel e il
Governo Amato”. Egli aveva spiegato che scopo principale dell’ “affaire”era stato il salvataggio della
Edison, uscita malconcia dal crack Montedison, e ne aveva indicato i maggiori protagonisti in, appunto,
Edison, ma anche Sondel (gruppo Falk), Eni, Moratti, Garrone, Lucchini. La presentazione
pubblicitaria del libro era stata: “La più grande ladrata del secolo: come le bollette degli italiani
mantengono i francesi dell’EdF”.
Nessuno aveva smentito e tanto meno querelato. Per il semplice motivo che Mucchetti aveva scritto il
vero. Da dati 2003 e 2004 forniti - su nostra richiesta - dall’Autorità per l’Energia (v. tabelle qui
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riprodotte), è in effetti risultato che in quegli anni Edison aveva riscosso, per vendite di elettricità da
fonte “assimilata Cip6”, cioè “sporca”, rispettivamente il 54,6 e il 53,4 per cento dei 3.281,4 e 3.511,5
milioni di euro erogati dal GRTN a quel titolo; cioè 1791,4 e 1875,0 milioni di euro, pari al 63,36 e al
56,7 per cento dei suoi ricavi per vendite (che erano stati 2.827 e 3.303 milioni di euro); incassi senza i
quali essa, palesemente, avrebbe dovuto portare i libri in Tribunale. Di come fosse stata spartita la
“torta” della Cip6 negli 11 anni dal 1992 al 2002 nulla è mai stato pubblicato; nemmeno la X^
Commissione della Camera era riuscita a farsi comunicare quei dati. Ma è logico ritenere che la parte
del leone sia sempre andata alla Edison; che grazie a quella manna è sopravvissuta in così buona salute
da consentire ai suoi azionisti (Capitalia, Banca Intesa, IMI e Fiat) di venderla proficuamente ai
francesi di EdF nel settembre 2005: proprio come Massimo Mucchetti aveva preannunciato.
A proposito ancora dell’influenza esercitata su tali avvenimenti dai cosiddetti “poteri forti”, oggi CEO
(= Chief Executive Officer, cioè Amministratore delegato, ma in inglese fa più fine) di Edison è un
signore il quale, dopo aver fatto alla Fiat una brillante carriera, che in 20 anni lo aveva portato fino
alla carica di Executive Vice President, nel luglio 2001 divenne anche Vice Presidente di Italenergia
(Gruppo Edison) e Presidente di Edison nel settembre dello stesso anno (fonte Edison). A consolazione
dei sovratassati utenti elettrici e degli operatori FV, per decenni ostacolati nel loro lavoro, aggiungo che
(fonte Milano Finanza) nel 2005 gli emolumenti per carica di quel signore sono stati di 1.231.000 euro
(= 2,38 miliardi di Lire) e quelli complessivi, inclusi bonus, premi, stock options, etc. sono stati di
2.661.000 euro (= 5,15 miliardi di Lire).
Dai dati 2003 e 2004 risulta altresì che le quote maggiori di fondi Cip6 erogate dal GRTN in
pagamento di elettricità da fonti rinnovabili vere (40,1 e 31,5 per cento) le ha incassate il Gruppo
Enel. Una eloquente controprova del suo preciso interesse a impedire lo sviluppo di altri produttori,
grandi come piccoli, di elettricità da fonti “pulite”.
  

  
     

 
 
 

  
  

  
 

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La “campagna acquisti” dell’Enel
L’avarizia dello stato nel sostenere lo sviluppo del fotovoltaico in Italia è stata in stridente contrasto
con la prodigalità dell’Enel. Il quale non badò invece a spese per acquisire all’estero i meriti
ambientalistici che si era forse accorto di non possedere qui. Fatto sta che esso possiede la Chi Energy
e la Energia Global International, produttrici di elettricità da fonti rinnovabili, operanti rispettivamente
in USA e in America Latina, oltre a una novantina di impianti minori in 14 stati USA, in Canada e in
Guatemala. In proposito, si deve intanto rilevare la stranezza di acquisizioni fatte non solo all’estero,
ma addirittura oltreoceano. Come se le si fossero volute il più possibile lontane dagli occhi dei
contribuenti italiani (occhio non vede …. ) e dagli organi di informazione e di controllo italiani.
Quanto all’oculatezza di quelle operazioni, per l’acquisto della Chi Energy, avvenuto nel 2000, stando
a mai smentite notizie di stampa l’Enel pagò 730 miliardi di Lire, di cui ben 330 a copertura
dell’esposizione debitoria di quell’azienda. Che non doveva essere molto florida, avendo accumulato
debiti per un ammontare prossimo al suo valore (sempre che essa valesse i 400 miliardi che l’Enel l’ha
pagata). Energia Global International è stata acquistata nel 2001 sborsando 500 miliardi, dei quali
addirittura oltre 400 a copertura dell’esposizione debitoria. In sostanza quindi l’Enel, società di
prevalente proprietà dello stato, per acquistare all’estero quelle sole due aziende ha speso danaro in
prevalenza pubblico per un ammontare venti volte superiore ai 60 miliardi stanziati dallo stato, nel
2001, per finanziare in patria il “Programma Tetti Fotovoltaici”.
Che le intenzioni dell’Enel fossero egemoniche anche per il fotovoltaico è stato confermato dai fatti.
Perché oggi, attraverso Enel-si, esso vende e installa impianti FV collegati a rete. E da una posizione di
sfacciato privilegio contende il già magro mercato italiano ai pochi operatori privati sopravvissuti a
tanti anni di incertezza e di ostruzionismo. Operatori i quali, per vendere un impianto, devono avviare
la relativa pratica anche presso l’Enel; e perciò comunicare nome e indirizzo del possibile compratore
al loro più pericoloso concorrente. E nessuno di loro osa protestare, nel timore che, se lo facesse,
potrebbe aver finito di lavorare in quel settore.
La lunga vicenda Enel-rinnovabili, e in particolare la parte che riguarda il fotovoltaico è insomma un
caso lampante di conflitto d’interessi, inconcepibile in un paese ad economia di mercato. Il fatto che sia
avvenuta e perduri induce a domandarsi se e quanto quel tipo di economia abbia cittadinanza in Italia.
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E’ certo comunque che ne è derivato al paese un danno non solo energetico, economico, tecnologico e
ambientale, ma anche occupazionale. Due conferme autorevoli del fatto che il fotovoltaico sia un
potente “creatore di lavoro” vengono: a)- dalla Banca Sarasin di Basilea, secondo la quale ogni milione
di dollari investito nel fotovoltaico crea 17 posti di lavoro permanenti, contro i soli 1,5 che crea se
investito nel petrolio o nel gas; b)- dall’Associazione Tedesca degli Ingegneri, secondo la quale nel
2010 il FV darà lavoro, nella sola Germania, a 300.000 persone (già oggi sono oltre 50.000).
Il Decreto Legislativo 387 e il “conto energia”
La direttiva europea 2001/77/CE sulla promozione dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili
imponeva agli stati membri di essere recepita nelle normative nazionali entro il 27 ottobre 2003.
L’Italia l’ha recepita col Dgls 387 del 29 dicembre 2003, cioè quasi puntualmente. Peccato che
l’articolo 7 di quel decreto, che riguarda le disposizioni per l’energia solare, sia stato reso esecutivo
solo dopo oltre 15 mesi di attesa, che avevano determinato il blocco quasi totale del settore. Solo il 28
luglio 2005, infatti, il Ministro per le Attività Produttive, Claudio Scajola, è riuscito a emanare un
decreto che introduce anche in Italia il sovvenzionamento in conto energia – “alla tedesca” - degli
impianti FV connessi a rete. E’ riuscito, ho scritto, perché egli ha dovuto anche superare la forte
resistenza anti-FV di alcuni burocrati del suo stesso Ministero; persone ben note per nome e cognome
come temibili oppositori agli operatori italiani e perfino alle riviste straniere del settore.
Sia forse per questo sia forse per insufficiente copertura finanziaria, conseguente alla colossale
distrazione di fondi causata dal raggiro Cip6, il decreto del 28 luglio 2005 prevedeva dei limiti di
potenza FV totale istallata. E già questo appare assurdo in un paese estero-dipendente per l’energia
come è l’Italia, dove limiti a produrla non dovrebbero essercene. Per di più essi erano di 100 MWp
nell’immediato e di 300 MWp al 2015; cioè ridicoli per il Paese del Sole, considerato che nella
brumosa Germania 363 MWp erano stati installati nel solo 2004. Fu perciò subito evidente, e per primo
al ministro, l’esigenza di aumentarli emanando un secondo decreto. La bozza del quale, fortunatamente
trapelata, aumentava sì quei limiti, rispettivamente, a 500 e a 1.000 MWp al 2015, ma peggiorava per
altri versi il primo decreto anziché migliorarlo. L’ultima occasione, prima delle elezioni del 9-10
aprile, per avere una normativa per lo meno accettabile senza dover attendere l’estate inoltrata, era la
seduta del 26 gennaio della Conferenza Stato-Regioni. E in quella circostanza il secondo decreto è stato
emendato per quanto possibile. Ne è risultato un testo del primo decreto, “integrato” col secondo, che è
un capolavoro di burocratese, ma certo non di lingua italiana.
E
bastasse quello. Il peggio è che sia il primo decreto sia il secondo sono infarciti di formalità superflue
e di vere idiozie, travasate nel testo “integrato”. E’ difficile ad esempio non pensare a una precisa
volontà ostruzionistica (unjca alternativa, una totale incompetenza) di fronte alla quantità che esso
contiene di prescrizioni tecniche; le quali sono doverose per i sovvenzionamenti in conto capitale, che
comportano di spendere denaro pubblico per “acquistare” gli impianti; ma sono superfue, con la sola
eccezione di quelle riferite alle interfacce di collegamento a rete, nei sovvenzionamenti in conto
energia; nei quali è il proprietario dell’impianto ad avere interesse per primo alla sua qualità; perchè gli
produca la maggiore possibile quantità di energia per il maggiore possibile numero di anni. Ed è anzi
proprio questa la considerazione che ha indotto i tedeschi, il cui primo programma “1.000 tetti
fotovoltaici” del 1991 sovvenzionava gli impianti soprattutto in conto capitale, ad adottare il solo
sovvenzionamento in conto energia per il successivo programma “100.000 tetti fotovoltaici”, concluso
nel 2003, e per quello attualmente in corso.
Nel testo “integrato” dei due decreti spiccano inoltre tre “perle” uniche al mondo, in quanto
sconosciute sia alla legge tedesca EEG sulle fonti rinnovabili – alla quale ci si doveva ispirare – sia alle
analoghe norme vigenti in altri paesi: a)- la riserva alle persone giuridiche dell’utilizzo della pur
collaudatissima tecnologia a film sottile (come dire, “vietata ai minori”); b)- l’obbligo che i moduli FV
degli impianti da sovvenzionare siano nuovi di fabbrica (quelli non proprio nuovi si buttano via? ma lo
sa quanto costano, e quanto durano, l’estensore della norma?); c)- la gara d’appalto alla minore tariffa
incentivante, per gli impianti di maggiore potenza. Tre ingiustificate stravaganze dalle quali la perversa
intenzione di creare problemi, complicare le cose e favorire comunque i maggiori operatori – primo fra
essi, ancora una volta, l’Enel - traspare al di là di ogni dubbio.
Scrivo – anzi aggiorno - queste note dopo che sono passati quasi tre mesi dalle elezioni. Frattanto il
prezzo del petrolio si è mantenuto intorno ai 70 dollari il barile, con una punta ad oltre 74, l’uranio ha
quasi sestuplicato il suo prezzo negli ultimi 5 anni e gli USA – che hanno 108 centrali nucleari nonchè
petrolio, carbone e metano sul proprio territorio - hanno deciso di aumentare gli investimenti in ricerca
e sviluppo sul FV dai 59,9 milioni di dollari del 2006 a 139 milioni di dollari per il 2007.
Gli operatori FV privati italiani avevano sperato che il nuovo governo, quale che ne fosse il “colore”,
prendesse molto sul serio le possibilità offerte dalle fonti rinnovabili, e in modo speciale dalla solare.
Di conseguenza avevano contato che esso facesse riscrivere in italiano, anziché in burocratese, le
norme che le riguardano, depurasse tali norme delle difficoltà superflue e stupide che vi sono state
inserite e destinasse ad altri incarichi, con poteri meno discrezionali, coloro che per decenni si erano
“divertiti” a mettere bastoni fra le ruote a chi in quel settore vorrebbe lavorare e contribuire così anche
ad attenuare i problemi del paese. Ma soprattutto avevano fatto presente l’esigenza non rimandabile che
anche il limite dei 1.000 MWp di potenza totale installata al 2015 venisse ancora nettamente aumentato
o meglio, come sarebbe più logico, eliminato del tutto. Questo perché già al 30 marzo scorso il totale
delle domande di allacciamento per fruire del “conto energia”, fra accolte e in giacenza presso il
GRTN, ammontava a circa 1.600 MWp, cioè a una potenza circa 1,6 volte maggiore di quella che si
sarebbe dovuta raggiungere soltanto nove anni dopo. Di conseguenza il settore è praticamente
bloccato.
Purtroppo, fin’ora, l’unica “novità” da segnalare è un Disegno di Legge sull’energia presentato a metà
giugno dal titolare del nuovo Ministero dello Sviluppo Economico (erede del Ministero Attività
Produttive, a sua volta erede del Ministero dell’Industria e Commercio: nel cambiare i nomi, ma solo i
nomi, alle cose, noi italiani siamo fenomenali), Pierluigi Bersani. Un documento nel quale la fonte
fotovoltaica non è nemmeno nominata e le uniche fonti rinnovabili da sostenere sembrerebbero essere
(uso il condizionale dubitativo perché non riesco a crederci) il solare termico, che è ottima cosa, e i
biocarburanti; i quali invece sono, di gran lunga il peggior sistema con cui si può utilizzare la
radiazione solare incidente su una certa superficie per ricavarne energia. Eloquente in proposito questo
confronto, che traggo dal libro “Le nuove fonti di energia rinnovabile” dell’amico Domenico Coiante:
per produrre energia equivalente a 1 Mtep (Megatonnellata di petrolio) essi richiedono di impegnare
una superficie di 13.000 (tredicimila) kmq, contro i 48 che ne richiede il solare termico e i 67 che ne
richiede il solare fotovoltaico.