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La democrazia e i suoi nemici*

di Massimo Fini - 12/07/2006

Chiariamo subito che noi non siamo nella linea di coloro che attaccano la democrazia perché, in quanto "governo del popolo", o comunque della maggioranza, non può essere che governo dei mediocri. Questa linea, che è antichissima, che è di destra quanto di sinistra, ha inizio nel v seco­lo avanti Cristo col primissimo critico della de­mocrazia, quell'anonimo ateniese, contempora­neo di Pericle, che in un libello, Athenaion Poli-teia, scrive «Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono nemici della democrazia»1, passa per i ben più autorevoli Piatone e Aristotele, ri­torna in Hegel, quando ventitré secoli dopo il problema si ripropone, e poi, attraverso Louis Blanc, Summer Maine, Antonio Gramsci e tantis­simi altri, arriva fino ai giorni nostri2.

1   Anonimo ateniese, La democrazia come violenza, Palermo,
Sellerie, 1990, p. 16.

2   Quanto alla sinistra vedi, da ultimissimo, L. Canfora, Criti-

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I bolscevichi, che, per quanto possa suonar oggi strano alle nostre orecchie, volevano an­ch'essi costruire una forma di democrazia, quel­la che prenderà il nome di "democrazia sociali­sta" o "popolare" o "progressiva", cercarono di superare questo passaggio attraverso la teoria leninista, e poco marxista, delle "avanguardie". Le avanguardie non dovevano solo condurre il proletariato (ritenuto, soprattutto quello russo, un po' troppo bruto e indolente e della cui co­scienza di classe non si era evidentemente mol­to convinti) alla conquista del potere, ma una volta conquistatolo e costituitesi esse stesse in partito, avrebbero avuto il compito di guidare la società comunista. Senonché, dopo le convul­sioni della Rivoluzione che partorirono effetti­vamente delle grandi personalità, come sempre nei momenti storici in cui è protagonista la vio­lenza, la prassi leninista portò prima alla con-centrazione del potere nelle mani di un solo uo­mo (il potere passa dal partito al Comitato cen­trale, dal Comitato centrale al Politburo e, in ultimo, dal Politburo al Segretario generale) e poi, e del tutto conseguentemente, a un mecca­nismo di selezione della classe dirigente che, es­sendo basato sulla più abbietta e feudale fedeltà al partito e alla sua gerarchia, coniugata col fi-

ca della retorica democratica, Roma-Bari,  Laterza, 2002,  pp. 4-15.

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deismo ideologico, autentico o simulato, più ot­tuso, finì per scremare non i migliori, ma i me-diocri, anzi i peggiori. Lo stesso Capo supremo non sfugge alla regola. Leone Trotzkij, che fu il grande protagonista dei "dieci giorni che scon­volsero il mondo" (Lenin se ne stava nascosto, sotto una parrucca bionda, alla stazione di Fin­landia), e che poi la burocrazia bolscevica emar­ginò, espulse, costrinse all'esilio e alla fine as­sassinò, definì Stalin «La più eminente medio­crità del partito»3. Nella Critica della retorica democratica Luciano Canfora (che peraltro op­pone alla retorica democratica quella comuni­sta) conclude, piuttosto sconsolato: «Straordi­naria contraddizione quella dei bolscevichi. Eli­tisti par excellence, per la loro stessa concezione del partito, hanno impegnato, senza successo, le loro forze per impedire che l'elite di combatti­mento divenisse, com'è poi divenuta, nomenk-latura»4.

La democrazia liberale è stata più coerente. Accetta il rischio che la classe dirigente possa essere mediocre, in nome di un valore che, di­ce, le sta a cuore molto di più: la libertà. Quel­lo democratico non può e non deve essere un potere carismatico per la semplice ragione che il potere carismatico, in quanto basato sulla

3   L. Trotzkij, Ma vie, Paris, Gallimard, 1953, p. 598.

4   Canfora, Critica della retorica democratica, cit., p. 38.

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forza e inegalitario, ne è l'esatto opposto, se­condo la classica distinzione che ci ha conse­gnato Max Weber: «Il puro carisma non cono­sce nessun'altra legittimità che quella derivante dalla propria forza ripetutamente conferma­ta»5. E aggiunge che i capi carismatici sono «portatori di uno specifico dono del corpo e dello spirito... concepito come soprannaturale (nel senso di non essere accessibile a tutti)»6. In democrazia invece il potere è, in linea di principio, accessibile a tutti. Si sceglie a mag­gioranza, che è lo strumento tecnico cardine di ogni sistema elettorale democratico. E la mag­gioranza sceglie al proprio interno dei consi­mili che la rappresentino e quindi inevitabil­mente dei mediocri perché la maggioranza, per «la contraddition che nol consente», non può essere un'elite. Una circostanza che già angu­stiava Alexis de Tocqueville che ne La demo­crazia in America scrive: «Al mio arrivo negli Stati Uniti fui molto sorpreso fino a qual pun­to il merito... fosse scarso nei governanti... Quando voi entrate nell'aula dei rappresentanti a Washington restate colpiti dall'aspetto volga­re di questa grande assemblea. Invano voi cer­cate un uomo celebre, quasi tutti i suoi mem-

5   M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comu­
nità, 1980, iv, p. 221.

6    Ibid., p. 213.

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bri sono oscuri personaggi il cui nome non vi dice nulla»7.

Noi, a quasi due secoli di distanza, siamo me­no sorpresi di Tocqueville: la mediocrità dei go­vernanti è il prezzo che la democrazia paga, coe-rentemente a se stessa. Riferendosi alla demo­crazia in un'epoca di dittature Bertolt Brecht esclamava «beato il Paese che non ha bisogno né di santi né di eroi» e Borges, pensando alla Svizzera, dove aveva vissuto a lungo, a Gine­vra, la città di Rousseau, afferma che è vera­mente democratico il Paese dove «no se sabe come se llama el Presedente»8. La democrazia diffida delle personalità eccezionali e tanto più ne diffida dopo che, nella prima metà del No­vecento, si è visto che cosa sono capaci di com­binare. E se in frangenti di particolare pericolo è costretta a ricorrervi si comporta come la Ro­ma repubblicana che nominava un dictator a tempo di cui si sbarazzava quando non era più necessario, come fecero gli inglesi con Winston Churchill scaricato dopo che aveva vinto la guerra.

La democrazia preferisce le "aule sorde e gri­gie", come Mussolini definì il Parlamento italia-

7   A. de Tocqueville, La democrazia in America, Milano, Riz-
zoli, 2002, pp. 210, 212, 213.

8   L. Borges, Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1989, i, p.

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no, ai fuochi di artificio rutilanti perché si sa che sono divertimenti pericolosi. Si preferisco­no uomini modesti agli individui "eccezional­mente dotati" di cui parla Weber perché costo­ro, anche se arrivano al potere utilizzando il metodo democratico, aiutati magari da qualche legnata, tendono inesorabilmente a metterselo sotto i piedi e a distruggerlo, come fecero Hit­ler e Mussolini.

La democrazia - i liberali ce lo dicono sem­pre, anzi ci rintronano, ed è quindi nostro do­vere prenderli sul serio - è un esercizio faticoso e oscuro. La democrazia, diciamolo pure, diffi­da, a buon diritto, dell'intelligenza. E quindi ha costruito un meccanismo, le elezioni basate sul principio della maggioranza, che necessaria­mente e coerentemente premia i mediocri. A scanso del pericolo e delle dittature, il cui ricor­do, nel nostro mondo, è recente e ancora bru­ciante. Ed è proprio dal costante raffronto, esplicito e implicito, con le dittature che la de­mocrazia liberale trae oggi il suo maggior moti­vo di credibilità presso le opinioni pubbliche occidentali, come se si trattasse di un "aut aut" e non fossero mai esistiti, non esistano, non possano esistere e non siano nemmeno immagi­nabili sistemi diversi dall'una e dalle altre.

Non attacchiamo la democrazia liberale nem­meno sulla linea, prettamente marxista, che le addebita di non aver eliminato le disuguaglian-

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ze economiche e sociali, ma di averle anzi ac­centuate.

Negli Stati Uniti, Paese modello della demo­crazia, un quinto delle famiglie americane si ac­caparra il 45,8% del reddito nazionale, mentre l'ultimo quinto ha solo il 3,2% (cioè il primo quinto ha un reddito 14,3 volte superiore). E salendo ancora verso il vertice della piramide si vede che l'l% delle famiglie ha il 6,8% del red­dito nazionale, cioè più del doppio di quello che ha, tutto insieme, il 20% delle famiglie americane più povere. Il rapporto è di quaranta a uno. E si tratta di stime piuttosto vecchiotte, da correggere sicuramente al rialzo perché è do­cumentato che nei Paesi industrializzati la forbi­ce fra ricchi e poveri non fa che aumentare. Tendenza confermata anche dai più recenti dati italiani: nel 1980 il 10% delle famiglie più pove­re aveva il 2,4% del reddito nazionale, oggi la percentuale, già così infima da apparire difficil­mente comprimibile, è scesa al 2,1%9. Inoltre, ripetto al 1980, questo già miserrimo 2,1% va ulteriormente tarato perché in tutti i Paesi indu­strializzati la globalizzazione, vale a dire la mici­diale competizione economica mondiale, ha in­debolito il welfare per i ceti medi, medio-bassi e poveri.

In ogni caso all'interno del mondo occidenta-

9 Dati Bankitalia, gennaio 2002.

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le le disuguaglianze economiche, sia in termini di reddito che patrimoniali, sono enormemente superiori rispetto al passato preindustriale e predemocratico. Perché se è vero che Bill Ga­tes, Soros e i loro pari sono molto più ricchi di qualsiasi nobile dell'ancien régime (anche per­ché la ricchezza basata sulla terra ha dei limiti fisici, quella finanziaria no) è pure vero che i poveri non sono mai stati così poveri rispetto a un tempo in cui, tranne una percentuale quasi irrisoria di mendichi (l'l%)10, ognuno, per quanto fosse situato sui gradini più bassi della scala sociale, possedeva comunque una casa, un po' di terra, del bestiame e poteva contare su una fittissima rete di servitù comuni. La liberal-democrazia, combinata col sistema industriale cui è strettamente legata, ha ingigantito le diffe­renze economiche oltre ad averle rese psicologi­camente intollerabili in un mondo di teorica­mente uguali. È avvenuto esattamente il contra­rio di ciò che comunemente crediamo - o che ci vien fatto credere - e sono le statistiche, nude e crude, a dimostrarlo11.

10 Negli Stati Uniti gli individui sotto la cosiddetta "soglia
di povertà", poveri non in senso relativo, rispetto agli standard
americani, ma assoluto, sono 35 milioni, il 17% circa della po­
polazione, negli altri Paesi industrializzati la percentuale si aggi­
ra intorno al 12%.

11 Per un raffronto più puntuale e documentato fra le disu­
guaglianze nelle società democratiche di oggi e quelle predemo-

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Ma rispetto al passato preindustriale sono au­mentate anche le disuguaglianze di status. Il che pare davvero incredibile visto che la società del-l'ancien régime, predemocratica, era divisa in caste, fissate giuridicamente. Eppure oggi gli stili di vita della pop star, dell'attore di cinema, dell'anchorman, del campione di calcio, del grande imprenditore, del grande finanziere, del leader politico, persine della valletta di successo e insomma di quello che si chiama lo star-sy-stem, sono molto più lontani dal cittadino co­mune di quanto non lo fossero quelli del feuda­tario rispetto al suo contadino.

Ma benché Alexis de Tocqueville, uno dei padri nobili della liberaldemocrazia, sicuramen­te il più acuto, inizi il suo libro più noto, La de­mocrazia in America, scritto dopo un soggiorno di due anni (1831-1832) negli Stati Uniti, con queste esatte parole: «Tra le cose nuove che at­tirarono la mia attenzione durante il mio sog­giorno negli Stati Uniti una soprattutto mi colpì assai profondamente: l'eguaglianza delle condi­zioni»12, la democrazia liberale, a differenza di quella "popolare", cioè marxista, non ha mai avuto fra i suoi obbiettivi l'uguaglianza sostan-

cratiche e preindustriali vedi M. Fini, La Ragione aveva Torto?, prima ed. Milano, Camunia, 1985, pp. 101-137, Venezia, Marsi-lio, 20034.

12 Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 19.

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ziale, economica e sociale, dei cittadini. Anzi è la più convinta avversaria di questo tipo di uguaglianza, poiché si basa sull'individualismo, eletto dai suoi maggiori teorici, da Locke a Stuart Mill, a valore supremo. Nella democrazia liberale ogni individuo ha diritto di rincorrere liberamente il proprio successo personale, eco­nomico e sociale. In più il liberalismo ritiene la democrazia sostanziale, oltre che impossibile, perché, come diceva Aristotele, «la verità è che gli uomini non sono uguali» (caso mai sono pa­ri, che è tutt'altra cosa), controproducente dal punto di vista economico. La proprietà privata, affermava Locke, che fu forse il primo a porre la questione in questi termini13, è più efficente e produttiva di quella comune o, meglio, comuni­taria che esisteva nel Medioevo.

La democrazia liberale si accontenta quindi dell'uguaglianza formale, cioè dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Non la si può perciò accusare di incoerenza se non ha raggiunto un obbiettivo, l'uguaglianza sostan­ziale, che non è mai stato il suo.

Né noi siamo fra coloro che ritengono che le democrazie siano inefficienti e imbelli. È pro­prio sul piano dell'efficienza che le democrazie

13 Two Treatises of Government sono del 1690. J. Locke, Trattato sul governo, Roma, Editori Riuniti, 2002 e Id., Il secon­do trattato sul governo, Milano, Rizzoli, 1998.

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hanno battuto il sistema sovietico. E non sono imbelli perché al momento opportuno hanno sconfitto il naxismo tedesco, una delle più poten­ti macchine da guerra che siano mai apparse sul­la faccia della terra. Sono così poco imbelli che oggi dominano il mondo e le scarpe chiodate dei loro soldati calcano ogni sorta di suolo.

Infine noi non attacchiamo la democrazia sulla linea che partendo da De Maistre si arram­pica, attraverso Nietzsche, fino a Cari Schmitt, Leo Strauss, Alasdair McIntyre, Roberto Man-gabeira Unger e agli infiniti altri che fanno cari­co alla liberaldemocrazia della straordinaria de­cadenza, soprattutto morale, della società mo­derna14.

Non è la decadenza, morale o meno, che ci interessa qui. Ma la coerenza. Noi crediamo che tutti i sistemi siano più o meno buoni, o che co­munque abbiano la possibilità di reggere, a se­conda che rispettino le premesse e i postulati su cui poggiano o affermano di farlo. Se questa coerenza non c'è, o viene meno, il sistema, pri­ma o poi, crolla. Non perché perda la legittimi­tà - che nessun sistema politico e nessun potere ha - ma la credenza nella sua legittimità da par­te di coloro che vi sono sottoposti. Il feudalesi­mo ha funzionato discretamente per parecchi

14 S. Holmes, Anatomia dell' antiliberalismo, Milano, Edizio­ni di Comunità, 1995.

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secoli, in Europa. I patti erano chiari. I contadi­ni e gli artigiani lavoravano e mantenevano la comunità, i signori, in cambio, avevano però due obblighi precisi: dovevano difendere il ter­ritorio («esporre i loro corpi e cavalcature in guerra» come si esprimono significativamente, verso la fine del Trecento, due scudieri di Varen-nes-en-Argonne rispondendo a qualcuno che gli chiedeva ragione dei privilegi dei nobili)15 e amministrare la giustizia nei loro feudi. Quan­do delegano ad altri il mestiere delle armi, lascia­no, di fatto, i loro castelli e si trasferiscono a Ver-sailles a fare, imparruccati, imbellettati e merlet­tati, i bellimbusti, la borghesia li caccerà, giusta­mente, a pedate nel sedere.

Temo che la democrazia sia su questa strada. Che, anzi, ci sia sempre stata. Perché man mano che si svolge il filo della Storia - e son già due secoli che balliamo questa musica -- diventa sempre più evidente che la democrazia rappre­sentativa non solo non rispetta i suoi presuppo­sti e i suoi roboanti principi, ma non è assoluta­mente in grado di farlo né mai lo farà.

Certo, è ovvio che il modello reale non può mai corrispondere a quello ideale, come si af­fanna a ripetere ossessivamente, quasi a segnala­re ingenuamente una cattiva coscienza, Giovan-

15 C. Aimond, Histoire de la ville de Varennes-en-Argonne, Contaut-Lagucrre, 1928, p. 50.

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ni Sartori per tutto il suo Democrazia e defini­zioni16. Ma ci sono dei limiti alla discrepanza fra ideale e reale. Anche il "socialismo reale" non poteva corrispondere a quello ideale. Ma se si parte dall'idea di liberare l'uomo e invece lo si rende schiavo non vuoi dire semplicemente che sulla strada dell'ideale si è messa di mezzo la realtà con tutta la sua forza di attrito e la sua opacità, vuol dire che si è realizzata una cosa opposta a quella che si diceva di voler fare. Lo stesso vale per la democrazia. La democrazia rappresentativa, liberale, borghese, insomma la "democrazia reale" come la conosciamo e la vi­viamo, e che è attualmente egemone, non è la democrazia. È una finzione. Una parodia. Un imbroglio. Una frode. Una truffa. Noi la defi­niamo in modo brutale, e in una prima appros­simazione che pecca per difetto (perché, come vedremo, la realtà è persino peggiore): «un mo­do per metterlo nel culo alla gente col suo con­senso».

16 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, II Mulino, 1957.

*tratto da Sudditi, manifesto contro la democrazia, Marsilio